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Art. 1218 c.c.
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18 Ottobre 2023

Amministratore di comodo e doveri gestori

L’amministratore di società, in forza della mera accettazione dell’incarico, è gravato dagli specifici obblighi contemplati dalla legge o dallo statuto nonché, dal generale dovere di esercitare le proprie funzioni con diligenza e in assenza di conflitto di interessi in vista del perseguimento dell’oggetto sociale. In particolare, l’accettazione del mandato gestorio comporta per l’amministratore l’obbligo di attivarsi affinché i beni e le risorse di pertinenza della società vengano destinati al perseguimento dei fini sociali e non siano in altro modo distratti o distolti. Pertanto, non esclude la responsabilità per mala gestio l’ aver assunto solo “formalmente” la carica di amministratore e di non aver, di fatto, gestito la società; ché, anzi, l’inerzia dell’amministratore di diritto e la circostanza che lo stesso, pur avendo accettato la carica di amministratore unico, abbia omesso le attività – anche di controllo – dovute in ragione della assunzione del mandato gestorio vale di per sé a fondare la responsabilità anche per eventuali sottrazioni o distrazioni di risorse sociali poste in essere da terzi senza l’opposizione del soggetto che, per legge, è gravato dal dovere di preservare l’integrità del patrimonio sociale e la destinazione dello stesso all’attività di impresa.

Il cosiddetto amministratore di comodo (o “testa di legno”) non può mai invocare tale sua posizione (di non concreta attività di gestione) per essere ritenuto indenne da responsabilità conseguente ad atti di mala gestio compiuti o, comunque, non impediti dal medesimo.

È amministratore di fatto chi, senza valido titolo – ad esempio, per nomina irregolare, per usurpazione dei poteri o per assenza di una formale investitura – gestisce, da solo o anche con l’amministratore formale, la società, esercitando con sistematicità e completezza un potere di fatto corrispondente a quello degli amministratori di diritto.

5 Ottobre 2023

Azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare: questioni processuali

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. per le s.p.a. e dall’art. 2476, co. 3 e 6, c.c. per le s.r.l., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in  relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma – quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali -, implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi e indipendenti, con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe, sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione e dei limiti al risarcimento ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali.

L’azione sociale, intrapresa ai sensi dell’art. 2476, co. 3, c.c., mira a far valere la  responsabilità degli amministratori per quelle violazioni dei loro doveri che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Questi, infatti, sono chiamati ad adempiere ai doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, esponendosi a responsabilità per i danni derivanti dall’inosservanza dei cennati doveri. L’inadempimento degli amministratori ai loro obblighi può essere fatto valere direttamente dalla società sicché in ipotesi di esercizio della predetta azione nel caso di fallimento, la sostituzione del curatore alla società fallita è una manifestazione specifica del generale effetto per cui il curatore, ai sensi dell’art. 43 l. fall. sta in giudizio nelle controversie relative ai rapporti patrimoniali compresi nel fallimento.

L’insufficienza patrimoniale – cui si ricollega la responsabilità degli amministratori e dei sindaci della società verso i creditori – deve essere individuata nell’eccedenza delle passività sulle attività del patrimonio netto dell’impresa, ovverossia in una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulti insufficiente al soddisfacimento di questi ultimi. Essa va distinta dall’eventualità della perdita integrale del capitale sociale, dal momento che quest’ultima evenienza può verificarsi anche quando vi è un pareggio tra attivo e passivo perché tutti i beni sono assorbiti dall’importo dei debiti e, quindi, tutti i creditori potrebbero trovare di che soddisfarsi nel patrimonio della società. L’insufficienza patrimoniale è una condizione più grave e definitiva della mera insolvenza, definita dall’art. 5 l. fall. come incapacità di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi una società trovare nell’impossibilità di far fronte ai propri debiti ancorché il patrimonio sia integro, così come potrebbe accadere l’opposto, vale a dire che l’impresa possa presentare una eccedenza del passivo sull’attivo, pur permanendo nelle condizioni di liquidità e di credito richieste (per esempio ricorrendo ad ulteriore indebitamento).

Il criterio dello sbilancio fallimentare può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore; o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza. Il giudice non può pervenire in via automatica ad una liquidazione equitativa del danno secondo tale criterio, ma unicamente laddove il curatore, dopo aver allegato gli inadempimenti dell’amministratore almeno astrattamente idonei a porsi come causa del danno lamentato, indichi le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo.

11 Settembre 2023

Nullità della cessione d’azienda che modifica sostanzialmente l’oggetto sociale della s.r.l. decisa dagli amministratori

La cessione d’azienda è un’operazione straordinaria, avente ad oggetto il trasferimento di un complesso aziendale a fronte di un corrispettivo in denaro o in natura. Ai sensi dell’art. 2112, co. 5, c.c., si considera trasferimento d’azienda una qualsiasi operazione, posta in essere in seguito a cessione contrattuale o fusione, che comporti il mutamento nella titolarità di un’attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità. Per la cessione di azienda è necessaria la forma ad probationem e non ad substantiam, salvo che la forma scritta non sia resa necessaria per la natura dei beni trasferiti o per il tipo di contratto attraverso il quale avviene il trasferimento. Inoltre, se le imprese cedute sono soggette a registrazione presso il registro delle imprese, gli atti di cessione devono essere iscritti presso il registro delle imprese e redatti con atto pubblico o scrittura privata autenticata, prevedendo il deposito della stessa iscrizione, da parte del notaio, entro trenta giorni.

La cessione d’azienda che trasformi l’attività dell’impresa cedente da produttiva a finanziaria rientra tra gli atti che modificano l’oggetto sociale stabilito nell’atto costitutivo, nonché i diritti dei soci. Il difetto del potere rappresentativo degli amministratori in relazione a tale operazione rende invalido l’atto di cessione stipulato dagli stessi in assenza di delibera assembleare ed è opponibile ai terzi, indipendentemente da qualsiasi indagine sull’elemento soggettivo. Ai sensi dell’art. 1418 c.c., infatti, il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, tra cui quella dell’art. 2479, co. 2, n. 5, c.c., che riserva ai soci il diritto di decidere se compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell’oggetto sociale determinato nell’atto costitutivo o una rilevante modificazione dei diritti dei soci.

La cessione di azienda o del ramo di azienda non integra un mero atto ultra vires realizzato dagli amministratori ed occasionalmente estraneo all’oggetto sociale, ma realizza un vero e proprio mutamento del settore di attività della società e del grado di rischio di investimento dei soci. Inoltre, nella categoria generale degli atti ultra vires, si distinguono quelli che, sebbene estranei all’oggetto sociale, non comportano una sua modifica, da quelli estranei in quanto modificativi dell’oggetto sociale. I primi, da individuarsi negli atti aventi contenuto intrinsecamente esorbitante dal perseguimento dello specifico programma economico della società, sono opponibili solo alle condizioni di cui all’art. 2475 bis, co. 2, c.c., mentre i secondi sono sempre opponibili, in quanto posti in essere in violazione di una limitazione legale. Soltanto in relazione a tale ultima categoria di operazioni, quali, appunto, la cessione dell’azienda con modifica di fatto dell’oggetto sociale, il legislatore stabilisce, da un lato, la competenza decisoria dei soci e, dall’altro, l’opponibilità incondizionata ai terzi della violazione di tale regola di competenza da parte degli amministratori. Muovendo da tali premesse, si può affermare che l’art. 2479, co. 2, n. 5, c.c. pone un limite legale inderogabile ai poteri di rappresentanza degli amministratori, la cui violazione – a differenza del superamento dei limiti convenzionali – è sempre opponibile ai terzi. Si esclude, pertanto, che l’atto possa rientrare nella sfera di competenza degli amministratori in forza del carattere generale del loro potere di rappresentanza, sancito dall’art. 2475 bis c.c.

L’assenza di una decisione dei soci configura, così, la violazione di una norma inderogabile posta a presidio dei limiti non convenzionali, bensì legali del potere di rappresentanza degli amministratori, sicché non può essere invocata l’inopponibilità dell’invalidità dell’atto di cessione. Pertanto, se l’atto di disposizione d’azienda o di un suo ramo eccede i poteri che per legge spettano agli amministratori e implica una violazione del riparto legale delle competenze tra assemblea e amministratori, la sanzione va individuata non già nell’annullabilità del contratto, ma nella sua nullità. Non rileva in contrario che l’art. 2479, co. 2, n. 5, c.c. non prevede il rimedio della nullità quale conseguenza della sua violazione, poiché, in presenza di un negozio contrario a norme imperative, la mancanza di un’espressa sanzione di nullità non è rilevante ai fini della nullità dell’atto negoziale in conflitto con il divieto, essendo applicabile l’art. 1418, co. 1, c.c., che rappresenta un principio generale rivolto a prevedere e disciplinare proprio quei casi in cui alla violazione dei precetti imperativi non si accompagna una previsione di nullità.

Il complesso di beni costituito in azienda è una universalità di beni ai sensi dell’art. 816 c.c., per la quale non può trovare applicazione il principio dell’acquisto immediato in virtù del possesso, ai sensi dell’art. 1153 c.c., in virtù dell’esplicita esclusione sancita dall’art. 1156 c.c. La cessione di azienda da parte di chi non è divenuto titolare integra un’ipotesi di acquisto a non domino (e, pertanto, deve qualificarsi come vendita di cosa altrui), anche se l’acquirente non fosse a conoscenza dell’inesistenza di un valido titolo di proprietà dell’azienda in capo al venditore. Nei confronti del proprietario del bene, la cessione a non domino è inefficace, potendo, quindi, egli pretenderne la restituzione da colui che l’ha acquistato da soggetto non legittimato alla vendita.

La responsabilità civile del notaio ha natura contrattuale, ex art. 1218 c.c., rispondendo egli quale professionista incaricato dal suo cliente, in forza di un rapporto riconducibile al contratto di mandato. La prestazione alla quale è tenuto il notaio, quale professionista, non è di risultato, ma di mezzi. Tuttavia, ciò non vuol dire che egli possa limitarsi ad accertare la volontà delle parti e a dirigere la redazione dell’atto notarile. Il notaio deve compiere le attività preliminari e conseguenti all’atto che si rendano necessarie per garantire che lo stesso sia certo e idoneo ad assicurare il raggiungimento dello scopo tipico e del risultato pratico perseguiti dalle parti.

21 Luglio 2023

Gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione del contratto e onere probatorio nella responsabilità del debitore

In tema di risoluzione del contratto per inadempimento, il rimedio di cui all’art. 1453 c.c. presuppone che l’inadempimento soddisfi il connotato della non scarsa importanza di cui all’art. 1455 c.c.; in particolare, con specifico riferimento al concetto di non scarsa importanza, il giudice deve tener conto di tutte le circostanze oggettive e soggettive dalle quali sia possibile desumere l’alterazione dell’equilibrio contrattuale. La valutazione della gravità dell’inadempimento ai fini della risoluzione di un contratto a prestazioni corrispettive costituisce questione di fatto, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito.

L’art. 1218 c.c. regolamenta la responsabilità da inadempimento e delinea, sotto il profilo soggettivo, un modello di responsabilità presunta, la cui disciplina ha significativi riflessi, in particolare, sul piano del riparto dell’onere della prova, giacché realizza una inversione dell’onus probandi previsto, in generale, dall’art. 2697 c.c. Nello specifico, il creditore, che intende far valere tale responsabilità, è gravato unicamente dall’onere di dimostrare in giudizio il titolo, allegare l’inadempimento e provare il danno; diversamente, anche in applicazione del principio di vicinanza della prova, spetta al debitore costituirsi in giudizio e dimostrare di aver esattamente adempiuto, ovvero di aver posto in essere quello sforzo di diligenza richiesto dalla natura della prestazione e che, per tale ragione, l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile (c.d. prova liberatoria).

Sulla natura dell’azione promossa dalla curatela contro l’organo gestorio e i requisiti del periculum in mora per il sequestro conservativo

Nell’ipotesi di azione promossa dalla curatela nei confronti degli organi gestori della società, la pretesa azionata per la quale la cautela è richiesta ha natura di credito risarcitorio per responsabilità contrattuale, in ragione della violazione dell’obbligo gestorio che l’amministratore ha nei confronti della società e relativo alla conservazione del suo patrimonio, azione che si cumula con quella dei creditori sociali, avente invece natura extracontrattuale. Di conseguenza, la curatela ha l’obbligo di allegare l’inadempimento imputato all’amministratore, così come ha l’onere di allegare e provare il danno derivante dall’inadempimento ed il nesso causale, essendo invece onere del convenuto, a mente dell’art. 1218 c.c., allegare e provare di avere adempiuto agli obblighi conservativi del patrimonio, il che si traduce nell’onere di allegare e provare che le condotte imputate e che hanno determinato un depauperamento patrimoniale della società siano state poste in essere negli interessi della società stessa.

Quanto al periculum in mora per l’ottenimento di un sequestro conservativo, detto presupposto cautelare può essere indagato sia sotto il profilo eminentemente soggettivo, riferito alla stessa condotta inadempiente dell’amministratore che, in termini prognostici, possa far ritenere che il medesimo, nelle more del giudizio di cognizione, ponga in essere atti dispositivi del suo patrimonio volti a diminuire la garanzia generica di soddisfazione del credito risarcitorio vantato dalla procedura, così come può essere indagato sotto il profilo eminentemente oggettivo, riferito cioè alla oggettiva insufficiente consistenza del patrimonio rispetto alla verosimile consistenza del cautelando credito risarcitorio.

21 Giugno 2023

Sull’azione di responsabilità degli amministratori di s.r.l. nel fallimento

Ai sensi dell’art. 2476 c.c., gli amministratori rispondono verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge e dall’atto costitutivo ovvero per non avere osservato, nell’adempimento di tali doveri, la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, come previsto dall’art. 2392 c.c. sulla responsabilità degli amministratori della s.p.a., applicabile ex art. 12 disp. prel. al c.c. anche alle s.r.l.

Nonostante i doveri degli amministratori non trovino un’enumerazione precisa e ordinata nella legge, possono condensarsi nel più generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio, che impone loro sia di astenersi dal compiere qualsiasi operazione che possa rivelarsi svantaggiosa per la società e lesiva degli interessi dei soci e dei creditori, in quanto rivolta a vantaggio di terzi o di qualcuno dei creditori a scapito di altri, in violazione del principio della par condicio creditorum, sia di contrastare qualsiasi attività che si riveli dannosa per la società, così da adeguare la gestione sociale ai canoni della corretta amministrazione.

L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e dunque, quanto al riparto dell’onere della prova, spetta all’attore allegare l’inadempimento ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto, e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dell’amministratore contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.

In mancanza del deposito dei bilanci e della tenuta delle scritture contabili obbligatorie i danni devono essere liquidati nella misura pari alla differenza tra attivo e passivo (c.d. deficit fallimentare), secondo il criterio equitativo già invalso nella giurisprudenza di legittimità e oggi codificato all’art. 2486, co. 3, seconda parte, c.c.

21 Giugno 2023

L’impossibilità della prestazione ex art. 1256 c.c. non può consistere in mere difficoltà economiche

In tema di inadempimento contrattuale, il contraente che non esegue esattamente la prestazione che si è obbligato ad eseguire, per liberarsi è tenuto a dimostrare una vera e propria sopravvenuta impossibilità della prestazione (oltre all’assenza di colpa).

Le difficoltà economiche o la mancanza di liquidità non sono cause che integrano, ai sensi dell’art. 1256 c.c., l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, posto che l’impossibilità di cui all’art. 1256 c.c. deve consistere in un impedimento obiettivo e assoluto, tale da non poter essere rimosso.

L’impossibilità assoluta della prestazione ex art. 1256 c.c. non è configurabile per le obbligazioni pecuniarie: ciò in quanto l’impossibilità che, ex art. 1256 c.c., estingue l’obbligazione è da intendere in senso assoluto ed obiettivo e consiste nella sopravvenienza di una causa, non imputabile al debitore, che impedisce definitivamente l’adempimento. Al contrario, alla stregua del principio secondo cui genus numquam perit, l’impossibilità può verificarsi solo quando la prestazione abbia per oggetto la consegna di una cosa determinata o di un genere limitato, e non già quando si tratta di una somma di denaro.

15 Giugno 2023

Responsabilità dell’amministratore di s.r.l. per atti distrattivi e tutela cautelare

Il fatto che l’art. 2476 c.c. non preveda se non l’azione sociale di responsabilità di natura risarcitoria, regolando in detto contesto il rimedio della revoca cautelare dell’organo gestorio, responsabile di gravi irregolarità foriere di danno per la società, non è affatto significativo della circostanza che una azione di merito volta anche alla revoca dell’amministratore non possa trovare spazio. In effetti, deve intendersi che la previsione del rimedio cautelare, quale rimedio avente natura anticipatoria in tutte le ipotesi in cui si intenda impedire il protrarsi di una gestione che possa comportare ulteriori pregiudizi rispetto a quelli già verificatisi, sottende necessariamente la possibilità di esercitare una corrispondente azione di merito di natura costituiva, così superandosi la questione della tassatività di dette domande.

14 Giugno 2023

Incompetenza delle sezioni imprese per l’accertamento di un inadempimento contrattuale

L’azione volta ad accertare l’inadempimento di un contratto, anche se riferito ad attività di consulenza societaria [nel caso di specie, un mandato di consulenza in merito alla costituzione e quotazione di una socità], non è soggetta alla competenza della sezione imprese, alla luce della previsione dell’art. 3 del d.lgs. 27 giungo 2003, n. 168, come modificato dal d.l. 24 gennaio 2012, n. 1, convertito con modificazioni nella l. 24 marzo 2012, n. 27.

9 Giugno 2023

Responsabilità di amministratori e sindaci di società consortile

La società consortile non ha una propria disciplina, dovendosi, per l’effetto, applicare di volta in volta le norme previste per il tipo di società scelto all’atto di relativa costituzione. Ne deriva che, linea di principio, ove i soci abbiano così costituito il consorzio sotto forma di società di persone o di capitali dovrà applicarsi la disciplina della corrispondente tipologia di compagine.

Dalla qualificazione della responsabilità degli amministratori ex art. 2476 c.c. in termini di responsabilità contrattuale (colposa) deriva che, mentre sulla società che agisce grava l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi, i pregiudizi concretamente sofferti ed il nesso eziologico tra l’inadempimento ed il danno prospettato, per converso compete all’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto danno, ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico. Deve, infatti, ritenersi operante la presunzione di colpa di cui al generale disposto dell’art.  1218 c.c., con la conseguenza che la società che agisce con il rimedio di cui all’art. 2476 c.c. non è tenuta ad offrire la prova positiva del cennato elemento soggettivo. Il tutto, in ogni caso, nei limiti dell’art. 1223 c.c., con la conseguenza che all’amministratore di società di capitali legato ad essa da un rapporto di mandato che, pure, si sia reso responsabile di condotte illecite, non potrà imputarsi ogni effetto patrimoniale dannoso che la società sostenga di aver subìto ma, al contrario, soltanto quei pregiudizi che si pongano quale conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento ascrittogli.

Quanto ai doveri dei sindaci in generale, giova rammentare che il controllo del collegio sindacale non è circoscritto all’operato degli amministratori, estendendosi, invero, a tutta l’attività sociale, con funzione di tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali.

I sindaci possono essere chiamati a rispondere dei danni sofferti dalla società ovvero dai creditori sociali sia nel caso in cui l’evento lesivo sia conseguenza del mancato o negligente adempimento dei doveri di verità e segretezza che la legge pone specificamente a carico dell’organo di controllo, sia nel caso in cui il pregiudizio lamentato sia conseguenza, anche ed innanzitutto, di un comportamento doloso o colposo degli amministratori, che i sindaci avrebbero potuto e dovuto prevenire nell’espletamento dei loro compiti. Originando quindi la responsabilità dei sindaci sia per fatto proprio che per omissione del controllo, è chiaro che, vigente il principio di colpevolezza, la responsabilità concorrente del collegio sindacale per i fatti dannosi ascrivibili agli amministratori sussisterà solo nel caso in cui ai sindaci potrà in ogni caso addebitarsi il mancato o negligente espletamento dei compiti di controllo. Segnatamente, i sindaci rispondono non per il fatto in sé degli amministratori foriero di danni, ma solo se ed in quanto, in relazione all’evento lesivo oggetto di doglianza, sia configurabile, a loro carico, la violazione dell’obbligo di esercitare il controllo sull’amministrazione della società con la diligenza richiesta dal comma primo dell’art. 2407 c.c., di denunciare le irregolarità riscontrate e di assumere, se necessario, le iniziative sostitutive dell’organo gestorio.

La responsabilità concorrente dei sindaci, pur trovando uno dei suoi presupposti nell’illegittimo comportamento degli amministratori, resta pur sempre una responsabilità per fatto proprio dei componenti dell’organo di controllo, postulando che i sindaci siano venuti meno al loro dovere di vigilare sugli amministratori e di impedire il compimento di attività illegittime ad opera di costoro; il tutto, peraltro, con l’importante conseguenza che detta responsabilità potrà essere affermata solo ove sia in concreto dimostrata anche l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inosservanza dell’obbligo di controllo gravante sui sindaci ed il pregiudizio prodotto dall’illecito comportamento degli amministratori.