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10 Luglio 2023

Il socio receduto non ancora liquidato è ancora titolare della partecipazione sociale

Il socio che ha esercitato il recesso può esser considerato come ancora titolare delle partecipazioni sociali e ciò fino a che non viene liquidato, essendo la fattispecie del recesso del socio a formazione progressiva. Invero, il socio receduto non ancora liquidato è ancora titolare della quota di partecipazione del capitale sociale e quindi deve ritenersi che possa esercitare le facoltà in essa incorporate; a prescindere dall’ampiezza del suo diritto di voto, se affievolito – esercitabile solo con riferimento a quelle decisioni assembleari che possono incidere sul patrimonio della società e quindi sul suo diritto di credito alla liquidazione del valore della partecipazione – o pieno – esercitabile con riferimento ad ogni delibera con il limite dell’abuso del diritto –, in ogni caso il socio receduto durante il procedimento di recesso si trova a poter legittimamente esercitare il diritto di voto in assemblea.

Non rappresenta un’ipotesi di rinuncia implicita alla clausola arbitrale la mancata eccezione di incompetenza nell’ambito di un giudizio di quantificazione del valore della quota sociale ex art. 2473, co. 3, c.c. Tale giudizio, invero, è di mera volontaria giurisdizione e non ha carattere contenzioso. Soltanto in caso di contestazione sul valore determinato dall’esperto si apre un vero e proprio giudizio contenzioso.

L’esistenza di una clausola compromissoria non esclude la competenza del giudice ordinario ad emettere un decreto ingiuntivo, atteso che la disciplina del procedimento arbitrale non contempla[va] l’emissione di provvedimenti inaudita altera parte, ma impone a quest’ultimo, in caso di successiva opposizione fondata sull’esistenza della detta clausola, la declaratoria di nullità del decreto opposto e la contestuale remissione della controversia al giudizio degli arbitri.

29 Maggio 2023

Il procedimento ex art. 2473, co. 3, c.c. per la determinazione del valore della partecipazione del socio escluso

Il riferimento all’art. 1349, co. 1, c.c., contenuto nell’art. 2473 c.c. esplicita l’intendimento del legislatore di rimettere la determinazione del valore della partecipazione societaria – nel caso in cui le parti non riescano a raggiungere un accordo – non già alla decisione del giudice, ma al contratto tra socio e società, avente ad oggetto la liquidazione della quota il cui contenuto viene stimato da un terzo (l’arbitratore), il quale, quindi, concorre alla formazione e all’integrazione del contenuto del negozio.

L’esperto deve procedere con equo apprezzamento e la vincolatività delle determinazioni dallo stesso raggiunte può essere esclusa solo ove se ne accerti la manifesta iniquità o erroneità. Solo nel caso di impugnazione ex art. 1349 c.c. per manifesta iniquità o erroneità della determinazione dell’arbitratore vi potrà essere l’intervento sostitutivo del giudice, chiamato, da un lato, all’accertamento della lamentata manifesta iniquità o erroneità della stima del terzo, e dall’altro, alla nuova determinazione, sostitutiva di quella dell’esperto-arbitratore.

La procedura di cui all’art. 2473, co. 3, c.c. ha natura esclusiva e non è consentito al socio escluso o receduto adire direttamente l’autorità giudiziaria mediante l’instaurazione di un ordinario processo di cognizione piena per la determinazione del “giusto valore di liquidazione” senza il rispetto delle procedure di cui al citato art. 2473 c.c.

21 Maggio 2022

Esclusione del socio di s.r.l. e determinazione del valore della quota: l’erroneità della valutazione dell’esperto

La legittimità dell’esclusione del socio non incide sulla valutazione dell’esistenza di un accordo in ordine alla liquidazione della sua quota. Invero: (i) l’interesse dei soci rinuncianti all’impugnazione della delibera di esclusione di contestare il quantum della liquidazione della loro quota come operato in sede assembleare sorge solo dopo e per effetto della rinuncia stessa; (ii) quale che sia la sede in cui la società determina il valore di liquidazione della quota del socio escluso, essa non potrà mai vincolare il socio stesso, che si pone come controparte contrattuale rispetto alla società, trovando applicazione anche in questo caso il principio secondo cui il disposto dell’art. 2377, co. 1, c.c. non vige con riferimento a diritti soggettivi che attengono esclusivamente alla sfera patrimoniale dei soci uti singuli e rispetto ai quali la società si pone come controparte contrattuale (come, ad esempio, per il regime di rimborso dei finanziamenti dei soci); (iii) la materia della liquidazione della quota del socio escluso (o receduto) non è, per sua natura, materia di competenza assembleare, proprio perché mai una delibera resa in proposito potrebbe vincolare il socio escluso (o receduto) dissenziente. Ciò trova conferma nella previsione di cui all’art. 2437, co. 2, c.c. che – sebbene in materia di recesso di socio di s.p.a. – stabilisce che la determinazione del valore di liquidazione delle azioni ex latere societatis è rimesso agli amministratori e non all’assemblea dei soci; comunque, nelle s.r.l., lungi dall’essere stabilita una competenza dell’assemblea soci, la determinazione del valore di liquidazione della quota è rimessa espressamente ex art. 2473, co. 3, c.c. ad un accordo tra la società e il socio, che non può rinvenirsi in una delibera sociale assunta con il dissenso dei soci interessati; (iv) infine, la contestazione dell’esclusione segue all’evidenza un percorso d’impugnativa completamente diverso da quello previsto dall’art. 2473, co. 3, c.c. per caso di disaccordo in ordine al valore della quota sociale e per la sua quantificazione.

La natura manifesta dell’errore di cui all’art. 1349 c.c. corrisponde ad una notevole sperequazione tra le valutazioni rilevanti ed è oggetto di un accertamento rimesso al giudice di merito e insindacabile in sede di legittimità, se correttamente motivato. Tuttavia, tale accertamento segue criteri differenti a seconda che la norma trovi applicazione nel suo ambito naturale, ossia la determinazione dell’oggetto del contratto, o nel diverso caso previsto dall’art. 2473 c.c. Invero, se in materia contrattuale l’arbitratore può procedere ad una valutazione discrezionale e fondare il suo apprezzamento sul criterio dell’equità mercantile, nel caso di cui all’art. 2473, co. 3, c.c., l’erroneità o meno della valutazione dell’esperto deve essere apprezzata sulla scorta delle regole tecniche di settore, il che vale anche ai fini dell’accertamento del carattere manifesto o meno dell’errore che dovrà risultare evidente rispetto alle conoscenze di settore proprie dell’esperto e di chi legga il suo elaborato e sia fornito delle medesime competenze. Ne deriva che quando si ricorre all’art. 1349 c.c., per verificare la correttezza della valutazione compiuta dall’esperto nella determinazione del valore delle quote sociali, deve tenersi conto della diversità dei criteri che attengono a tale operazione – cioè le regole tecniche di valutazione aziendale volte alla individuazione del valore di mercato – rispetto a quelli di cui può servirsi l’arbitratore nella determinazione dell’oggetto del contratto. Salvo che si rilevi una trascurabile differenza nei risultati delle diverse analisi, la natura manifesta dell’errore sussiste ogniqualvolta esso emerga dagli atti e sia frutto di una scorretta applicazione di criteri tecnico-scientifici che governano la materia oggetto di valutazione dell’esperto, mentre, per converso, si affievolisce grandemente la rilevanza del requisito della differenza ultra dimidium.

17 Maggio 2022

Trasformazione in s.p.a. di UBI e limitazione del rimborso delle azioni del socio receduto

In ossequio all’art. 28, co. 2 ter, t.u.b., la Banca d’Italia ha adottato nella Circolare n. 285 del 2013 (come successivamente modificata) le disposizioni di attuazione della riforma di cui al c.d. decreto di riforma delle banche popolari (d.l. 24 gennaio 2015, n. 3 convertito in l. 24 marzo 2015, n. 33), che ha imposto l’obbligo di trasformazione a tutte le banche popolari di maggiori dimensioni. Con tali disposizioni, la Banca d’Italia ha previsto che: (i) le banche, costituite in forma di società cooperativa, muniscano i propri statuti sociali di un’apposita clausola, la quale attribuisca all’organo avente funzione di gestione, sentito l’organo con funzione di controllo, la facoltà di limitare o rinviare, in tutto o in parte senza limiti di tempo, il rimborso delle azioni del socio receduto; (ii) la decisione sull’estensione del rinvio o sulla misura della limitazione vada assunta con criterio prudenziale tenuto conto della situazione della banca, valutando in particolare, da una parte, la complessiva situazione finanziaria, di liquidità e di solvibilità della banca o del gruppo bancario e, dall’altra, l’importo del capitale primario di classe e del capitale totale, unitamente ai requisiti specifici di fondi propri e al requisito combinato di riserva di capitale; (iii) il rimborso effettivo sia comunque subordinato all’autorizzazione dell’autorità competente, ai sensi di quanto previsto dall’art. 77 del Regolamento UE 575/2013 e dal Regolamento Delegato UE 241/2014. Alla luce della normativa richiamata, la banca popolare, al momento della trasformazione in s.p.a., ha la facoltà di limitare il diritto di rimborso delle azioni recedute – attraverso il rinvio, anche in toto e sine die, del pagamento del controvalore attribuito alle azioni, oppure attraverso la sua limitazione quantitativa, totale o parziale – qualora, a seguito della valutazione dei parametri indicati dall’autorità di vigilanza, risulti funzionale al mantenimento della stabilità patrimoniale e finanziaria dell’istituto bancario.

L’organo amministrativo è chiamato a tale valutazione disponendo di un margine di discrezionalità tecnica, giacché i citati criteri che debbono orientare ex lege la sua scelta sono costituiti non solo da indici numerici fissi, ma anche da criteri mobili, volutamente elastici, costituiti dalla complessiva situazione finanziaria, di liquidità, di disponibilità della banca o del gruppo bancario. Inoltre, i criteri previsti ex lege non hanno portata esaustiva, potendo infatti la banca ricorrere ad ulteriori canoni di valutazione per orientare le proprie scelte. Ciò si deduce dal tenore dell’art. 10, par. 3, del Regolamento Delegato n. 241/2014, ove è previsto che l’entità della limitazione al rimborso debba essere determinata tenendo conto “in particolare, ma non esclusivamente” dei criteri poi indicati, nonché della norma interna che, attraverso la locuzione “in particolare”, richiama un’elencazione meramente esemplificativa dei canoni soggetti al vaglio dell’organo amministrativo. In tale prospettiva, è corretto valutare l’incidenza del costo del recesso sull’equilibrio patrimoniale della banca e dell’intero gruppo di appartenenza anche in una visione prospettica oltreché attuale, attribuendo rilievo a margini prudenziali supplementari rispetto ai requisiti minimi di patrimonializzazione. La scelta di adottare un tale più ampio margine prudenziale, anche in ossequio al principio di buona fede nello svolgimento del rapporto sociale, va ad ogni modo congruamente motivata esplicitando le ragioni, nonché gli indici patrimoniali e di bilancio che hanno portato ad una tale determinazione. Trovano, così, tutela sia l’interesse del singolo azionista a vedere remunerato il proprio investimento, sia l’interesse dell’istituto di credito alla propria stabilità patrimoniale e finanziaria, sia gli interessi generali di cui è espressione, quali la tutela del risparmio e del mercato.

Il sindacato dell’autorità giudiziaria ha natura estrinseca in quanto non può spingersi a valutare, nel merito, le singole scelte discrezionali che hanno portato la banca a limitare il diritto di rimborso, dovendosi, invece, limitare a vagliare se tali scelte siano motivate, rispondenti ai criteri di legge, non irragionevoli. Il vaglio rimesso al giudice ordinario deve consentire, quindi, di verificare che i limiti di rimborso decisi nell’esercizio di tale facoltà non eccedano quanto necessario, tenuto conto della situazione prudenziale di dette banche, al fine di garantire che gli strumenti di capitale da essi emessi siano considerati strumenti del capitale primario di classe 1, alla luce, in particolare, degli elementi di cui all’art. 10, par. 3, del regolamento delegato n. 241/2014, circostanza che spetta al giudice verificare.

La disciplina generale del diritto di recesso nelle società di capitali riconosce al socio che abbia manifestato la volontà di recesso il pieno diritto di contestare il valore di liquidazione della partecipazione proposto dagli amministratori, ai sensi dell’art. 2437 ter, co. 6, c.c., senza alcuna necessità della preventiva impugnazione per l’annullamento della delibera che lo ha stabilito.

Le regole di comportamento che presidiano la funzione amministrativa, tra le quali quelle di cui agli artt. 2381, co. 6, e 2392, co. 1, c.c. raggiungono un’intensità massima in presenza di beni e/o interessi pubblicistici, come nel caso di amministratori di banche quotate sul mercato azionario. Tra gli obblighi degli amministratori, assumono particolare rilievo quelli di rendere puntuale e completa informativa ai soci sull’andamento dello stato patrimoniale e finanziario della società, cui, simmetricamente, corrisponde il diritto soggettivo del socio o del creditore di essere informato. Tale posizione soggettiva attiva si declina – nell’ipotesi di exit – nel diritto di conoscere il valore di liquidazione delle azioni ex art. 2437 ter, co. 5, c.c., come determinato dagli amministratori. L’obbligo di adeguata informazione è, inoltre, specificato nella Circolare n. 285/2013 di Banca D’Italia, che imponeva alla banca e al suo management di rendere nota ai soci ogni informazione utile al fine di consentire loro un esercizio il più possibile consapevole del diritto di recesso.

25 Marzo 2021

Sulla (non) configurabilità della rinuncia all’esercizio del diritto di recesso ai sensi dell’art. 2437 ter c.c.

La disciplina vigente non esclude espressamente la facoltà del socio di rinunciare agli effetti del recesso, ma contiene elementi sufficienti ad escluderne l’ammissibilità in via sistematica. In primo luogo, le sole cause di sopravvenuta inefficacia del recesso “già esercitato” consistono nella “revoca della delibera che lo legittima” o nella deliberazione dello scioglimento della società, l’una e l’altra “entro novanta giorni” (art. 2437-bis co. 3). […] Secondo, la rinuncia al recesso, invariate le condizioni che lo hanno cagionato, appare incompatibile con la ratio legis dell’attribuzione del diritto, come possibilità di apprezzare un mutamento delle condizioni di rischio, nelle ipotesi legislativamente previste, e di liquidare l’investimento. Il socio può, in altri termini, continuare a sottoporsi al rischio imprenditoriale, partecipando agli utili e alle perdite, oppure estraniarsi dal rischio della società, assumendo la veste di creditore della quota di liquidazione. Non può assumere al contempo l’una e l’altra qualità […].

Su queste premesse, al socio non compete il diritto di rinunciare al recesso già esercitato e la società non può esimersi dalla liquidazione della quota eccependo l’avvenuta rinuncia, a prescindere dalle modalità (espressa o tacita) con cui tale rinuncia si sia manifestata.

17 Aprile 2019

L’accertamento della natura manifesta dell’errore nella determinazione del valore delle quote societarie ai sensi dell’art. 2473 terzo comma c.c.

L’accertamento della natura manifesta dell’errore segue criteri differenti a seconda che l’art. 1349 c.c. trovi applicazione nel suo ambito naturale, ovvero la determinazione dell’oggetto del contratto, o nel diverso caso previsto dall’art. 2473 c.c.. Mentre nella materia contrattuale, nella determinazione dell’oggetto del contratto l’arbitratore può procedere ad una valutazione discrezionale e fondare il suo apprezzamento sul criterio dell’equità mercantile, nel caso di cui all’art. 2473 terzo comma c.c. relativo alla stima del valore della quota , l’erroneità o meno della valutazione dell’esperto nominato dal Tribunale [ LEGGI TUTTO ]

Esclusione del socio di s.n.c.: diritto alla liquidazione della quota e agli utili. Risarcimento del danno per ritardata liquidazione.

Il diritto del singolo socio a percepire gli utili è subordinato, ai sensi dell’art. 2262 cod. civ. (applicabile in forza del richiamo di cui all’art. 2293), alla approvazione del rendiconto, situazione contabile che equivale, quanto ai criteri fondamentali di valutazione, a quella di un bilancio, il quale è la sintesi contabile della consistenza patrimoniale della società al termine di un anno di attività (in applicazione di tale criterio è stata confermata l’irrilevanza, ai fini di ritenere la sussistenza di effettivi utili rivendicabili dai soci, del contenuto delle dichiarazioni fiscali della società e, quindi, anche delle “variazioni in aumento” apportate ai sensi della normativa fiscale in tali dichiarazioni).

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