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Art. 2486 c.c.
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Recesso nelle s.r.l.: rapporti con lo scioglimento della società ed efficacia del recesso ad nutum

Ai sensi dell’art. 2473, co. 5, c.c. il recesso del socio dalla s.r.l. non può essere esercitato e, se già esercitato, è privo di efficacia, se la società revoca la delibera che lo legittima ovvero se è deliberato lo scioglimento della società. A seguito dello scioglimento della società, dunque, se non si è ancora proceduto alla liquidazione della quota del socio receduto, il recesso viene meno, e ciò anche nel caso in cui lo scioglimento non rappresenti una diretta conseguenza del recesso e si verifichi per riduzione del capitale sociale al di sotto del minimo legale per perdite preesistenti al recesso e non connesse alla domanda di liquidazione dei soci receduti. La formulazione letterale dell’art. 2473, co. 5, c.c., infatti, non consente di distinguere fra le ipotesi di c.d. recesso “qualificato” e le altre ipotesi di recesso. Successivamente allo scioglimento, il socio receduto non avrà diritto a vedersi rimborsato il valore della quota di partecipazione, ma sarà coinvolto nella procedura di liquidazione della società al pari degli altri soci.

A differenza di quanto previsto all’art. 2437 bis c.c. (in tema di s.p.a.), l’art. 2473, co. 5, c.c. non fissa alcun termine per l’adozione della deliberazione di revoca o di scioglimento della società. Tale lacuna normativa deve essere colmata mediante un’applicazione analogica della disciplina delle s.p.a. e, pertanto, gli effetti del recesso possono essere pregiudicati dalla revoca della delibera e dall’adozione della deliberazione di scioglimento della società solo laddove tali delibere intervengano entro il termine di 90 giorni dalla dichiarazione di recesso.

L’esercizio del diritto di recesso è un atto unilaterale recettizio, i cui effetti si producono nella sfera giuridica della società sin dal momento in cui questa riceve la relativa dichiarazione ex art. 1334 c.c., con la conseguente immediata perdita della qualità di socio e dunque anche della legittimazione all’esercizio dei diritti sociali. Tuttavia, in ipotesi di recesso esercitato ad nutum nel caso di società contratta a tempo indeterminato, il termine di preavviso imposto dalla legge determina uno slittamento in avanti degli effetti del recesso, i quali non si produrranno fino allo spirare dello stesso. Pertanto, in pendenza del termine di preavviso, non essendosi ancora prodotti gli effetti del recesso, il socio che ha manifestato la volontà di uscire dalla società non cessa di correre il rischio d’impresa dal momento in cui ha esercitato il diritto, ma partecipa pienamente alla vita sociale e a tutte le sue conseguenze fino al momento in cui la sua dichiarazione produce gli effetti desiderati, quindi dal momento della completa decorrenza del preavviso.

In tema di impugnazione di delibere di s.r.l., la deliberazione dell’assemblea assunta senza la convocazione di uno dei soci è da ritenersi nulla, poiché il disposto dell’art. 2479 ter, co. 3, c.c., nella parte in cui considera le decisioni prese in assenza assoluta di informazioni, non si riferisce soltanto alla mancanza di informazioni sugli argomenti da trattare ma anche alla mancanza di informazioni sull’avvio del procedimento deliberativo. Più nello specifico, la mancata convocazione del socio di una s.r.l. per l’assemblea è qualificabile come vizio di nullità della deliberazione e, pertanto, la comprovata ignoranza da parte del socio della convocazione determina la nullità della deliberazione adottata.

L’invalidità di una delibera non incide sulla validità delle successive delibere adottate dalla società, a meno che la prima delibera non sia stata sospesa ai sensi dell’art. 2378 c.c. La mancanza di un provvedimento di sospensione comporta la legittimità degli atti esecutivi, ancorché relativi a una delibera annullabile. E tale legittimità resiste al sopravvenire dell’annullamento: in caso contrario, l’istituto della sospensione non avrebbe alcun senso, visto che gli effetti giuridici sarebbero i medesimi sia che l’impugnante abbia ottenuto la sospensione della delibera, sia che non l’abbia ottenuta. Ciò, del resto, è del tutto coerente con le esigenze di certezza e stabilità sottese alla disciplina delle società commerciali, la gestione delle quali rischierebbe di essere paralizzata dal propagarsi degli effetti della illegittimità delle delibere assembleari oltre un certo segno.

30 Maggio 2023

I fatti sintomatici idonei a ribaltare la presunzione circa la decorrenza della prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c. dalla data del fallimento

Nel caso dell’azione di responsabilità promossa dai creditori sociali, il termine quinquennale decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte loro, dell’insufficienza del patrimonio a soddisfare i crediti che risulti da qualsiasi fatto che possa essere conosciuto. Solitamente questo momento viene a coincidere con la pubblicazione nel registro delle imprese della dichiarazione di fallimento, atteso che, in ragione della onerosità della prova gravante sulla procedura che agisce, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sugli amministratori convenuti la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza. [Nel caso di specie, il tribunale ha considerato tali: (i) l’arresto dell’amministratore delegato, cui era conseguita (ii) la pubblicazione su periodici di notizie in merito all’istanza di fallimento presentata dalla procura della Repubblica; (iii) la sospensione della quotazione e della compravendita delle azioni della società operata da Borsa Italiana, di cui pure era stata data notizia sulla stampa; (iv) la convocazione dell’assemblea straordinaria della società, pubblicata sul sito di Borsa Italiana, avente ad oggetto, tra l’altro, l’analisi della situazione contabile e una discussione in merito all’opportunità di procedere alla presentazione di una domanda di un concordato in bianco, ovvero alla liquidazione della società].

In tema di obbligazioni solidali derivanti da atti illeciti, qualora solo il fatto di uno dei coobbligati costituisca anche reato, mentre quelli degli altri costituiscono unicamente illecito civile, la possibilità di invocare utilmente il più lungo termine di prescrizione stabilito dall’art. 2947, co. 3, c.c. per le azioni di risarcimento del danno se il fatto è previsto dalla legge come reato è limitata alla sola obbligazione del primo dei predetti debitori (quella collegata ad un reato), sicché deve concludersi che il più lungo termine prescrizionale non trova applicazione con riferimento alle posizioni degli altri soggetti che hanno fatto parte degli organi di gestione e di controllo, unitamente ai predetti imputati/condannati, ma nei confronti dei quali l’autorità competente non ha ritenuto di esercitare l’azione penale.

In tema di prescrizione dell’azione di responsabilità del revisore, il dies a quo del termine quinquennale di prescrizione deve essere individuato nella data della relazione di revisione sul bilancio emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento.

Nell’assumere l’iniziativa giudiziale a norma del secondo comma dell’art. 146 l.f., il curatore del fallimento esercita nei confronti di amministratori e sindaci cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità, che sarebbe stata esperibile dalla medesima società se ancora in bonis (ai sensi degli artt. 2393 e 2407 c.c.), sia l’azione che sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati dall’incapienza della società debitrice (ai sensi degli artt. 2394 e 2407 c.c.). Ciò comporta la mera modifica della legittimazione attiva delle azioni di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., ma non anche una modifica della natura giuridica e dei presupposti di tali singole azioni, che rimangono diversi ed indipendenti. Invero, il curatore può, anche separatamente, formulare le singole domande risarcitorie, le quali mantengono ciascuna la propria natura.

L’irregolare e anche disordinata tenuta della contabilità integra una violazione dei doveri dell’amministratore potenzialmente, ma non necessariamente, foriera di danno per la società. Tale violazione è, tuttavia, idonea a fondare solo una pronuncia di condanna generica al risarcimento che non investe la sussistenza del danno. Invero, eventuali irregolarità nella tenuta delle scritture contabili e nella redazione dei bilanci possono certamente rappresentare lo strumento per occultare pregresse operazioni illecite ovvero per celare la causa di scioglimento prevista dall’art. 2484, n. 4, c.c. e così consentire l’indebita prosecuzione dell’ordinaria attività gestoria in epoca successiva alla perdita dei requisiti di capitale previsti dalla legge, ma in tali ipotesi il danno risarcibile è rappresentato, all’evidenza, non già dalla misura del falso, ma dagli effetti patrimoniali delle condotte che con quei falsi di sono occultate o che grazie a quei falsi sono state consentite. Tali condotte, dunque, devono essere specificamente contestate da chi agisce per il risarcimento del danno, non potendo il giudice individuarle e verificarle d’ufficio.

29 Maggio 2023

Gli amministratori devono monitorare le condizioni patrimoniali della società. L’art. 2486, co. 3, c.c. è applicabile a condotte anteriori al 2019

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore nella parte in cui persegue gli interessi del ceto creditorio deve inquadrarsi nel regime della responsabilità extracontrattuale, mentre in quella in cui persegue gli interessi della società fallita soggiaccia, invece, al regime della responsabilità contrattuale. Ne consegue che il curatore, quale rappresentante della massa creditoria, risulta gravato della prova della condotta degli amministratori asseritamente lesiva dell’integrità del patrimonio sociale. Al contrario, quale soggetto legittimato ad agire nell’interesse della società fallita, il medesimo soggiace al regime di riparto degli oneri di allegazione e prova invalso in tema di azioni contrattuali, in forza del quale – fermi a carico dell’attore gli oneri della prova del danno e del nesso causale con l’inadempimento – incombono sulla parte asserita creditrice unicamente la prova del titolo della pretesa creditoria azionata e l’allegazione dell’inadempimento ex adverso perpetrato. Con l’ulteriore precisazione per cui, peraltro, al cospetto dell’allegazione non già dell’inadempimento rispetto a un individuato dovere previsto dalla legge o dallo statuto, bensì, più ampiamente, della violazione di un’obbligazione c.d. di mezzi – qual è il generale dovere di diligenza nell’espletamento dell’incarico gestorio gravante sull’amministratore ex art. 2392 c.c. (dettato per le s.p.a., ma da ritenersi enunciativo di principi estensibili alle s.r.l.): – l’onere di allegazione dell’inadempimento dovrà sostanziarsi nella specifica indicazione dei singoli inadempimenti cc.dd. qualificati, intesi come astrattamente idonei a ingenerare il danno in concreto lamentato; – l’onere della prova del titolo imporrà la dimostrazione della ricorrenza in concreto dei presupposti di insorgenza delle specifiche obbligazioni qualificate asseritamente inadempiute, ossia degli elementi di contesto da cui desumere la violazione di quei doveri.

L’erronea redazione di scritture contabili non costituisce, di per sé, una causa di danno, giacché la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, ma non li determina, ed è da quegli accadimenti, e non certo dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità, che deriva la perdita patrimoniale; di conseguenza, salva l’ipotesi che dalle singole violazioni od omissioni contabili derivino specifiche voci di pregiudizio per il patrimonio sociale, la violazione di obblighi contabili o amministrativi e, in particolare, l’irregolarità contabile, in sé e per sé considerati, non rappresentano condotte idonee a determinare una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori nei confronti della società, ove non si alleghi e dimostri che esse sono state causa di violazioni produttive di un danno alla società, tale danno non potendosi comunque mai identificare tout court nel complessivo ammontare della perdita patrimoniale del periodo di gestione.

All’indomani del verificarsi di una causa di scioglimento, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato alla realizzazione dello scopo sociale, sicché gli amministratori non possono più utilizzarlo a tale fine, ma sono abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando agli stessi inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul patrimonio sociale, e, dall’altro, il diritto dei soci a una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione. Devono essere qualificate come nuove operazioni vietate tutti quei rapporti giuridici che, svincolati dalle necessità inerenti alle liquidazioni delle attività sociali – in quanto il patrimonio sociale diviene finalizzato alla garanzia dei creditori – siano costituiti dagli amministratori per il conseguimento di un utile sociale e per finalità diverse da quelle di mera liquidazione della società.

Posto che le condizioni di cui all’art. 2482 bis c.c. possono verificarsi, e normalmente si verificano, non già al termine dell’esercizio, bensì nel corso di esso, gli amministratori sono ritenuti obbligati a monitorare la consistenza del patrimonio sociale anche nei periodi infra-esercizio, in ragione del livello di diligenza minimo cui sono tenuti; diligenza che impone loro, proprio allorquando il patrimonio netto stia per raggiungere i minimi di legge, o addirittura subisca oscillazioni tali da condurlo a un valore negativo, di effettuare controlli più frequenti ed accurati.

La conoscenza del verificarsi di una causa di scioglimento costituisce oggetto di una presunzione connaturata alla posizione rivestita dagli amministratori nell’organizzazione societaria.

I criteri liquidatori di cui all’art. 2486, co. 3, c.c. ben possono essere applicati anche per la liquidazione di danni consequenziali a fatti verificatisi anteriormente alla relativa entrata in vigore, poiché, da una parte, l’art. 2486 c.c., lungi dall’avere modificato la nozione di danno da indebita prosecuzione societaria, si è limitato a positivizzarne i criteri di liquidazione alla luce del previgente diritto vivente e, dall’altra, fino alla liquidazione del danno non possono considerarsi esauriti gli effetti della condotta illecita.

29 Maggio 2023

Azione ex art. 146 l.f. e suo termine prescrizionale. Danno da ritardato fallimento

L’azione unitaria ex art. 146 l.f. cumula sia i profili propri dell’azione di responsabilità sociale che dell’azione dei creditori sociali.

L’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 2394 c.c., esercitata dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l.f., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti; pertanto, in ragione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione “iuris tantum” di coincidenza tra il “dies a quo” di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data, anteriore, di insorgenza e percepibilità dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito.

Nel caso in cui non siano state addebitate, quale mala gestio, singole specifiche operazioni in tesi produttive di danno bensì tout court l’illecita prosecuzione di attività gestionale in situazione di chiara perdita di continuità aziendale e in cui era doverosa l’istanza di autofallimento, il danno generato dalla illecita prosecuzione della gestione sociale può essere ragionevolmente determinato secondo i parametri, frutto di elaborazione giurisprudenziale prima e del novellato art. 2486 c.c. poi (ancorché quest’ultimo articolo si riferisca specificamente alla prosecuzione di attività gestoria “non conservativa” dopo l’avverarsi della causa di scioglimento e non alla diversa mala gestio del “ritardato fallimento”), con il criterio dello “sbilancio fallimentare”, qualora manchino attendibili elementi per determinare il differenziale del patrimonio netto. Il criterio dello sbilancio fallimentare, essendo equitativo e meramente residuale, è suscettibile di opportuni correttivi quando in giudizio vi siano gli elementi per operare detta “correzione”.

26 Maggio 2023

Responsabilità dell’amministratore per mancata tenuta delle scritture contabili e mancato assolvimento degli adempimenti fiscali

La contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, non li determina; sicchè dalla irregolare tenuta non può discendere ex se un danno idoneo a dar luogo a responsabilità risarcitoria da parte dell’amministratore nei confronti della società.

La mancata presentazione ai competenti uffici dell’erario delle prescritte dichiarazioni fiscali, con conseguente esposizione debitoria della società nei confronti dell’erario per imposte evase, contributi, sanzioni ed interessi, costituisce un’inadempimento fonte di responsabilità in capo all’amministratore. Non giova all’amministratore dedurre di essersi affidato per tale adempimento ad un consulente esterno, non essendo l’amministratore esonerato dall’obbligo di vigilare e controllare le attività svolte dai delegati.

In caso di violazione degli obblighi specifici derivanti dall’atto costitutivo o dalla legge, la responsabilità degli amministratori di una società può essere esclusa solo nel caso, previsto dall’art. 1218 c.c., in cui l’inadempimento sia dipeso da causa non imputabile e che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore. Laddove gli amministratori adducono a propria discolpa la presenza di una crisi di liquidità, hanno l’onere di fornirne la prova, nonché di dimostrare di essersi adoperati per porvi rimedio, convocando l’assemblea per deliberare l’aumento del capitale sociale o, altrimenti, per proporre la liquidazione della società.

Poiché il debito risarcitorio ex art. 2393 c.c. ha natura di debito di valore – come tale sensibile al fenomeno della svalutazione monetaria fino al momento della sua liquidazione – ancorché il danno consista nella perdita di una somma di denaro, costituendo questo, in siffatta particolare ipotesi, solo un elemento per la commisurazione dell’ammontare del danno, privo di incidenza rispetto alla natura del vincolo, al fallimento spetta anche (art. 1223 c.c.) il ristoro per il mancato godimento delle somme liquidate, da calcolare applicando sulla somma predetta, rivalutata annualmente (fino alla data della sentenza), gli interessi al tasso legale a decorrere dalla data del fallimento e fino alla pronuncia.

23 Maggio 2023

Responsabilità dell’amministratore per prosecuzione dell’attività a seguito di riduzione del capitale al disotto del minimo

L’amministratore di una società a responsabilità limitata è responsabile nei confronti dei creditori sociali qualora, nel caso in cui la società amministrata abbia subito perdite consistenti e rilevanti, che avrebbero dovuto indurre l’amministratore ad assumere le doverose iniziative a tutela del patrimonio sociale, egli abbia proseguito l’attività d’impresa nonostante le perdite avessero eroso integralmente il capitale sociale. Tale responsabilità discende direttamente dalla violazione degli obblighi di attivarsi senza indugio, contenuti nell’art. 2485 c.c.

22 Maggio 2023

Il criterio di liquidazione del danno della differenza dei netti patrimoniali

La quantificazione del danno effettuata con applicazione del criterio dell’incremento del deficit patrimoniale è finalizzata a quantificare il danno risarcibile nelle ipotesi di violazione dell’obbligo di gestire la società ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio. In applicazione di detto criterio, il danno è calcolato come differenza tra valore del patrimonio netto individuato nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento e quello calcolato nel momento della liquidazione della società, ovvero della dichiarazione di liquidazione giudiziale. In tal modo, dunque, si addebita all’amministratore l’aggravamento del dissesto patrimoniale determinatosi tra il momento in cui si è verificata la causa di scioglimento della società e il momento in cui la stessa è stata acclarata, in seguito alla liquidazione, ovvero con la liquidazione giudiziale, quantificandosi, pertanto, il pregiudizio derivato dall’aggravamento del dissesto che, se la causa di scioglimento fosse stata tempestivamente acclarata dall’amministratore, non si sarebbe verificato. All’amministratore è, dunque, imputata la sola perdita incrementale, essendo il pregiudizio per la società configurabile come incremento del deficit patrimoniale.

22 Maggio 2023

L’azione di responsabilità della curatela e i doveri degli amministratori

Ai sensi dell’art. 2476 c.c. gli amministratori rispondono verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri loro imposti dalla legge e dall’atto costitutivo ovvero per non avere osservato, nell’adempimento di tali doveri, la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze, come previsto dall’art. 2392 c.c. sulla responsabilità degli amministratori della s.p.a., applicabile ex art. 12 disp. prel. al c.c. anche alla s.r.l.

Nonostante i doveri degli amministratori non trovino una enumerazione precisa e ordinata nella legge, possono condensarsi nel più generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio, che impone loro sia di astenersi dal compiere qualsiasi operazione che possa rivelarsi svantaggiosa per la società e lesiva degli interessi dei soci e dei creditori, in quanto rivolta a vantaggio di terzi o di qualcuno dei creditori a scapito di altri, in violazione del principio della par condicio creditorum, sia di contrastare qualsiasi attività che si riveli dannosa per la società, così da adeguare la gestione sociale ai canoni della corretta amministrazione.

Nei casi di azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. intentata dal curatore nei confronti degli ex amministratori di una società fallita viene esercitata cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità che sarebbe stata esperibile dalla medesima società, se ancora in bonis, nei confronti dei propri amministratori ai sensi dell’art. 2393 c.c. (o 2476 c.c. per le s.r.l.), sia l’azione che, ai sensi del successivo art. 2394 c.c., sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati dall’incapienza del patrimonio della società debitrice (2476, co. 6, c.c. per le s.r.l.). L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale; dunque, quanto al riparto dell’onere della prova, spetta all’attore allegare l’inadempimento, ovvero indicare il singolo atto gestorio che si pone in violazione dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto e il danno derivante da tale inadempimento, mentre è onere dell’amministratore contrastare lo specifico addebito, fornendo la prova dell’esatto adempimento.

Per quanto riguarda il criterio liquidativo del danno, in caso di totale assenza delle scritture contabili e dei bilanci, è legittimo l’utilizzo del criterio del c.d. deficit fallimentare secondo cui il danno viene liquidato, in via equitativa, nella misura pari alla differenza tra attivo e passivo del fallimento.

5 Maggio 2023

Presunta adozione abusiva di accordi di ristrutturazione dei debiti e sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione

L’affermazione della responsabilità dell’amministratore per la violazione degli obblighi derivanti dagli artt. 2447, 2485 e 2486 c.c. presuppone che: (i) risulti specificamente cristallizzato l’arco temporale a partire dal quale non avrebbe dovuto essere proseguita la consueta attività imprenditoriale; (ii) emerga che, in epoca successiva alla perdita del capitale sociale, fossero state poste in essere attività estranee ad una logica meramente conservativa; (iii) risulti acclarato che la prosecuzione della gestione, con modalità non meramente manutentive, avesse aggravato le perdite patrimoniali. Inoltre, occorre non soltanto che siano specificamente allegate e provate circostanze utili ai fini degli anzidetti accertamenti, ma anche che siano offerti elementi per la quantificazione del danno eziologicamente connesso a tale addebito.

La domanda di concordato preventivo, sia esso ordinario o con riserva, ai sensi dell’art. 161, co. 6, l. fall. presentata dal debitore non per regolare la crisi dell’impresa attraverso un accordo con i suoi creditori, ma con il palese scopo di differire la dichiarazione di fallimento, è inammissibile in quanto integra gli estremi dell’abuso del processo, che ricorre quando con violazione dei canoni di buona fede e correttezza e dei principi di lealtà processuale e del giusto processo, si utilizzano strumenti processuali per proseguire finalità eccedenti o deviate rispetto a quelle per le quali l’ordinamento le ha predisposte.

Gli amministratori sono responsabili nel caso in cui adottino uno strumento inadeguato a gestire la crisi di impresa, sempre che, tuttavia, tale inadeguatezza, rilevata ex post, venga ritenuta tale con la ragionevolezza di un giudizio ex ante.

A cospetto di una domanda di accordo di ristrutturazione ex art. 182 bis l. fall., in sede di omologa dell’accordo di ristrutturazione dei debiti, il sindacato del tribunale non è limitato ad un controllo formale della documentazione richiesta, ma comporta anche una verifica di legalità sostanziale compresa quella circa l’effettiva esistenza, in termini di plausibilità e ragionevolezza, della garanzia del pagamento integrale dei creditori estranei all’accordo, nei tempi previsti per legge. L’attestazione del professionista, seppure indispensabile, non ha però un effetto vincolante sul giudice, né questi può limitarsi ad un esame estrinseco della relazione, limitata cioè alla persuasività delle argomentazioni. Infatti, benché al professionista attestatore sia demandato il compito di certificare la veridicità dei dati forniti dall’imprenditore e di esprimere una valutazione in ordine alla fattibilità del piano dallo stesso proposto, occorre precisare che il controllo del giudice su questi aspetti non è di secondo grado, destinato cioè a realizzarsi soltanto sulla completezza e congruità logica della motivazione offerta dal professionista anche sotto il profilo del collegamento effettivo tra i dati riscontrati ed il giudizio espresso; il giudice può, infatti, discostarsi dal giudizio espresso dal professionista, così come potrebbe fare a fronte di non condivise valutazioni di un suo ausiliario.

La norma di cui all’art. 182 sexies l. fall. è stata introdotta dal legislatore al fine di non pregiudicare la possibilità di successo del piano di ristrutturazione dei debiti. Pertanto, è opportuno derogare alla disciplina civilistica degli obblighi gravanti sugli amministratori in caso di riduzione del capitale sociale, a partire dalla data di deposito delle domande di ammissione al concordato preventivo e di omologazione degli accordi di ristrutturazione, sino alla data dell’omologa o della declaratoria di inammissibilità della stessa. Resta tuttavia inteso che gli amministratori sono comunque tenuti al rispetto dell’art. 2486 c.c. fino al momento della presentazione delle ridette domande e, altresì, a convocare senza indugio l’assemblea al fine di adottare i dovuti provvedimenti qualora dovesse configurarsi una perdita di oltre un terzo del capitale sociale. D’altra parte, durante il suddetto arco temporale tanto non esime gli amministratori dal dovere di improntare la gestione in funzione della tutela del ceto creditorio e, dunque, preservare a tal precipuo scopo l’integrità del patrimonio sociale. In tali casi gli amministratori soggiacciono altresì ad un dovere di gestione in linea con il tipo di procedura concorsuale prescelta, potendo in talune ipotesi la prosecuzione dell’attività esser richiesta proprio al fine di soddisfacimento dei creditori (come nel caso di concordato in continuità, mentre in ordine all’accordo di ristrutturazione dei debiti non vi è una norma che imponga il divieto di gestione ordinaria dell’impresa). In ogni caso, una volta intervenuta l’omologa rivivono in capo agli amministratori tutti gli obblighi solo temporaneamente sospesi ai sensi dell’art. 182 sexies l. fall.; gli stessi, pertanto, una volta avvedutisi del procrastinarsi della situazione di crisi, devono adottare i provvedimenti richiesti dalla legge.

L’attestatore di un piano di risanamento può essere sempre chiamato a rispondere anche per semplice negligenza ex art. 1176, co. 2, c.c. e non solo per dolo o colpa grave ai sensi dell’art. 2236 c.c.; e tanto perché lo stesso, in ragione degli specifici obblighi assunti, è tenuto alla prestazione d’opera professionale secondo i canoni della diligenza qualificata, di cui al combinato disposto dell’art. 1176, co. 2, e dell’art. 2236 c.c., espletando la sua attività professionale in modo funzionale non solo al raggiungimento dello scopo tipico cui essa è preordinata, ma anche al rispetto degli obblighi imposti ed al conseguimento degli effetti vantaggiosi previsti dalla normativa in concreto applicabile, dovendo altresì adottare tutte le misure e le cautele necessarie e idonee per l’esecuzione della prestazione, secondo il modello di precisione e di abilità tecnica nel caso concreto richiesto, sicché, in difetto, egli risponde dei danni originati dal comportamento non conforme alla diligenza qualificata cui è obbligato anche nella sola ipotesi di colpa lieve.

3 Maggio 2023

La violazione dell’obbligo di gestione conservativa da parte dell’organo amministrativo

Qualora si verifichi una perdita del capitale sociale l’organo amministrativo deve agire al solo fine di preservare la conservazione del capitale sociale nella prospettiva della liquidazione, ovvero presentare istanza di fallimento. Devono pertanto ritenersi violati i canoni cui deve attenersi l’organo amministrativo dal momento in cui si verifica una causa di scioglimento della società nel caso in cui l’attività di impresa sia continuata nonostante la perdita del capitale sociale.