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Insussistenza del diritto di accesso alla documentazione sociale a favore del socio receduto

Il diritto del socio non amministratore di S.r.l. di accedere alla documentazione sociale ex art. 2476, comma 2, c.c. presuppone, in capo al richiedente, la qualità di socio (non amministratore) e, pertanto, non sussiste in capo al socio che abbia già esercitato il diritto di recesso dalla società. La natura recettizia della dichiarazione di recesso comunicata dal socio, alla stregua di quanto previsto dall’art. 1334 c.c., è produttiva di effetti immediatamente nel momento in cui entra nella sfera di conoscenza della società e non al termine della procedura di modificazione definitiva della compagine sociale, consistente nella liquidazione della quota mediante acquisto della stessa da un socio o da un terzo. Pertanto, quando la manifestazione di volontà del socio recedente viene portata a conoscenza della società, il socio receduto si trasforma in un mero creditore nei confronti della società per il rimborso della quota e, conseguentemente, perde la propria legittimazione ad esercitare il diritto di controllo previsto dall’art. 2476, comma 2, c.c. Il socio recedente è comunque tutelato dalla possibilità, prevista dall’art. 2476, comma 3, c.c., di richiedere al Tribunale la nomina di un esperto che, tramite relazione giurata, proceda alla determinazione del valore della quota al medesimo spettante. [ Continua ]
2 Ottobre 2023

Principi in materia di diritto di prelazione e tutela cautelare

La prelazione deve sostanziarsi nella accettazione delle stesse condizioni (modalità, prezzo) offerte dal terzo acquirente al socio alienante, il che implica la fungibilità della controprestazione (prelazione c.d. propria); se questa, invece, è infungibile, il diritto di preferenza si configura in termini affatto diversi (c.d. prelazione impropria), non giustificandosi con l’accettazione delle stesse condizioni proposte dal terzo, ma con l’offerta di condizioni differenti, che i soci, approvando lo statuto, hanno ritenuto satisfattive. La prelazione, intesa come mero obbligo di preferire un contraente piuttosto che un altro, può essere solo quella propria: l’infungibilità del corrispettivo dell’alienazione è, in sé stessa, ostativa all’ammissibilità dell’esercizio del diritto di prelazione, giacché rende impossibile il rispetto della parità di condizioni che ne costituisce il sostrato causale. Infatti, la prelazione di per sé è solo un obbligo di preferire a parità di condizioni. Per stabilire, invece, una facoltà di acquisto ad un prezzo dato, invece del trasferimento a terzi, è necessario che sia previsto nello statuto qualcosa in più, in realtà di diverso, della semplice prelazione. La c.d. denuntiatio può avere natura di proposta o promessa contrattuale (rispetto alla quale la dichiarazione del prelazionario si configura come accettazione), oppure di invito ad offrire. Con riguardo alla prelazione convenzionale, a seconda di come è configurato il diritto, è possibile che la denuntiatio costituisca un mero avviso della disponibilità di un terzo a contrattare alle condizioni comunicate. Se configurata in tal modo dall’accordo delle parti, se ne dovrebbe dedurre non solo che, con l’esercizio della prelazione, il contratto non è ancora stipulato, ma addirittura che la denuntiatio neppure obbliga il denunciante a contrarre – tanto meno nei casi in cui il diritto di prelazione è riconosciuto a più soggetti –, né attribuisce al beneficiario un diritto alla conclusione del contratto, ma solo ad essere preferito ad altro contraente se ed in quanto un contratto abbia luogo. La clausola di prelazione, se inserita (solo) in un patto parasociale, non è opponibile alla società né al terzo acquirente; talché la cessione eventualmente avvenuta in sua violazione non può impedire all’acquirente di chiedere, e alla società di effettuare, la registrazione del trasferimento, mentre il diritto di prelazione – spendibile solo nei confronti del socio che ha alienato, non del terzo acquirente estraneo a quel patto – non consente al titolare dello stesso di ottenere il retratto della quota, ma solo il risarcimento del danno dal socio inadempiente. Se invece la clausola è inserita nello statuto, essa è opponibile anche al terzo acquirente e alla società, perché la sua espressione statutaria la rende parte integrante dell’ordinamento societario nel quale il terzo intende fare ingresso; e ciò vale tanto più, ovviamente, se l’acquirente è già socio. In tale ipotesi, sarà proprio la cessione delle azioni, avvenuta in violazione della clausola, a risultare inopponibile alla società, la quale non dovrà registrare il trasferimento, che resterà invece valido solo tra alienante ed acquirente; l’inefficacia relativa del trasferimento, inidoneo ad incidere sull’assetto societario, rappresenta ed esaurisce la tutela degli altri soci, i quali non hanno perciò (di nuovo) alcun diritto di retratto sulla quota ceduta. Se poi l’organo amministrativo procedesse alla registrazione, pur in presenza di una violazione della clausola e della contestazione da parte di altri soci titolari del diritto di prelazione, si esporrebbe ad una responsabilità personale nei confronti di questi ultimi. [ Continua ]

Responsabilità dell’amministratore giudiziario

Il sequestro preventivo disciplinato dall'art. 321, comma 1, c.p.p. è una misura cautelare finalizzata ad evitare l'aggravamento o la protrazione delle conseguenze del reato ovvero l'agevolazione della commissione di altri reati, caratterizzata da ampia genericità cui si collega un’altrettanta ampia discrezionalità riconosciuta al pubblico ministero e al giudice penale nel disporne. Anche le misure cautelari reali debbono fondarsi sui principi di proporzionalità, adeguatezza e gradualità, nel senso di assicurare il minor sacrificio possibile di diritti costituzionalmente tutelati quali il diritto di proprietà e di libertà di iniziativa economica privata. Il bilanciamento tra tali principi è demandato al giudice penale, il quale è tenuto a conformare la misura cautelare al caso concreto ed a garantire la minima compressione delle situazioni giuridiche colpite dal sequestro. In tema di giudicato, la disposizione di cui all'art. 652 c.p.p. costituisce un'eccezione al principio dell'autonomia e della separazione dei giudizi penale e civile e non è, pertanto, applicabile in via analogica oltre i casi espressamente previsti. Pertanto, soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento ha efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre le sentenze di non doversi procedere perché il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non hanno alcuna efficacia extrapenale, a nulla rilevando che il giudice penale, per pronunciare la sentenza di proscioglimento, abbia dovuto accertare i fatti e valutarli giuridicamente. In ogni caso, il giudice civile può tenere conto di tutti gli elementi di prova acquisiti in sede penale, ripercorrendo lo stesso iter argomentativo del giudice penale decidente e può inoltre trarre elementi di convincimento dalle risultanze del procedimento penale ponendo a base delle proprie conclusioni gli elementi di fatto già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, sottoponendoli al proprio vaglio critico e valutandoli autonomamente Le norme di cui all’art. 65 e 67 c.p.c. si applicano anche al custode nominato in sede penale ai sensi dell’art. 321 c.p.p. e 104 bis disp. att. c.p.p. Pertanto, il custode deve provvedere alla conservazione e all’ amministrazione dei beni sequestrati secondo la diligenza del buon padre di famiglia, rispondendo altrimenti dei danni prodotti al proprietario dei beni stessi. I compiti del custode vanno individuati sia in tutte quelle attività conservative in senso stretto, finalizzate al mantenimento della piena integrità materiale del bene, sia in quelle attività in senso gestorio (come, ad esempio, l’esercizio del diritto di voto, l’impugnazione delle delibere assembleari) attività quest'ultima preclusa al proprietario e riservata al custode. Il custode di cose sequestrate in sede penale opera esclusivamente per conto del giudice al cui controllo è sottoposto come suo ausiliare; se da ciò deriva l'assenza di ogni rapporto di tipo privatistico con i titolari delle cose poste sotto sequestro, questo non esclude che, nei confronti degli stessi, il custode possa assumere una propria autonoma responsabilità di natura extracontrattuale ove cagioni loro un danno a causa dell'inosservanza dei suoi doveri inerenti alla conservazione delle cose affidategli in custodia. [ Continua ]
1 Settembre 2023

Il sequestro giudizio di una quota di società è compatibile con le azioni ex art. 2932 c.c.

Il sequestro giudiziario di una quota di società costituisce tipica misura cautelare prodromica ad una azione costituiva quale quella ex art. 2932 c.c., poiché la sua funzione è quella di garantire che il bene sequestrato non vada disperso, nel tempo occorrente per addivenire alla pronuncia definitiva. Infatti, una sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 2932 c.c. determina ex se il trasferimento del diritto in contestazione, ma la sua esecuzione comporta comunque la consegna del bene controverso. L’iscrizione della domanda giudiziale al Registro delle Imprese è un rimedio sufficiente (e perciò alternativo al sequestro) se il rischio che si vuole evitare è quello che le quote contese siano alienate ad un terzo in buona fede, al quale non è opponibile una eventuale sentenza iscritta successivamente al suo acquisto (mentre lo sarebbe la trascrizione anteriore della domanda giudiziale con effetto prenotativo della sentenza). Ma l’effetto di una sentenza di trasferimento di quote di partecipazione ad una società può essere azzerato anche in altro modo, ad esempio svuotando quelle quote di un valore apprezzabile, tramite operazioni diverse dalla loro alienazione – basti pensare ad un aumento di capitale che riduca la partecipazione controversa ad una quota irrisoria, o ad una messa in liquidazione rapidamente seguita dalla cancellazione della società – tali da rendere sostanzialmente inutile una vittoria in giudizio, lasciando l’acquirente che pure ottenesse una sentenza a sé favorevole con niente in mano. Questo rischio non sarebbe scongiurato dall’iscrizione della domanda giudiziale, il cui effetto “prenotativo” non toglierebbe all’intestatario formale della quota il diritto di farla valere in sede assembleare; mentre lo avrebbe il sequestro giudiziario, tramite una separazione della quota controversa dalle altre e l’attribuzione al custode dei diritti di voto, assoggettati giudizialmente ad un esercizio massimamente conservativo del valore da essa rappresentato. In un giudizio cautelare, l’avvenuto disconoscimento, da parte del resistente, di tutte le scritture private sul quale il ricorrente fondava il suo diritto impedisce di considerare quegli atti tra gli elementi di prova valutabili. Pertanto, tali documenti non possono essere in alcun modo utilizzati per fondare una decisione, essendo necessario procedere alla loro verificazione (valutazione che esula dal giudizio cautelare avente ad oggetto l’istanza di sequestro giudiziario). [ Continua ]
28 Ottobre 2023

Presupposti per la concessione del sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c.

Per la concessione sequestro conservativo ex art. 671 c.p.c. è richiesta la coesistenza dei due requisiti del fumus boni juris e del periculum in mora, intesi, il primo, come dimostrazione della verosimile esistenza del credito per cui si agisce, essendo infatti sufficiente, in base ad un giudizio necessariamente sommario e prognostico, la probabile fondatezza della pretesa creditoria e, il secondo, come timore di perdere la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. In particolare, per la sussistenza del requisito del periculum in mora occorre: da un lato, che la garanzia del credito tutelato si sia assottigliata oppure sia in procinto di assottigliarsi quali-quantitativamente rispetto al momento in cui il credito è sorto, a causa di condotte dispositive del debitore o dell’aggressione che dei suoi beni abbiano fatto o stiano per fare altri creditori; dall’altro, che il timore di perdere la garanzia del proprio credito si basi su elementi oggettivi, rappresentati dalla capacità patrimoniale del debitore in relazione all’entità del credito, oppure soggettivi, rappresentati dal comportamento del debitore che lasci fondatamente temere atti di depauperamento del patrimonio, non essendo comunque sufficiente a tal fine un mero giudizio di incapienza in sé del patrimonio del debitore né il mero sospetto circa la sua intenzione di sottrarre alla garanzia tutti o alcuni dei suoi beni. [ Continua ]
29 Settembre 2023

La modalità di contabilizzazione del finanziamento soci non è decisiva per la sua qualificazione

Un finanziamento operato dai soci in favore della società può avere una duplice finalità: (i) quella di capitale di credito, ossia apporto temporaneo di finanza, utile a sopperire a determinate esigenze e soggetto alla disciplina del mutuo e che attribuisce al socio che ha eseguito il versamento il diritto al rimborso, mentre in capo alla società sorge l’obbligo di restituirlo; (ii) quella di capitale di rischio, destinato a confluire nel capitale, quindi irripetibile se non al termine della liquidazione della società o tramite formale riduzione del capitale. Per comprendere quale tipo di apporto abbiano inteso effettuare i soci occorre indagare la loro reale volontà; a tal proposito, la modalità di contabilizzazione del finanziamento può rappresentare un indice, ma non è di per sé prova della natura del conferimento. Se un finanziamento è registrato “in conto aumento di capitale”, esso è da imputare senz’altro a capitale laddove un aumento di capitale sia stato deliberato, e di questo rappresenti dunque una anticipazione; ma se nessun aumento è mai stato deliberato, o sia decorso il termine entro il quale doveva avvenire, tale fatto rende presumibile che il versamento sia in realtà stato fatto a titolo di mutuo, con conseguente obbligo di restituzione a carico della società. [ Continua ]
28 Ottobre 2023

Fallimento del debitore opponente nel corso del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo

Nell’ipotesi di dichiarazione di fallimento o liquidazione coatta amministrativa intervenuta nelle more del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dal debitore ingiunto poi fallito o posto in liquidazione coatta amministrativa, il creditore opposto deve partecipare al concorso con gli altri creditori previa domanda di ammissione al passivo, attesa la inopponibilità al fallimento di un decreto non ancora definitivo e, pertanto, privo della indispensabile natura di sentenza impugnabile, esplicitamente richiesta dall’art. 95, co. 3, l.fall., norma di carattere eccezionale, insuscettibile di qualsivoglia applicazione analogica. In tal caso, la domanda deve essere riproposta al giudice fallimentare, la cui competenza inderogabile prevale sul criterio della competenza funzionale del giudice che ha emesso l’ingiunzione e la domanda formulata in sede di cognizione ordinaria, se proposta prima dell’inizio della procedura concorsuale, diventa improcedibile e tale improcedibilità è rilevabile anche d’ufficio, anche nel giudizio di cassazione, derivando da norme inderogabilmente dettate a tutela del principio della par condicio creditorum. Nel caso di domanda riconvenzionale proposta in un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo da un soggetto successivamente fallito nel corso del giudizio (interrotto e successivamente riassunto dal fallimento), deve essere dichiarata improcedibile l’opposizione a decreto ingiuntivo, mentre il giudice adito rimane competente a conoscere della domanda riconvenzionale proposta dal fallito e riassunta dal fallimento. [ Continua ]
28 Ottobre 2023

Sospensione della delibera assembleare nell’arbitrato societario e nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c.

In forza del disposto degli artt. 34, co. 1, e 35, co. 5, d.lgs. n. 5/2003, la pattuizione di una clausola compromissoria consente la devoluzione in arbitrato di controversie aventi ad oggetto la validità di delibere assembleari ex art. 2378 c.c. ed agli arbitri compete anche il potere di disporre la sospensione dell’efficacia della delibera (in virtù della precedente formulazione dell’art. 818 c.p.c. che impediva agli arbitri di concedere misure cautelari). Nel lasso di tempo intercorrente fra la proposizione della domanda di arbitrato e la formazione dell’organo arbitrale, è riconosciuta pacificamente la competenza del giudice ordinario in relazione alla sola istanza di sospensione della delibera e ciò fino al momento in cui l’organo arbitrale non solo sia stato nominato, ma anche sia concretamente in grado di provvedere, allo scopo di garantire agli interessati la piena e concreta fruizione del diritto di agire in giudizio ex art. 24 Cost. Il provvedimento di nomina del curatore speciale costituisce un sub-procedimento di volontaria giurisdizione che si traduce in un atto sempre modificabile e revocabile dal giudice che lo ha emesso, che non passa in giudicato e non assume una stabilità idonea ad integrare la nozione di definitività. Il provvedimento di nomina del curatore speciale di cui all’art. 78 c.p.c. è diretto non già ad attribuire o negare un bene della vita, ma ad assicurare la rappresentanza processuale tanto al soggetto che ne sia privo, quanto al rappresentato che si trovi in conflitto di interessi col rappresentante; ha pertanto una funzione meramente strumentale ai fini del singolo processo ed è sempre revocabile e modificabile ad opera del giudice che lo ha pronunciato. Non sussiste conflitto d’interessi, tale da rendere necessaria la nomina di un curatore speciale ex art. 78 c.p.c., nei giudizi di impugnazione delle deliberazioni assembleari di società, in cui il legislatore prevede la legittimazione passiva esclusivamente in capo alla società, in persona di chi ne abbia la rappresentanza legale; nè è fondata una valutazione di conflitto di interessi in capo all’amministratore, solo in quanto la deliberazione assembleare abbia ad oggetto profili di pertinenza dello stesso organo gestorio, posto che ravvisarvi un’immanente situazione di conflitto di interessi indurrebbe alla nomina di un curatore speciale alla società in tutte o quasi tutte le cause di impugnazione delle deliberazioni assembleari o consiliari, con l’effetto distorsivo per cui il socio impugnante tenterebbe sempre di ottenere, mediante il surrettizio ricorso al procedimento di nomina di un curatore speciale alla società ex art. 78 c.p.c., l’esautoramento dell’organo amministrativo dalla decisione delle strategie di tutela a nome della stessa. Non sussiste conflitto di interesse rilevante ex art. 78 c.p.c. allorché il socio che sia anche amministratore abbia espresso il proprio voto determinante a favore della deliberazione relativa al suo compenso, atteso che egli legittimamente può avvalersi del proprio diritto di voto per realizzare anche un proprio fine personale, salvo non si accerti che attraverso il voto egli abbia sacrificato a proprio favore l’interesse sociale. Mentre l’art. 78 c.p.c. si applica qualora si ravvisi una conflittualità tra la società ed il suo rappresentante (ossia l’amministratore), il conflitto di interessi di cui all’art. 2373 c.c. riguarda il rapporto fra socio e società, ossia quando il socio si trova nella condizione di essere portatore, di fronte ad una data deliberazione, di un duplice interesse: del suo interesse di socio e di un interesse esterno alla società. [ Continua ]

Principi in materia di contratto sociale e responsabilità ex art. 1218 c.c. del socio per inadempimento degli obblighi nascenti dal rapporto societario

Il contratto sociale di cui all’art. 2247 c.c. è un contratto di natura associativa, caratterizzato dalla comunione di scopo e soggetto alla più generale disciplina codicistica in materia di obbligazioni e contratti, salvo laddove il legislatore abbia dettato una disciplina speciale, di carattere derogatorio, volta a regolare taluni aspetti più specifici del rapporto societario (come, ad esempio, in punto di domanda di risoluzione del contratto).  Al contratto di società si applica l’ordinaria disciplina in tema di adempimento, il quale deve essere perciò valutato alla stregua del parametro della diligenza di cui all’art. 1176 c.c.  In particolare, con la conclusione del contratto di società nascono, in capo al socio e nei confronti della controparte contrattuale, una serie di obblighi di fedeltà, lealtà, ma soprattutto, di diligenza e correttezza inerenti alla natura fiduciaria del rapporto societario. Costituiscono gravi inadempienze al contratto sociale e, pertanto, fonte di responsabilità ex art. 1218 c.c., sia le condotte del socio che risultano idonee ad impedire il raggiungimento dello scopo sociale, sia quelle che abbiano inciso negativamente sulla situazione della società, tanto da rendere anche solo meno agevole il conseguimento delle finalità sociali.  Ad esempio, costituiscono gravi inadempimenti l’omissione di ogni collaborazione nella conduzione dell’esercizio sociale, il compimento di atti ostruzionistici alla normale gestione societaria e il porre in essere atti di concorrenza sleale nei confronti della società. Il comportamento del socio che ponga in essere atti di concorrenza sleale e storno di dipendenti, oltre a costituire grave inadempimento al contratto sociale (e, quindi, assumere rilevanza sotto il profilo contrattuale), integra anche gli estremi, oggettivi e soggettivi, della responsabilità extracontrattuale, sia per violazione del generale principio del neminem laedere, sia a titolo di concorrenza sleale di cui all’art. 2598, nn. 2 e 3, c.c. Le regole speciali dettate dal codice civile in materia di contratto di società precludono la possibilità di pronunciare, con riguardo a tale tipologia contrattuale, la risoluzione di cui agli artt. 1453 ss. c.c. in quanto le norme sull’esclusione del socio per gravi inadempienze, di cui agli artt. 2286 e 2287 c.c., hanno carattere speciale e sostitutivo del rimedio della risoluzione per inadempimento previsto dagli artt. 1453 ss. c.c., inapplicabile al contratto di società per essere quest’ultimo caratterizzato non già dalla corrispettività delle prestazioni dei soci, bensì dalla comunione di scopo. Pertanto, in caso di inadempimento del socio al contratto sociale, il rimedio tipico è quello della esclusione del socio inadempiente. Nei contratti consociativi, quali quello di società, caratterizzati non dalla biunivocità dei rapporti e dalla corrispettività delle prestazioni, bensì dalla circolarità dei rapporti e dalla destinazione delle prestazioni al perseguimento dello scopo comune, non risultano utilizzabili i rimedi generali dettati in tema di inadempimento contrattuale (in particolare, risoluzione del contratto ed exceptio inadimpleti contractus) ma solo i diversi rimedi del recesso e dell’esclusione dei soci. [ Continua ]
19 Ottobre 2023

Onere della prova in tema di consegna della documentazione sociale al nuovo amministratore

In un giudizio in cui è oggetto di contestazione l’avvenuta consegna (mediante invio di plico raccomandato) della documentazione relativa alla gestione di una società da parte del precedente amministratore al nuovo organo gestorio, una volta che il primo abbia fornito la prova della consegna del plico, il nuovo amministratore è tenuto a effettuare una specifica contestazione circa il relativo contenuto, non potendo limitarsi alla mera negazione che il plico contenesse i documenti indicati dal mittente. Il destinatario, dunque, al fine di negare la ricezione della documentazione sociale, è onerato di dimostrare il diverso contenuto ricevuto con quel plico ricevuto. Infatti, la lettera raccomandata o il telegramma (anche in mancanza dell’avviso di ricevimento) costituiscono prova certa della spedizione attestata dall’ufficio postale attraverso la ricevuta di spedizione, da cui consegue la presunzione, fondata sulle univoche e concludenti circostanze della spedizione e dell’ordinaria regolarità del servizio postale e telegrafico, di arrivo dell’atto al destinatario e di conoscenza ex art. 1335 c.c. dello stesso; pertanto, spetta al destinatario l’onere di dimostrare che il plico non contiene alcuna lettera al suo interno, ovvero che esso contiene una lettera di contenuto diverso da quello indicato dal mittente. [ Continua ]