27 Ottobre 2015

Azione di responsabilità verso gli amministratori e quantificazione del danno

L’azione svolta dal Fallimento ex art. 146 l. fall. cumula l’azione di responsabilità sociale (art. 2393 c.c.) e dei creditori (artt. 2394 e 2394 bis c.c.), cosicché, con riferimento alla consumazione del termine prescrizionale, occorre verificare se esso si sia perfezionato con riferimento ad entrambe le azioni di cui si discute, negandosi l’estinzione del diritto risarcitorio quando il perfezionamento non si sia verificato almeno con riferimento ad una delle due.

In tema di azione di responsabilità esercitata dai creditori sociali ex art. 2394 c.c., il termine di prescrizione decorre dal momento in cui sia divenuta oggettivamente conoscibile l’insufficienza patrimoniale della società, tale momento dovendo essere provato dagli organi sociali convenuti in giudizio e, in mancanza di prova contraria, coincidendo con la data di pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento.

Ove la responsabilità contestata agli amministratori consista nella prosecuzione illecita – cioè non conservativa e con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale – dell’attività economica della società dopo la perdita del capitale sociale in violazione del disposto dell’art. 2486 c.c., è onere dell’attore: a) allegare in modo qualificato – cioè sufficientemente preciso e determinato – il momento in cui il capitale sociale sarebbe sceso per perdite sotto il minimo legale o sarebbe divenuto negativo; b) dimostrare che l’attività di gestione della società è proseguita, in violazione degli artt. 2447 e 2486 c.c., senza l’adozione di misure volte alla conservazione del valore del patrimonio sociale e della sua integrità ed invece con assunzione di nuovo rischio imprenditoriale; c) provare che tale prosecuzione illegittima dell’attività sociale ha causato un danno alla società o ai creditori; d) provare l’entità del danno. Grava invece sui convenuti l’onere di provare l’inesistenza (della prova del) danno e del nesso di causalità, ovvero la non imputabilità a sé della prosecuzione illegittima dell’attività d’impresa.

Il ricorso alla quantificazione del danno in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c.  è consentito solo ove ricorrano circostanze che non hanno permesso l’accertamento degli effetti dannosi delle condotte contestate (come ad esempio la mancata tenuta o conservazione delle scritture contabili o la loro tenuta connotata da irregolarità così gravi da non consentire la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari), purché l’attore alleghi criteri di quantificazione precisi e “plausibili”, cioè capaci di produrre un risultato che rappresenti in modo comunque attendibile gli effetti patrimoniali dannosi del comportamento illecito addebitato agli organi sociali.

Ai fini della quantificazione del danno patrimoniale causato dall’illecita prosecuzione dell’attività economica ex art. 2486 c.c., non è imputabile agli organi sociali lo sbilancio antecedente la perdita del capitale sociale, perché effetto di attività economica svolta lecitamente, ivi inclusa la perdita del patrimonio netto che si sarebbe comunque registrata se la società fosse stata tempestivamente posta in liquidazione, visti i differenti principi contabili  che trovano applicazione in tale sede. Ne deriva che, ove tale quantificazione non sia possibile neppure in via equitativa, il metodo di quantificazione del danno incentrato sulla differenza dei patrimoni netti è inutilizzabile.

La quantificazione del danno secondo il criterio della differenza dei netti patrimoniali presuppone che la quantificazione del patrimonio netto alla data della perdita del capitale ed alla data della tardiva messa in liquidazione (o della dichiarazione di fallimento) sia effettuata secondo criteri contabili omogenei, in particolare, secondo quelli propri della liquidazione.

La modifica in corso di causa del criterio di quantificazione del danno deve considerarsi inammissibile, costituendo un mutamento della domanda iniziale.

Parimenti, è inammissibile per mutatio libelli la modifica della domanda da richiesta di risarcimento del danno causato dall’illegittima prosecuzione dell’attività economica ex art. 2486 c.c. a richiesta di risarcimento del danno in presenza di scritture contabili incapaci di rappresentare in modo veritiero e corretto il patrimonio ed il movimento degli affari della società fallita.

La mancanza o l’inidoneità rappresentativa dei documenti contabili può costituire deduzione rilevante ai fini della prova del danno oppure costituire essa stessa addebito mosso agli organi sociali. Nel primo caso, tale comportamento negligente non esime l’attore dall’allegare in modo “qualificato” sia il comportamento illegittimo addebitato agli organi sociali sia il danno conseguitone, che tutt’al più potrà essere liquidato in via equitativa ex art. 1226 c.c. ove ricorrano circostanze che ne impediscano un accertamento puntuale e solo ove i criteri utilizzati appaiano comunque plausibili. Nel secondo caso, invece, l’assenza o l’inidoneità rappresentativa delle scritture contabili non può costituire una condotta di per sè fonte di danno, che neppure in astratto può essere fatto coincidere con lo sbilancio attivo-passivo fallimentare.

Nel caso in cui le domande proposte dall’attore non siano accolte, le spese di lite devono essere addossate secondo il principio della soccombenza ex art. 91 ss c.p.c., tenuto conto anche del principio di imputazione della chiamata di terzi da parte del convenuto, in forza del quale l’attore soccombente verso il convenuto deve altresì rifondere le spese di giudizio al soggetto terzo chiamato, salvo che la chiamata in causa del terzo fosse “palesemente arbitraria”.

Il danno da lite temeraria, risarcibile ex art. 96 c.p.c., può essere liquidato equitativamente in misura pari all’ammontare delle spese processuali, posto che lo stesso deve essere parametrato alla luce del tempo e delle energie profuse dalla parte per contrastare le infondate pretese dei chiamanti, nonchè del disagio costituito dal dover resistere in giudizio ad un’iniziativa destituita di ogni fondamento.

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Giorgio Grossi

Giorgio Grossi

Amministratore

Avvocato, già tirocinante ex art. 73 d.l. n. 69/2013 presso la Sezione Specializzata in materia d'Impresa del Tribunale di Milano. Cultore della materia presso la cattedra di Diritto Commerciale dell'Università...(continua)

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