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Corte d’appello di Milano


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La clausola di esclusiva nei contratti di distribuzione e negli accordi intercorrenti tra soggetti posti a differenti livelli della catena produttivo-distributiva

La clausola di esclusiva (frequentemente apposta nei contratti di distribuzione e negli accordi intercorrenti tra soggetti posti a differenti livelli della catena produttivo-distributiva), nella sua forma bilaterale o reciproca, consiste, da una parte, nell’impegno per il produttore/fornitore di non conferire contemporaneamente a più distributori l’incarico di trattare i propri prodotti in una determinata zona e, dall’altra, nell’impegno per il distributore di non trattare nella zona prodotti concorrenti. I reciproci vincoli si estendono altresì alla commercializzazione diretta di prodotti da parte del produttore/fornitore e alla produzione di prodotti concorrenti da parte del distributore.

Lo scopo della clausola di esclusiva è quello di garantire alle parti un più stretto vincolo di collaborazione, al fine di assicurare una miglior distribuzione dei prodotti e il successo delle attività imprenditoriali di ciascuna di esse. Una simile pattuizione costituisce, allo stesso tempo, un incentivo all’integrazione e una limitazione della concorrenza, impegnandosi entrambe le parti a limitare la propria libertà di iniziativa economica, per un determinato periodo di tempo e all’interno di una certa zona.

Stante il carattere accessorio della clausola di esclusiva e la pervasività che una simile clausola ha nei rapporti obbligatori tra le parti, la stessa deve trovare adeguata ed esplicita trattazione all’interno del testo contrattuale, dovendo essere previsti, in modo inequivoco, i tempi e le modalità esecutive da adottare al fine di garantire un celere passaggio nella commercializzazione dei prodotti tra le due società, così da scongiurare il rischio, per entrambe le parti, di subire perdite sul mercato. In tale contesto, anche l’analisi del comportamento delle parti successivo alla stipulazione dei contratti (ad esempio, una fitta corrispondenza intercorsa tra le medesime) può indurre ad escludere l’esistenza di un diritto di esclusiva.

Nullità del trust autodichiarato in cui disponente trustee e beneficiario coincidono

I soggetti che costituiscono il trust (disponente, trustee e beneficiario) non possono coincidere, in quanto il trust istituisce in capo al trustee una proprietà limitata nel suo esercizio in funzione della realizzazione del programma stabilito dal disponente nell’atto istitutivo a vantaggio del beneficiario e che, di conseguenza, ove tali figure coincidano (come nell’atto di trust per cui è causa), la proprietà del trustee in nulla differisce dalla proprietà piena.

Ne segue che tale tipologia di trust deve ritenersi affetta da nullità, in quanto priva di uno degli elementi costitutivi, secondo quanto previsto dall’art. 2 della Convenzione dell’Aja (cfr. Cass. Civ. n. 12718/2017).

In altri termini, il disponente potrà mantenere, secondo quanto previsto dalla norma, alcune prerogative, ma non potrà mai coincidere con la figura del trustee e con il beneficiario, pena il totale snaturamento dell’istituto e la conseguente nullità dello stesso.

Codice RG 1001 2021

La concorrenza sleale per assunzione di un dipendente chiave dell’impresa concorrente e il rischio di illecita sottrazione e detenzione di informazioni riservate

Per integrare una condotta di concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3 c.c., non è sufficiente l’utilizzo, da parte dell’ex dipendente presso il nuovo datore di lavoro, del bagaglio di cognizioni ed esperienze acquisite in costanza del precedente rapporto di lavoro, trattandosi di conoscenze divenute ormai parte della personalità del dipendente, che da lui possono essere legittimamente portate a supporto di migliori nuove possibilità lavorative.

Pertanto, laddove non si travalichi il limite della segretezza delle informazioni o di eventuali patti di non concorrenza validi, per il periodo successivo al rapporto di lavoro, non costituisce concorrenza sleale – bensì sviluppo fisiologico delle relazioni professionali – lo sfruttamento da parte dell’ex dipendente delle competenze e conoscenze lecitamente acquisite grazie alle precedenti esperienze lavorative.

In materia di segreti commerciali, affinché possa trovare applicazione la disciplina di cui agli artt. 98-99 c.p.i., volta ad apprestare una tutela contro la illecita acquisizione, rivelazione, detenzione ed utilizzazione di informazioni segrete e/o riservate, sono richieste tre condizioni cumulative: a) la segretezza dell’informazione; b) il valore economico dell’informazione in quanto segreta; c) l’adozione da parte del detentore di misure ragionevolmente adeguate a mantenere segreta la stessa.

Ne deriva che la tutela predisposta dalle suddette norme non può essere invocata laddove vi sia una divulgazione della notizia, anche in occasione di conferenze o presentazioni tecnico commerciali ovvero laddove le informazioni non possano qualificarsi, ab origine, come “segreto commerciale”, in quanto “non definibili come formulazioni frutto di soluzioni formali nuove o originali o che necessitino di informazioni tecniche non diffuse e non note nel settore”.

Nullità delle clausole di fideiussioni contrarie al divieto delle intese anticoncorrenziali

Il provvedimento della Banca d’Italia n. 55/2005 possiede un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale e il giudice di merito non può attribuire rilievo decisivo all’attuazione o non attuazione della prescrizione impartita da Banca d’Italia ad ABI, essendo, invece, tenuto a verificare se le disposizioni contrattualmente pattuite coincidano con le condizioni vietate dell’intesa restrittiva (cfr. Cass., Sent. 13846/2019).

La conseguenza di tale accertamento è il rilievo della nullità delle sole clausole che si pongono in contrasto con il divieto di intese anticoncorrenziali e ciò vale sia per i contratti conclusi prima del provvedimento della Banca d’Italia, sia per quelli conclusi in epoca successiva e che dello stesso non sono rispettosi (cfr. Cass., Sent. 41994/2021).

Il danno (e la relativa prova) nel caso di sottrazione di informazioni riservate

Il danno cagionato da violazione dei diritti di proprietà industriale non è in ‘re ipsa’, ma deve essere provato secondo i principi generali. La prova del relativo danno, ai sensi dell’articolo 125 c.p.i., può essere fornita dimostrando, alternativamente, l’esborso (il danno emergente) e la diminuzione attuale e/o potenziale del proprio fatturato (il lucro cessante) e la riferibilità di tali fatti all’illecito altrui, oppure l’utile dell’autore dell’illecito, da riversare al soggetto titolare del diritto leso in presenza di una domanda di retroversione degli utili ex art. 125, terzo comma, c.p.i. In tema di risarcimento del danno emergente, le spese per l’accertamento dell’illecito sono voci di danno risarcibili in caso di violazione di diritti di proprietà industriale.

Sulla riformulazione delle rivendicazioni brevettuali nel corso del giudizio di nullità brevettuale

Nell’ambito di un giudizio di nullità brevettuale il titolare del brevetto ha la facoltà ed il diritto potestativo ai sensi dell’art. 79 c. 3 c.p.i. di sottoporre al Giudice un’istanza – esercitabile in ogni fase e grado del giudizio – di riformulazione delle rivendicazioni oggetto di brevetto, purché la richiesta avvenga: i. sul piano sostanziale entro i limiti del contenuto della domanda di brevetto iniziale e non individui una estensione ulteriore rispetto a quella oggetto del brevetto; ii. sul piano processuale nei limiti dei principi del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso, nonché nel rispetto della clausola generale di buona fede (anche processuale) e con il limite dell’abuso del diritto.
L’esercizio del diritto di riformulazione delle rivendicazioni brevettuali non costituisce una mutatio libelli ma una disposizione del diritto sostanziale purché esercitata con modalità non abusive e compatibilmente con il principio costituzionale del giusto processo, attesi gli accertamenti peritali che normalmente si rendono indispensabili per la natura tecnica della materia successivamente all’esercizio di tale diritto: lo ius poenitendi sostanziale non può essere esercitato in modo abusivo e reiterato, ma deve esserlo sempre secondo i canoni del giusto processo, anche al fine di evitare e scongiurare il più possibile un’eccessiva durata dello stesso, rendendo necessari continui e iterativi accertamenti peritali sulle riformulazioni via via avanzate.

Scioglimento anticipato di s.r.l. per impossibilità di funzionamento e continuata inattività dell’assemblea

In base al disposto dell’articolo 2484, n. 3, c.c. lo scioglimento anticipato delle società a responsabilità limitata può avvenire qualora vi sia una “continua inattività” dell’assemblea o qualora sussista una “impossibilità di funzionamento” della stessa, ovvero quando un insanabile contrasto tra i soci renda l’organo assembleare incapace – in maniera stabile ed irreversibile – di assolvere le sue funzioni essenziali.

Nelle fattispecie in cui vi siano solo due soci paritetici, la sussistenza di un’insanabile conflittualità tra gli stessi, e il conseguente venire meno della fiducia reciproca, rende inevitabilmente impraticabili i meccanismi assembleari previsti dalla legge, con la conseguente impossibilità di un corretto, disteso e proficuo svolgimento dell’attività sociale. Appare del tutto irrilevante che tale impossibilità si configuri come una “continua inattività” dell’assemblea a causa della mancata partecipazione di un socio alle riunioni assembleari, posto che il dissidio tra i due soci paritetici, rendendo impossibile il raggiungimento delle maggioranze necessarie, provocherebbe comunque “un’impossibilità di funzionamento” dell’assemblea, integrando una causa tipica di scioglimento dell’ente.

Modalità di accertamento della responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori

L’accertamento giudiziale della responsabilità degli amministratori di una società di capitali è soggetto ad alcuni limiti, usualmente indicati con l’espressione business judgment rule (cfr., da ultimo, Cass., 15 luglio 2021, n. 20252).

In particolare, qualora l’operato degli amministratori non contrasti con specifiche norme di legge o di statuto, risultando invece solo genericamente pregiudizievole per la società, si richiede, ai fini dell’accertamento di una responsabilità risarcitoria a carico degli amministratori, che le decisioni assunte siano, già in una prospettiva ex ante, riconoscibili come errate da una persona dotata del grado di diligenza parametrato alla natura dell’incarico e alle competenze specifiche di ciascun amministratore.

Il che si traduce nella possibilità di configurare una responsabilità a carico degli amministratori esclusivamente rispetto a quelle condotte che, nel momento in cui sono state poste in essere, possano apparire avventate o imprudenti, vuoi perché contrarie a canoni di ragionevolezza, vuoi perché assunte in difetto delle cautele, delle verifiche e delle informazioni preventive normalmente richieste in relazione alla scelta da compiersi (nella specie la Corte di Appello, in riforma della decisione di primo grado, ha ritenuto foriero di responsabilità il comportamento dell’amministratore che, versando un sostanzioso acconto per un contratto, non aveva preteso l’inserimento di clausole specifiche a tutela della società)

Clausola simul stabunt simul cadent e revoca dell’amministratore

Non c’è abusivo esercizio della clausola simul stabunt simul cadent (nel caso di specie con la previsione che, al venire meno della maggioranza dei componenti del consiglio di amministrazione, decade l’intero consiglio di amministrazione) nel caso di revoca dell’amministratore se le dimissioni dei consiglieri sono sorrette da valide ragioni e non strumentali alla revoca.

Anche ove dovesse ritenersi fondata la responsabilità di uno dei consiglieri per la promessa del fatto del terzo ex art. 1381 c.c. (nel caso di specie non provata), con riguardo alla quantificazione del danno, il risarcimento del danno potrebbe essere parametrato, al più, al compenso dovuto per il periodo di preavviso. Non può invece  considerarsi come componente automatica, nel conteggio del compenso annuale, anche la porzione variabile del corrispettivo.