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Corte d’appello di Milano


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Azione di responsabilità: costituzione in mora e giudizio d’appello

Ai fini della valida costituzione in mora idonea ad interrompere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno nei confronti dei membri degli organi sociali, non è necessaria l’individuazione degli specifici addebiti né la distinzione tra le posizioni dei diversi amministratori e sindaci, ma è sufficiente, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato, l’esplicitazione di una pretesa e l’intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l’inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto.

La parte appellante che intenda censurare l’interpretazione fornita dal primo giudice ai documenti prodotti dalla parte vittoriosa, laddove quest’ultima non si sia costituita in appello e tali documenti non siano stati perciò acquisiti nel relativo giudizio mediante la produzione del fascicolo di parte, ha l’onere di produrli, estraendone copia ai sensi dell’art. 76 disp. att. c.p.c.; in caso contrario, il giudice di secondo grado non può esaminarli e, di conseguenza, gli è preclusa la verifica della fondatezza dei motivi d’appello connessi alla valutazione di quei documenti.

Risulta viziata da ultrapetizione la sentenza di primo grado che abbia condannato un amministratore al risarcimento dell’intero danno, in solido con gli altri membri degli organi sociali convenuti, senza al contempo limitarne la responsabilità all’importo indicato dall’attore stesso nell’atto di citazione, quale ammontare del danno imputabile a quell’amministratore.

Responsabilità limitata del socio per i debiti della società cancellata: natura del credito e delimitazione dell’onere della prov

La cancellazione di una s.r.l. dal registro delle imprese implica che l’obbligazione sociale non si estingua ma si trasferisca ai soci (i quali ne rispondono nei limiti di cui all’art. 2495, 3° comma, c.c.).

 

Conflitto di interessi di amministratori di società a responsabilità limitata: la discrezionalità gestoria è tutelabile solo se l’operazione avviene nel libero mercato

La legittimità delle operazioni concluse dagli amministratori in conflitto di interessi deve essere valutata considerando le loro ragioni e la loro convenienza.

Non sussiste dubbio, pertanto, che anche alle s.r.l. si applichi la regola che l’amministratore che, agendo in conflitto e perciò violando l’obbligo di lealtà verso la società, provochi un danno alla società è tenuto al risarcimento, in quanto la discrezionalità gestoria è tutelabile solo in quanto l’operazione avvenga nel libero mercato, dove sono appunto gli interessi confliggenti ivi operanti (es.: compratore/venditore) a limitare in primis e secondo parametri generali di convenienza economica l’operato dell’amministratore; quei parametri costituiscono appunto il limite tecnico alle scelte gestorie dell’amministratore.

Quando però lo stesso amministratore, con il suo operato, disinnesca i limiti posti dal mercato, decidendo di operare con se stesso o con parti correlate, ne consegue che il suo operato debba essere valutato da un’istanza terza, il Giudice, al fine di verificare se l’operazione sia conforme all’interesse sociale, con riferimento alle ragioni ed alla convenienza economica dell’operazione medesima.

Nel caso in cui, come quello in esame, i contratti di licenza e di cessione dei marchi sono stati stipulati in evidente conflitto di interesse (in quanto gli amministratori hanno stipulato con se stessi i contratti in questione, essendo loro stessi, da un lato, i titolari dei marchi, dapprima concessi in licenza e successivamente ceduti, e dall’altro lato gli amministratori della società dapprima licenziataria e successivamente acquirente dei marchi), la regola dell’insindacabilità delle scelte economiche effettuate dagli amministratori della società cede a fronte della necessità di valutare se l’operazione compiuta dai rappresentanti ha provocato un danno alla società rappresentata, come è stato accertato nella fattispecie in esame, sulla base della consulenza tecnica, disposta nel giudizio di primo grado.

Sospensione dell’efficacia esecutiva di una sentenza. Il caso Mario Valentino vs Valentino Spa

Ai fini della sospensione dell’esecuzione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 373 c.p.c., la valutazione giudiziale è essenzialmente circoscritta al riscontro della sussistenza di un “grave e irreparabile danno” in conseguenza dell’esecuzione della sentenza. Secondo l’interpretazione consolidata della norma, si qualifica come ‘grave’ il danno che ecceda il pregiudizio necessario che il debitore normalmente subisce dall’esecuzione della sentenza, determinando uno squilibrio tra i vantaggi che può ricavare il creditore dall’esecuzione della decisione e il pregiudizio che ne deriva all’altra parte, tale da apparire superiore a quello che di norma consegue all’esecuzione forzata. Il requisito dell’irreparabilità sussiste quando il pregiudizio sia insuscettibile di restitutio in integrum allorché il provvedimento impugnato venga cassato. [Nel caso di specie, il pregiudizio che deriverebbe dalla modificazione, protrattasi da lunghissimo arco di tempo, dell’uso di marchi notori, vietando l’uso congiunto di marchi rientranti nella titolarità della ricorrente in relazione ai beni riconducibili alla classe 18, può ritenersi irreversibile, implicando la necessità di rimodulare su scala mondiale le collezioni di borse, venendo ad incidere sulla percezione del pubblico di riferimento e sui rapporti in essere con i licenziatari.]

Integrale compensazione delle spese di lite in caso di sopravvenuta carenza di legittimazione attiva

E’ corretto disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti in ragione del carattere sopravvenuto della dirimente perdita della legittimazione attiva dell’attrice quanto alla domanda ex art. 2394 c.c. Tale valutazione, infatti, è da ritenersi coerente con il disposto dell’art. 92, comma 2, c.p.c. – come modificato dal D.L. n. 132/2014 – e con la pronuncia n. 77/2018 della Corte Costituzionale, con cui è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo il citato art. 92 nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano – oltre alle ipotesi normativamente previste di soccombenza reciproca, di assoluta novità della questione trattata e di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti – “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”, nel caso in esame consistenti proprio nella sopravvenuta perdita della legittimazione attiva della parte attrice.

Esecuzione provvisoria del decreto ingiuntivo in sede di opposizione

Il giudice istruttore, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, può emettere il provvedimento con il quale concede la provvisoria esecuzione ex art. 648 c.p.c. anche all’esito delle memorie ex art. 183 comma 6 c.p.c., trattandosi di un provvedimento che può essere emesso sia in prima udienza, sia essere differito all’udienza successiva, nel caso in cui sia necessario garantire il rispetto delle ragioni del contraddittorio e delle esigenze di difesa dell’opponente.

L’ordinanza con la quale il giudice, in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, concede la provvisoria esecuzione ex art. 648 c.p.c. è espressamente definita come “non impugnabile” e deve pertanto escludersi la possibilità di una sua autonoma impugnazione in appello nella pendenza del giudizio di primo grado. Non vale ad affermare il contrario l’allegazione di parte secondo la quale il provvedimento sarebbe comunque impugnabile per il fatto che lo stesso avrebbe il contenuto decisorio di una sentenza, in ragione del fatto che il giudice, per mezzo di esso, si sarebbe già pronunciato nel merito della controversia prendendo posizione sulle difese dell’appellante. La circostanza che il giudice istruttore, ai fini della concessione della provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, abbia correttamente valutato, da un lato, il merito della pretesa creditoria azionata con il decreto ingiuntivo e, dall’altro, il carattere non ostativo delle ragioni di opposizione fatte valere dall’opponente, non implica in alcun modo che l’ordinanza con cui è stata concessa la provvisoria esecuzione possa assumere un carattere decisorio e definitivo, tale da consentire la sua impugnazione in appello, in contrasto con la regola della sua non impugnabilità fissata dall’art. 648 c.p.c. L’ordinanza con la quale il giudice concede la provvisoria esecuzione ex art. 648 c.p.c. deve qualificarsi, infatti, come un provvedimento non definitivo e non decisorio, che sul piano degli effetti resta un’ordinanza interinale destinata ad esaurirsi con la sentenza sull’opposizione. Detta ordinanza non è, in definitiva, impugnabile con l’appello neppure se, ai fini della sua pronuncia, il giudice abbia conosciuto di questioni di merito rilevanti per accertare la sussistenza del fumus del diritto in contestazione.

Limiti di applicabilità della cd. “bolar clause” alle ipotesi di produzione e rivendita di principio attivo oggetto di privativa

L’art. 68 c.p.i., introducendo limiti al diritto di esclusiva, è norma di stretta interpretazione che, pur non consentendo, ex art. 14 preleggi, l’interpretazione analogica, ammette, tuttavia, l’interpretazione estensiva [in applicazione di tale principio la Corte d’Appello, aderendo all’orientamento del Giudice di prime cure, ha ritenuto che, come un genericista è libero di compiere attività teorica e pratica in vista dell’ottenimento di una AIC, altrettanto possa fare – pur con i limiti evidenziati in sentenza – un terzo che non intende ottenere una AIC in proprio, ma mettere il principio attivo a disposizione di imprese che abbiano come obiettivo l’ottenimento di una AIC].

La cd. “Bolar clause” di cui all’art. 68, comma 1, lett. b), c.p.i. non può applicarsi ai meri produttori/rivenditori di principio attivo, ossia a coloro che svolgono attività di sperimentazione e produzione non finalizzata all’ottenimento di un’AIC, ma finalizzata ad ottenere il principio attivo oggetto della privativa ed a porlo in vendita ad altri: in questi casi, infatti, la produzione/offerta del prodotto è obiettivamente slegata dalla finalità di ottenere un’AIC ed il profitto che il produttore ricava dalla vendita dello stesso è la remunerazione di un’attività di studio e produzione, offerta e pubblicizzazione, ovvero di un’attività commerciale del principio brevettato, in difetto di alcuna copertura della scriminante. Tuttavia, proprio la formulazione in senso oggettivo dell’eccezione rende la stessa applicabile anche all’attività di terzi che producono il principio attivo del farmaco brevettato, su richiesta di genericisti non attrezzati a produrre in proprio, ma intenzionati ad entrare sul mercato alla scadenza dell’esclusiva del titolo brevettuale: in tali casi, quindi, l’attività del terzo si coniuga strettamente a quella del genericista che intende ottenere l’AIC ed il profitto che ne ricava costituisce remunerazione del servizio reso, mettendo a disposizione le sue capacità, esperienza e strumenti tecnologici

Il produttore del principio attivo, per fruire dell’eccezione della cd. “Bolar clause” di cui all’art. 68, comma 1, lett. b), c.p.i., deve dimostrare di aver agito su input di un soggetto genericista e di avere adeguatamente regolamentato e presidiato in via negoziale (per esempio, con la previsione di una penale) il fatto che il genericista utilizzerà il principio attivo soltanto per finalità Bolar. In difetto di tali condizioni, appaiono del tutto irrilevanti le quantità del principio attivo realizzate e vendute dal produttore e ciò a maggior ragione considerata l’estrema variabilità dei quantitativi necessari per la fase sperimentativa/registrativa

Intestazione fiduciaria di azioni, recesso e risarcimento del danno

Con riferimento alla figura del pactum fiduciae risulta dirimente  la distinzione tra la nozione di proprietà formale e quella di titolarità del bene intestato dal fiduciante al fiduciario.  L’operazione fiduciaria consta tipicamente di due negozi: l’uno reale, finalizzato al trasferimento della proprietà, e l’altro obbligatorio, efficace soltanto tra le parti (pactum fiduciae romanistico) . Nello schema di tale operazione l’alienante (fiduciante) trasferisce un diritto per uno scopo ulteriore al trasferimento della proprietà, scopo che l’acquirente (fiduciario) si obbliga a rispettare e a realizzare in forza del pactum fiduciae.

Da tale patto sorge, dunque, l’obbligo del fiduciario di esercitare il diritto secondo le modalità pattuite e nell’interesse del fiduciante, nonché di retrocedere il bene allo stesso fiduciante o a un terzo. Pertanto, gli obblighi di amministrare e di retrocedere il bene, assunti dal fiduciario, realizzano una scissione tra la proprietà formale (posta temporaneamente in capo al fiduciario) e la titolarità del bene (gestito per l’appunto nell’interesse del fiduciante e destinato ad essere a lui restituito). Dunque, tale scissione tra proprietà e titolarità, propria del pactum fiduciae, configura una interposizione reale di persona.

In seguito all’esercizio del diritto di recesso, il socio receduto perde lo status socii – diventando titolare del diritto di rimborso della quota a far data dalla ricezione della comunicazione di recesso – senza che ciò, tuttavia, comporti l’inesistenza della quota stessa, il cui valore, in difetto di alienazione, permane in capo agli altri soci a guisa di un corrispondente accrescimento delle rispettive quote.

Invero, l’erede del fiduciante subentra jure hereditatis nei diritti e obblighi del fiduciante e pertanto, in caso di esercizio del diritto di recesso da parte del fiduciario, ha diritto:
(i) di ottenere la liquidazione della partecipazione societaria per la quota successoria spettante;
(ii) di chiedere, in luogo del de cuius e dunque sempre pro-quota, il risarcimento del danno in tesi subito dal fiduciante, per la violazione degli obblighi assunti nel pactum fiduciae dal fiduciario.

Efficacia probatoria della richiesta di pagamento avanzata dal socio-liquidatore verso la società

Qualora il socio di una società in liquidazione, di cui sia anche il liquidatore, rinunci al suo credito nei confronti di questa, la sua rinuncia non può venire inficiata da una successiva richiesta di pagamento da lui trasmessa, in qualità di socio, alla società e poi prodotta in giudizio. Ciò in quanto la richiesta di pagamento sarebbe priva di ogni valenza probatoria, provenendo – ed essendo peraltro ricevuta- dalla medesima parte che pretende di farne valere gli effetti. [Nel caso di specie, la Corte d’Appello, con la predetta motivazione, ha riformato la sentenza di primo grado, nella parte in cui aveva ritenuto fondata, sulla base della succitata richiesta di pagamento, la pretesa del socio ad ottenere dalla società il credito a cui aveva previamente rinunciato].