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Tribunale di Catania


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Termine di prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare

Qualora sia stata promossa azione penale per bancarotta nei confronti degli amministratori di una società soggetta a procedura concorsuale e sia stata esperita azione di responsabilità contro tali organi per gli stessi fatti, si applica il termine di prescrizione più lungo previsto per l’azione di danno derivante da reato anche agli effetti delle azioni di responsabilità ai sensi degli artt. 2393 e 2394 c.c.

La prescrizione quinquennale dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori e dei sindaci di una società fallita decorre dalla data della sentenza dichiarativa di fallimento , quando i fatti che costituiscono l’illecito civile siano gli stessi di quelli che integrano i reati fallimentari.

L’azione esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.fall. compendia in sé sia l’azione sociale che quella dei creditori sociali, e la stessa è pacificamente ammissibile anche nel caso di S.r.l.

Il termine di prescrizione dell’azione spettante ai creditori sociali decorre dal momento in cui si manifesta lo stato di insolvenza della società (e non dal momento del compimento del singolo atto dannoso); pertanto,  ai fini della decorrenza del termine di prescrizione, occorre  avere riguardo non alla data cui far risalire l’effettiva insolvenza, ma alla data in cui essa si è manifestata all’esterno. Nel caso in cui tale data non sia stata indicata e dimostrata dalla parte interessata, essa coincide con il deposito della sentenza di fallimento.

Intervenuta l’insolvenza della società,  la mancata tenuta delle scritture contabili non consente di stabilire in modo preciso quando la società si sia trovata in stato di scioglimento per perdita del capitale o per altri motivi; pertanto, in tale ipotesi, si determina una inversione dell’onere della prova, dovendo essere gli amministratori inadempienti a quell’obbligo a provare che il dissesto è derivato da cause loro non imputabili o non imputabili ad un loro comportamento negligente.

Responsabilità dell’amministratore per illegittima prosecuzione dell’attività di impresa

In presenza di situazioni di illecita prosecuzione dell’attività di impresa e di conseguente difficoltà di ricostruire ex post il risultato netto di singole operazioni non conservative, è possibile procedere alla determinazione del danno mediante criteri presuntivi o equitativi. In particolare, in tali casi, è possibile adottare il criterio della differenza dei netti patrimoniali, giacché la “perdita patrimoniale netta” consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione subita dal patrimonio sociale (dunque il danno per la società e per i creditori) per effetto della ritardata liquidazione.

Ai fini della corretta determinazione del danno, occorre addebitare all’amministratore solo i danni che siano conseguenza immediata e diretta del suo comportamento illecito, con conseguente necessità di eliminare dal suddetto importo tutte quelle voci di bilancio – in termini di costi – presenti anche in una gestione sociale di tipo conservativo.

Recesso del socio: individuazione del termine massimo entro cui la messa in liquidazione della società può renderlo inefficace

L’interpretazione letterale e costituzionalmente orientata dell’art. 2473, comma 5, c.c. porta a ritenere che il termine entro cui la società, deliberando la propria messa in liquidazione, può rendere privo di efficacia il recesso legittimamente esercitato dal socio vada individuato in quello massimo di gg. 180 (pari al termine di preavviso previsto dal secondo comma dell’art. 2473 cc) più ulteriori gg. 180 (pari al termine massimo previsto dal quarto comma dell’art. 2473 c.c. entro cui deve essere eseguito il rimborso delle partecipazioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso). Trattasi di interpretazione che è imposta dall’esigenza di garantire al socio receduto una ragionevole previsione della definitività degli effetti della sua manifestazione di volontà con la conseguenza che l’effetto conseguente alla dichiarazione di recesso si è ormai stabilizzato così come si è stabilizzato il diritto della ricorrente ad ottenere la liquidazione della quota. In buona sostanza, una volta che il recesso è divenuto efficace (decorso il termine di preavviso di gg. 180 entro cui il socio deve comunicare alla società la propria volontà di recedere), la società dispone di ulteriori gg. 180 (pari al termine entro cui deve procedere al rimborso della partecipazione) per deliberare l’eventuale messa in liquidazione e rendere, così, inefficace il recesso del socio ex art. 2473, comma 5, c.c., risultando, altrimenti, consacrato il diritto del socio alla liquidazione della quota.

Prescrizione dell’azione di risarcimento derivante da illecito civile considerato come reato

In un giudizio riguardante l’azione di responsabilità proposta dal curatore fallimentare nei confronti dall’amministratore unico di srl per il suo volontario aggravamento della situazione patrimoniale, nel caso in cui l’illecito civile sia considerato dalla legge come reato (ma il giudizio penale non sia stato promosso, anche se per mancata presentazione della querela) trova applicazione l’eventuale, più lunga prescrizione prevista per il reato anche all’azione di risarcimento, a condizione che il giudice civile accerti, incidenter tantum, e con gli strumenti probatori e i criteri propri del procedimento civile, la sussistenza di una fattispecie che integri gli estremi di un fatto di reato in tutti i suoi elementi costitutivi, soggettivi ed oggettivi, e la prescrizione stessa decorre dalla data del fatto (cfr. Cass. Civ. sez. unite 27337/08).

 

Nullità del verbale precompilato e abuso di potere del socio di maggioranza

Qualora il verbale di assemblea dia atto dell’intervento dell’attore, delle manifestazioni di voto, delle delibere adottate, dell’avvenuta lettura da parte del Notaio rogante dei presenti e la loro espressa approvazione, questo deve essere considerato conforme alle previsioni ex. art. 2375 c.c. anche qualora il verbale stesso sia stato precompilato (come avviene per prassi comune).

Il fenomeno dell’abuso del potere della maggioranza ricorre quando una delibera assembleare risulti arbitrariamente e fraudolentemente preordinata alla lesione degli interessi dei soci di minoranza: si fa cioè riferimento ai casi in cui il principio di maggioranza, utilizzato in tutte le delibere assembleari societarie, viene impiegato a danno degli interessi della minoranza assembleare, senza tuttavia violare formalmente alcuna disposizione di legge, o di atto costitutivo. In assenza di una disciplina normativa che sanzioni ed inquadri l’abuso di maggioranza, la giurisprudenza ha dapprima ritenuto che si configuri l’abuso ogniqualvolta la delibera sia volta all’esclusiva lesione degli interessi della minoranza, per poi concentrarsi sulla verifica del rispetto del principio di buona fede e correttezza nell’esecuzione del contratto sociale. In questo modo, la maggioranza, ad esempio,  avrebbe l’obbligo di considerare anche le determinazioni dei soci di minoranza perché finalizzate ad un interesse comune, quello sociale appunto (si veda ad es. Tribunale di Roma, 31 marzo 2017, n. 6452).

Finanziamenti effettuati dai soci a favore della società

L’art. 2467 c.c. affronta la questione dei finanziamenti effettuati dai soci a favore della società, che formalmente si presentano come capitale di credito, ma nella sostanza economica costituiscono parte del capitale proprio.

Nel caso in cui i soci, anziché conferire capitale, dispongano un “prestito soci” a favore della s.r.l. (ossia effettuino un semplice finanziamento), il rischio dell’impresa viene trasferito agli altri creditori. Tuttavia, così facendo – ossia evitando il ricorso a versamenti di capitale o, comunque, a fondo perduto – il socio intende, innanzitutto, garantirsi la restituzione di quanto erogato alla società, addossando invece agli altri creditori il rischio di un’eventuale insolvenza della società.

Proprio in considerazione di ciò, l’art. 2467 c.c. stabilisce che il rimborso dei finanziamenti soci a favore della s.r.l. è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori qualora si tratti di finanziamenti concessi in un momento in cui risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.

Il fondamento della postergazione ex art. 2467 c.c. è proprio quello di sanzionare i soci che, erogando il finanziamento, hanno eluso il rischio del conferimento di capitale, determinando, in questo modo, un danno agli altri creditori sociali.

Il rischio collegato all’aumento degli apporti da parte dei soci a titolo di capitale di debito è che la società si venga a trovare in una situazione di sottocapitalizzazione.

La sottocapitalizzazione nominale va tenuta distinta dalla c.d. sottocapitalizzazione materiale: infatti, mentre la prima si caratterizza per l’insufficienza del capitale di rischio e per la copertura del fabbisogno finanziario mediante la assunzione di debiti, nella seconda, invece, la società risulta essere materialmente priva di mezzi adeguati, sia sotto forma di capitale sia sotto forma di somme ottenute a titolo di debito.

È estensibile ad altri tipi di società di capitali il disposto di cui all’art. 2467 c.c.

Azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare

L’azione di responsabilità, esercitata dal curatore ai sensi dell’art. 146, comma 2, l.fall., cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2392-2393 c.c. e dall’art. 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali tant’è che il curatore può, anche separatamente, formulare domande risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti dell’azione sociale, che ha natura contrattuale, quanto con riguardo a quelli della responsabilità verso i creditori, che ha natura extracontrattuale. Ai fini della responsabilità di amministratori e sindaci ex art. 146 l. fall. è necessario che la parte attrice alleghi in maniera puntuale la condotta lesiva, il nesso di causalità e la relativa voce di danno.

Onere della prova nell’ambito del processo civile in tema di responsabilità degli amministratori nei confronti della società

In virtù del disposto dell’art. 2392 c.c. e della natura contrattuale della responsabilità degli amministratori nei confronti della società,  in osservanza degli ordinari canoni probatori che sovraintendono il processo civile, grava sulla società attrice l’onere di dimostrare la sussistenza di due indefettibili condizioni: la violazione dell’obbligo di adempiere con la necessaria diligenza gli obblighi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo a tutela della compagine sociale nonché l’esistenza di un danno causalmente imputabile al comportamento negligente posto in essere dagli amministratori stessi. Più precisamente grava sulla società attrice sia l’onere di provare, giusta l’art. 2697 c.c., la violazione dei doveri e degli obblighi di derivazione pattizia o legale connessi alla assunzione dell’incarico da parte dell’amministratore, sia l’esistenza di precipue voci di danno eziologicamente riconducibili alla inosservanza dei suddetti obblighi e doveri.

Azione di responsabilità esercitata dal curatore fallimentare: violazione degli obblighi gestori e omessa azione di responsabilità del liquidatore

Nel giudizio di responsabilità promosso dal curatore fallimentare contro l’amministratore della società in liquidazione, avente ad oggetto l’esecuzione di lavori presso l’immobile sede dell’attività sociale a spese della società, deve verificarsi quali tra le spese sostenute debbano considerarsi di straordinaria amministrazione e, quindi, a carico del locatore. Solo in relazione a tali spese può infatti dirsi fondato l’addebito all’amministratore per avere omesso di chiederne il rimborso.

Con riferimento al mancato recupero di un credito della società condotta, la difesa dell’amministratore che si limiti a dedurre l’incapacità patrimoniale del debitore e, quindi, l’inutilità dell’eventuale azione di recupero che si sarebbe dovuta intraprendere, non è idonea a provare il corretto adempimento della prestazione a carico dell’amministratore, tenuto conto del fatto che anche una mera messa in mora avrebbe evitato il decorso della prescrizione del diritto di credito.

Quanto all’azione esercitata nei confronti del liquidatore per l’omesso esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore inadempiente ai propri doveri gestori, la circostanza per cui il costo dell’operazione contestata all’amministratore era da considerarsi “nella norma” non esclude che possa essere stato compiuto un atto di amministrazione non conforme alle regole di corretta gestione societaria. Analogamente, priva di rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità del liquidatore convenuto è la circostanza per cui la crisi aziendale possa essere stata determinata da altri fattori, trattandosi anch’esso di un dato che non elide l’atto di mala gestio realizzato dall’amministratore.