5 Febbraio 2018

Diligenza degli amministratori di S.r.l. in caso di diminuzione del capitale sociale oltre il terzo, danno subito dalla società e danno subito in proprio dal socio

Le condizioni di cui all’art. 2482-bis c.c. possono verificarsi, e normalmente si verificano, non al termine dell’esercizio, ma nel corso di esso. Gli amministratori sono perciò obbligati a monitorare la consistenza del patrimonio sociale anche durante l’esercizio, in ragione del livello di diligenza minimo cui sono tenuti. Naturalmente, quando il patrimonio netto sta per raggiungere i minimi di legge (art. 2482-ter c.c.), le regole dell’ordinaria diligenza imporranno agli amministratori di effettuare controlli più frequenti ed accurati. Una volta accertata la sussistenza delle condizioni prescritte, gli amministratori devono senza indugio convocare l’assemblea. L’organo competente alla convocazione è, come di consueto, il consiglio di amministrazione (o l’amministratore unico). Essa va disposta “senza indugio”, dizione questa che deve essere interpretata come convocazione per una data ragionevolmente prossima, tenuto conto delle circostanze del caso concreto [nel caso di specie, il Tribunale ha accertato la responsabilità dell’amministratore unico di una S.r.l., avendo questi convocato l’assemblea quasi sei mesi dopo che il capitale sociale era sceso sotto il limite del terzo].

Una volta che la diminuzione del capitale oltre il terzo sia percepibile agli amministratori, questi devono interrompere la gestione in senso imprenditoriale della società per destinare tale gestione ai soli fini della conservazione dell’integrità e del valore del patrimonio sociale.

Il danno subito dalla società per l’illecita prosecuzione dell’attività d’impresa nonostante la perdita integrale del capitale sociale non deriva dal compimento di uno specifico atto di mala gestio, ma deriva direttamente dalla prosecuzione dell’attività di impresa, nonostante che la situazione patrimoniale, economica e finanziaria dell’azienda, per legge, non lo consenta. Infatti, premesso che una tempestiva interruzione dell’ordinario esercizio dell’impresa arresterebbe il prodursi di nuove perdite, l’aggravamento della perdita, quale fattore che riduce progressivamente il patrimonio sociale e, dunque, le prevedibili percentuali di soddisfo dei creditori, deriva non da singoli atti dannosi, ma direttamente dall’avere proseguito una gestione caratterizzata dall’eccedenza dei costi sui ricavi. Se è vero che l’attività di impresa è attività costituita da un insieme di operazioni, una correlata all’altra, dove ciascuna non è di norma singolarmente sindacabile, mentre lo è il risultato di tutte, nel caso in esame non vengono in rilievo operazioni che siano singolarmente illecite, ma ad essere illecita è il fatto stesso di essere state poste in essere. Come è stato efficacemente affermato, in questi casi, non esistono atti di mala gestio, ma mala gestio tout court, data la continuazione illecita dell’attività di impresa.

Il danno subito dalla società per l’illecita prosecuzione dell’attività d’impresa nonostante la perdita integrale del capitale sociale deve essere calcolato come differenza tra i patrimoni netti individuati nel momento in cui si verifica la causa di scioglimento e nel momento del passaggio alla fase di liquidazione. [fattispecie relativa a fatti verificatisi anteriormente all’introduzione del terzo comma dell’art. 2486 c.c., disposta dall’art. 378, comma 2, D. Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14]

Il danno subito dalla società ed il danno subito dal socio sono danni ontologicamente diversi e il secondo non può essere quantificato in una misura percentuale del primo. Infatti, a volere così ragionare si liquiderebbe, a favore del socio, non già un danno “direttamente” subito, ma un danno riflesso costituito dalla perdita del valore della propria partecipazione alla società per effetto delle condotte di mala gestio che hanno leso (non già quella partecipazione, ma) il patrimonio sociale.

L’azione individuale del socio nei confronti dell’amministratore di una società di capitali non è esperibile quando il danno lamentato costituisca solo il riflesso del pregiudizio al patrimonio sociale, giacché l’art. 2395 c.c. (così come l’art. 2476 c.c.) esige che il singolo socio sia stato danneggiato «direttamente» dagli atti colposi o dolosi dell’amministratore, mentre il diritto alla conservazione del patrimonio sociale appartiene unicamente alla società (cfr. Cass., 23 ottobre 2014, n. 22573; Cass., 11 dicembre 2013, n. 27733; Cass., 25 ottobre 2016, n. 21517; Trib. Torino, 27 marzo 2015).

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Stefano Castoldi

Stefano Castoldi

Avvocato | Corporate Litigation | LL.M. Candidate at Columbia Law School

Avvocato in Milano, attualmente frequentante l'LL.M. presso la Columbia University (New York). Laureato con lode presso l'Università degli Studi di Milano. Si occupa di contenziosi commerciali e societari.(continua)

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