Onerosità dell’attività di amministratore di s.r.l.

La presunzione di onerosità dell’incarico di amministratore di una società stabilita dall’art. 1709 c.c. non esonera l’amministratore che chiede la condanna della società al pagamento del proprio compenso dall’onere di dare prova delle attività concretamente svolte nell’interesse della società.

22 Marzo 2022

Il diritto di controllo del socio di S.r.l. che svolge attività in concorrenza

Il diritto del socio non partecipante all’amministrazione della società ad esercitare il controllo sulla gestione della S.r.l., anche per il tramite dell’accesso ai documenti, non può pregiudicare il diritto della stessa società a mantenere la riservatezza su dati sensibili, che il socio potrebbe utilizzare contro di lei. In termini generali e salvo concretizzare il bilanciamento caso per caso, alla luce del principio di buona fede, quindi, deve ritenersi consentito limitare il diritto alla consultazione della documentazione sociale e alla estrazione di copia attraverso l’accorgimento del mascheramento preventivo dei “dati sensibili” presenti nella documentazione, quali, ad esempio, i dati relativi ai nominativi di clienti e fornitori. Il giudizio di bilanciamento secondo il canone di buona fede deve farsi in concreto: non soltanto perché i “dati sensibili” e di cui è pericolosa la propalazione possono essere diversi caso per caso, ma anche e soprattutto perché la riservatezza non può essere un pretesto per coprire le irregolarità di gestione degli amministratori, né per frustrare le valutazioni del socio prodromiche all’esercizio ex art. 2476 co. 3 di un’eventuale azione di responsabilità o impedire la tutela dei propri diritti. D’altro canto, i suddetti accorgimenti potrebbero non bastare a tutelare la società se il socio esercente il diritto di controllo assomma in sé anche la veste di concorrente. In situazioni di abuso del diritto di controllo ex art. 2476 comma 2, c.c., – cioè allorquando l’iniziativa del socio è svolta secondo forma di legge, ma funzionale a scopi diversi da quelli suoi propri, segnatamente non allo scopo di garantire la posizione del socio, ma per servire la diversa veste di concorrente – è legittima l’exceptio della società, la quale neghi al socio il diritto di trarre copia della documentazione, o la richiesta di far sottoscrivere un previo impegno a non utilizzare le informazioni acquisite per fini concorrenziali.

17 Marzo 2022

Responsabilità dell’amministratore di s.r.l. per il rimborso di un credito postergato

Il pagamento, da parte dell’amministratore, del credito postergato ex art. 2467 c.c. costituisce una violazione dei doveri inerenti alla carica. Nondimeno tale pagamento, risolvendosi in un pagamento di un credito inesigibile, da un lato, non perde il suo effetto estintivo del debito sociale e, dall’altro, finisce per porsi sullo stesso piano di un pagamento preferenziale, al quale del resto è accomunato: dall’essergli annesso un effetto estintivo del debito e dall’essere compiuto con lesione della garanzia di cui i creditori godono sul patrimonio della società debitrice e dunque, infine, della par condicio creditorum. Il danno procurato alla società in una situazione di dissesto già conclamato, che non permette il pagamento neppure in percentuale dei creditori privilegiati, è pari all’intera somma rimborsata.

Gli utili non conseguiti dalla società a causa della condotta dannosa dell’amministratore non costituiscono danno diretto del socio

L’azione di responsabilità contemplata dall’art. 2476 comma 7 (di natura extracontrattuale in quanto applicazione dell’art. 2043 c.c.) presuppone l’esistenza di un danno subito dal singolo socio direttamente, e non come mero riflesso del danno sociale di cui solo la Società direttamente o per via surrogatoria del socio ex art 2476 co 3 c.c. può chiedere il risarcimento all’amministratore. In particolare la mancata percezione di utili costituisce danno diretto del socio solo in ipotesi (i) di utili effettivamente conseguiti dalla società e (ii) di cui si sia deliberata la distribuzione al socio; qualora, invece, si è dedotto che gli utili non sono stati conseguiti dalla società a causa della condotta dannosa dell’amministratore, il danno lamentato dal socio non è un danno diretto.

Azione di responsabilità esercitata dal curatore e criterio della differenza dei netti patrimoniali per la quantificazione del danno

L’azione ex art. 146 l. fall., proponibile nei confronti degli amministratori e dei liquidatori della società fallita, presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Così che una volta esercitata, il curatore soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili. Non si tratta di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore: la norma si limita ad attribuire al curatore la legittimazione (esclusiva) ad esercitare, in forma cumulativa, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali. In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori verso la società ha natura contrattuale, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.

L’amministratore di s.r.l. risponde in presenza (i) della violazione dei suddetti obblighi, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno.

Sebbene il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di s.r.l., quali il grado di diligenza richiesta secondo la natura dell’affare e le loro specifiche competenze e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di s.r.l. venga adottato lo stesso approccio valutativo utilizzato per gli amministratori di s.p.a. (ex artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.).

Il curatore che esercita l’azione di cui all’art. 146, co. 2, l. fall. ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’amministratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo, oppure a quello generale di diligenza, nonché ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso. Deve inoltre dimostrare che la società abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento degli amministratori, spettando, invece, all’amministratore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.

Il curatore che agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali deve provare l’inosservanza, da parte dell’amministratore, degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e che hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.

In forza del principio per cui gli amministratori devono amministrare la società secondo i doveri di diligenza e correttezza, in sede di verifica di tale adempimento, non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell’impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall’assunzione di un rischio. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali di gestione tuttavia non è assoluta. Sotto il profilo della relativa legittimità rileva, infatti, il modo con cui le scelte sono state assunte ed attuate, ossia il percorso decisionale che ha portato a preferire una determinata scelta, rispetto ad un’altra. Se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente — se necessario, con adeguata istruttoria — i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili. Spetta al giudice ripercorrere il procedimento decisionale, onde verificare che la decisione degli amministratori sia stata coerente e congrua rispetto alle informazioni da questi raccolte e valutare l’eventuale violazione del dovere di diligenza in relazione ai normali criteri di liceità, razionalità, congruità e attenzione che dovrebbero ispirare l’operatore economico.

Sotto il profilo della ragionevolezza della scelta e della prevedibilità dei risultati, gli amministratori devono poi ritenersi responsabili nei confronti della società quando le decisioni assunte non siano in alcun modo idonee a realizzare l’interesse della società, in quanto avventate o irrazionali, tali da permettere agli amministratori di prevedere l’erroneità dell’operazione compiuta.

Gli amministratori andranno esenti da responsabilità nel caso in cui provino di aver in buona fede raggiunto una decisione adeguatamente informata, ragionevole e in assenza di un interesse in conflitto con quello della società e di aver seguito le cautele e svolto le verifiche che si imponevano nel singolo caso. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgment rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito delle scelte effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante.

In tema di individuazione e quantificazione del danno, compete a chi agisce dare la prova della sua esistenza, del suo ammontare, degli specifici inadempimenti imputabili all’amministratore e del loro rapporto causalità, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili, rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

L’art. 2486, co. 3, c.c., come modificato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha positivizzato il criterio per la quantificazione del danno c.d. “della differenza dei netti patrimoniali”. Tale criterio è stato utilizzato dalla giurisprudenza di merito soprattutto nelle ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, ed il raffronto viene fatto, in questi casi, tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, ovvero della sentenza dichiarativa di fallimento (se non preceduta dalla fase di liquidazione). Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, anche se anch’esso sconta alcuni automatismi presuntivi che sono propri dell’altro criterio differenziale (differenza tra attivo e passivo fallimentare), in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

Legittimati ad agire con l’azione di simulazione sono i terzi che siano attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla simulazione (artt. 1415, co. 2, e 1416, co. 2, c.c.), non essendo necessario che il pregiudizio sia attuale e che l’inadempimento si sia già verificato, essendo sufficiente la dimostrazione del pericolo di lesione o di insoddisfacimento del credito e della maggiore difficoltà od onerosità dell’adempimento. Infatti, a differenza dell’actio pauliana, che presuppone l’eventus damni, e per gli atti a titolo oneroso il consilium fraudis, per la proponibilità dell’azione di simulazione da parte del creditore è sufficiente che questi abbia un legittimo interesse a vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo del creditore stesso ed indipendentemente dall’epoca in cui è sorto il credito di chi agisce. È terzo creditore legittimato ad agire anche il titolare di un credito illiquido e non esigibile, giacché anche questi ha interesse a prevenire il danno che potrebbe derivargli dall’atto simulato, al momento in cui il credito si rendesse esigibile.

La prova della partecipatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

Quantificazione del trattamento di fine mandato spettante all’amministratore

Qualora lo statuto della società riconosca ai componenti dell’organo amministrativo un trattamento di fine mandato variabile in funzione alle effettive prestazioni svolte, la misura di tale trattamento potrà essere stabilita in sede giudiziale, ove non previamente determinata dalla società, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzione in rapporto al compenso annuo accordato dalla società per la carica.

Azione di responsabilità e conflitto di interessi dell’amministratore nelle s.r.l.

L’azione di responsabilità verso l’amministratore esercitata dal socio di s.r.l. in sostituzione della società ha natura contrattuale, ed è fondata sul rapporto assimilabile al mandato che lega l’amministratore alla società. A fronte dell’allegazione di specifici addebiti relativi all’inadempimento degli obblighi di sana e prudente gestione della società assunti dall’amministratore in forza dell’incarico ricevuto, è onere del convenuto dar prova dell’adempimento ai propri obblighi e della non imputabilità a sé dei fatti dannosi.

L’art. 2475-ter c.c. con riguardo alle s.r.l. prevede il vaglio delle delibere e dei contratti stipulati da un amministratore quando l’altra parte contraente o il soggetto beneficiario della delibera sia lo stesso amministratore, per sé stesso o per conto di terzi. Tale vaglio va attivato mediante l’impugnazione dell’atto che si ritiene adottato in conflitto di interessi, qualora ne sia derivato un danno alla società. Non è prevista, dunque, una generale incompatibilità a rivestire incarichi in più società, per un conflitto solo potenziale, ma l’impugnazione di singoli atti per risolvere un conflitto di interessi, venuto in concreta evidenza.

I caratteri dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall.

L’azione esercitata ai sensi dell’art. 146 l. fall. compendia in sé le ordinarie azioni di responsabilità verso l’organo amministrativo e quello preposto al controllo previste a tutela della società e dei terzi creditori. In particolare, la responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società (o il curatore, nel caso in cui l’azione sia proposta ex art. 146 l.fall.) deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c., con la conseguenza che gli amministratori dotati di deleghe (cc.dd. operativi), ferma l’applicazione della business judgement rule, secondo cui le loro scelte sono insindacabili a meno che, se valutate ex ante, risultino manifestamente avventate ed imprudenti, rispondono non già con la diligenza del mandatario, ma in virtù della diligenza professionale esigibile ex art. 1176, co. 2, c.c. Ha, invece, natura extracontrattuale l’azione volta alla tutela dei creditori sociali, verso i quali gli organi amministrativi e di controllo hanno l’obbligo generale di agire correttamente e secondo buona fede, sì da rispondere dei comportamenti dolosi o colposi che abbiano arrecato ai creditori un pregiudizio suscettibile di ristoro patrimoniale. Tali azioni, peraltro, non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione.

Adeguati assetti amministrativi, organizzativi e contabili e nomina di amministratore giudiziario

Il procedimento di cui all’art. 2409 c.c. appartiene agli istituti di volontaria giurisdizione ed è sottratto al principio della domanda. Pertanto, l’ispezione della amministrazione, sebbene possa focalizzarsi su alcuni aspetti specificamente individuati, costituisce comunque uno strumento ad ampio spettro capace di evidenziare gravi irregolarità precedentemente non emerse. La finalità del procedimento, che è quella di rimuovere le gravi irregolarità al fine di assicurare al sistema delle società una gestione in linea con le aspettative e gli interessi dei soci, dei creditori e più in generale della collettività, presuppone che il Tribunale adotti misure adeguate a fronteggiare qualsiasi ipotesi di grave irregolarità emersa durante l’ispezione, non essendo vincolato in questo caso al principio della domanda.

Deve essere disposta la nomina di un amministratore giudiziario laddove venga riscontrato (anche a seguito di ispezione) che la società sia carente di un adeguato assetto organizzativo e ciò anche in una ipotesi in cui la stessa si trovi in una situazione di equilibrio economico finanziario. Gli adeguati assetti, infatti, sono funzionali proprio ad evitare che la impresa scivoli inconsapevolmente versa una situazione di crisi o di perdita della continuità, consentendo all’organo amministrativo di percepire tempestivamente i segnali che preannunciano la crisi, consentendogli in tal modo di assumere le iniziative opportune.