20 Ottobre 2016

Divieto di domande nuove, impugnativa di delibera per conflitto d’interessi, fondamento della clausola statutaria di prelazione e conseguenze in caso di sua violazione

Ove la domanda formulata nell’atto di citazione sia diversa da quella proposta in sede di precisazione delle conclusioni, riproducendo queste ultime l’oggetto della memoria ex art. 183 co. 6 n. 3, c.p.c., non sussiste carenza di interesse ad agire né inammissibilità per la tardività delle modificazioni effettuate da parte attrice se la domanda medesima si risolve, per un verso, nel reclamare una statuizione che il tribunale potrebbe assumere d’ufficio e, per altro verso, nel sollecitare l’assunzione di comportamenti che, anche in assenza della statuizione del tribunale, il convenuto dovrebbe comunque assumere. In tali casi, pertanto, non operano i limiti decadenziali previsti per l’editio actionis dagli artt. 163, 164, 183 c.p.c., che possono, invece, applicarsi alle richieste contenute nella riserva di impugnazione formulata, in sede di atto di citazione, in calce alla domanda o in relative e ipotetiche affermazioni in atto, poi riproposte in precisazione delle conclusioni, giacché la riserva e l’affermazione non integrano domande (Cass. n. 12310/2015).

Con riferimento alle impugnazioni delle deliberazioni assembleari che deducono vizi di annullabilità, l’interesse ad agire è da ritenere consustanziale alla stessa qualità di socio che sia per legge legittimato all’impugnazione (artt. 2377, co. 8, e 2479-ter, ult. co., c.c.) non essendo necessario che il provvedimento richiesto al giudice arrechi concreta utilità rispetto alla situazione denunziata.

É invalida la delibera di revoca di amministratore di s.r.l. adottata in assenza del quorum deliberativo richiesto dalla legge e dallo statuto sociale, qualora il mancato raggiungimento della percentuale di capitale sia dipeso dal voto negativo dello stesso amministratore revocando in qualità di socio, in quanto non può dirsi sussistente un conflitto di interessi. Infatti: in primo luogo, il legislatore della riforma ha consentito al socio di s.r.l. in conflitto di interessi di votare in assemblea (art. 2479, co. 3, c.c.), ciò evincendosi dalla circostanza che il suo voto è sterilizzato solo se la delibera adottata con il suo voto determinante è potenzialmente dannosa; in secondo luogo, non si può applicare analogicamente l’art. 2373, co. 2, c.c., che vieta ai soci-amministratori di votare nelle delibere concernenti la loro responsabilità per inadempimento gestorio e che comporta l’inclusione del capitale da essi rappresentato nel quorum costitutivo (al numeratore e al denominatore) e non già nel denominatore del quorum deliberativo (art. 2368, co. 3, c.c.).Viceversa se il socio in conflitto di interesse ha diritto di votare, la natura determinante o non determinante del voto andrà valutata operando l’espunzione del voto stesso solo dal numeratore dell’operazione di divisione mediante la quale è effettuato il calcolo del quorum deliberativo, non invece anche dal denominatore.

Non si pone un problema di conflitto di interessi del socio-amministratore se ad esser stata adottata e successivamente impugnata è la delibera di revoca e non invece la delibera negativa di reiezione della proposta di revoca: è, infatti, evidente in questo caso come il voto negativo del socio-amministratore  non sia determinante ai fini della revoca. Il concetto di voto determinante, infatti, non può riferirsi alla delibera (negativa) che sarebbe stata adottata se il voto del socio-amministratore fosse stato computato solo al numeratore dell’operazione di calcolo del quorum, potendo esclusivamente riguardare la delibera effettivamente proclamata ed adottata dalla società.

L’accoglimento della domanda di annullamento per conflitto di interessi di una delibera di rigetto di una proposta di revoca di amministratori presuppone la dimostrazione del danno che la permanenza in carica dell’amministratore avrebbe potuto provocare alla società.

È infondata l’eccezione che fa leva sull’acquiescenza del socio amministratore rispetto alla delibera nel caso in cui quest’ultimo in qualità di presidente abbia proclamato il risultato deliberativo. Non è, infatti, corretto sovrapporre la posizione giuridica del socio con quella del presidente dell’assemblea, quand’anche le due posizioni siano in concreto rivestite dalla stessa persona, giacché il secondo, a differenza del primo, è un organo sociale.

In materia di clausole di prelazione e in assenza di apposita previsione statutaria, è invalida la denuntiatio con cui si propone ai soci oblati l’offerta ad acquistare in blocco le partecipazioni sociali della società cui la prelazione si riferisce unitamente alle partecipazioni sociali di altra società, poiché la clausola è rivolta a tutelare l’omogeneità della compagine societaria della società e non di altro ente. In caso contrario, infatti, non solo sarebbe eccessivamente gravoso l’esercizio del diritto di prelazione da parte degli oblati, ma soprattutto si potrebbe consentire al socio offerente o di eludere l’altrui esercizio del diritto di prelazione inserendo condizioni non gradite ai soci oblati o di coartarne volontà – al di fuori di ogni preventivo accordo statutario – costringendoli, per raggiungere lo scopo di acquistare le quote sociali, all’acquisto anche di altri beni ai quali, semplicemente, ben possono non essere interessati. Un’interpretazione non rigorosa della lettera della clausola statutaria, dunque, finirebbe per far inerire surrettiziamente alla quota diritti dell’offerente e obblighi degli oblati non previsti dallo statuto e privi, in realtà, di qualsiasi fondamento.

L’atto di vendita di partecipazioni societarie in violazione del diritto di prelazione statutariamente previsto – trattandosi di inadempimento ad una norma contrattuale e non di violazione di legge – non comporta l’annullabilità né, tantomeno, la nullità dell’atto, ma solo la sua inefficacia nei confronti della società e degli altri soci, con conseguente inopponibilità dell’acquisto nei confronti dei medesimi e, dunque, incapacità dell’acquisto stesso di fungere da titolo per l’esercizio di alcun diritto sociale (Cass. n. 24559/2015).

Allo stato del sistema delle impugnazioni delle delibere societarie, non è possibile configurare un automatico effetto a cascata (o a catena) dell’inefficacia degli acquisti societari in violazione del diritto di prelazione sulle delibere approvate con il voto del socio titolare delle quote inefficacemente acquistate. Tale causa d’invalidità delle delibere assembleari, infatti, è sussumibile nella categoria (non delle violazioni di legge ma) delle violazioni statutarie e pacificamente qualificabile in termini di vizio di annullabilità della deliberazione (art. 2479-ter, co. 1, c.c.). Ne consegue che, per esser fatto valere il vizio ed ottenere l’annullamento della deliberazione, quest’ultima deve essere impugnata, a pena di decadenza, entro novanta giorni dalla trascrizione nel libro delle decisioni dei soci; in mancanza di impugnazione nelle forme previste dalla legge (artt. 2479-ter, ult. co., e 2378 c.c.), la delibera rimane valida ed efficace. Quanto affermato vale anche in relazione a una delibera di aumento di capitale offerto in opzione ai soci, tra cui l’acquirente in violazione della clausola di prelazione, anche se con una precisazione: gli amministratori che eseguono la delibera di aumento del capitale sono vincolati alla legge ed allo statuto, sicché, in particolare, devono offrire le quote ai soci in proporzione alle percentuali di capitale di cui sono legittimamente titolari. Pertanto, se un acquisto è inefficace nei confronti della società e degli altri soci, esso non può essere considerato – a pena di inefficacia della sottoscrizione – nel computo della percentuale del capitale che dà diritto a ricevere l’offerta di acquisto e perciò, per quella parte, l’offerta non va indirizzata all’acquirente, ma a chi ha ceduto inefficacemente le quote sociali, ammettendosi in ogni caso la possibilità per l’acquirente medesimo di sottoscrivere l’aumento di capitale per la parte inoptata o per la parte a lui spettante in virtù della quota di capitale di cui era originariamente (ossia prima dell’acquisto della quota di capitale in violazione della prelazione) titolare.

La cessione di quote di società di capitali si differenzia dalla normale vendita di cosa mobile proprio perché il bene ceduto si colloca all’interno dell’esecuzione di un contratto associativo ed il suo oggetto è costituito da una frazione di un’attività economica esercitata in comune tra i soci. Ciò significa, per un verso, che l’inefficacia della cessione verso la società e gli altri soci comporta che il bene oggetto della cessione è completamente svuotato di ogni contenuto giuridico ed economico e, per altro verso, che, per effetto della cancellazione della cessione dal registro delle imprese, sarebbe il cedente a tornare ad esercitare i diritti sociali, mentre il “proprietario” della partecipazione svuotata di contenuto rimane il cessionario. Alla luce di quanto affermato si può ragionevolmente ritenere che la cessione di quote in violazione dell’altrui diritto di prelazione, quando la violazione è nota a cedente e cessionario, debba essere ritenuta implicitamente sottoposta alla condizione risolutiva dell’esercizio (fruttuoso) dell’azione per declaratoria di inefficacia della cessione stessa (o dell’esercizio fruttuoso di un’eccezione stragiudiziale di inefficacia che sia accolta dalla società, che, quindi, provveda a far cancellare la cessione dal registro delle imprese).

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gabriele.scaglia

gabriele.scaglia

Notaio con sede in Triuggio (MB) e operante in tutta la Lombardia. Dottore di ricerca presso la Scuola di Dottorato "Impresa, lavoro e Istituzioni" dell'Università Cattolica di Milano (curriculum diritto...(continua)

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