3 Novembre 2017

Azione di responsabilità contro amministratori e sindaci promossa da una procedura concorsuale: questioni preliminari e di merito

Il giudizio di accertamento di una condotta gestoria non corretta da parte degli amministratori di una società e di una violazione dei doveri di controllo spettanti ai sindaci non dà luogo ad una fattispecie di vero e proprio litisconsorzio necessario sostanziale, ma sussiste un rapporto di “dipendenza” di cause qualora l’azione nei confronti dei sindaci sia stata effettivamente proposta in primo grado unitamente all’azione nei confronti degli amministratori, dovendosi in quest’ultimo caso riconoscere un vincolo di litisconsorzio necessario di carattere propriamente ed esclusivamente “processuale” ex art. 331 e 334 c.p.c. sull’espresso e specifico presupposto della già intervenuta pronuncia di una unitaria sentenza di primo grado che quel vincolo di interdipendenza abbia già riconosciuto.

La responsabilità dei sindaci di una società, prevista dall’art. 2407, co.2, c.c., per omessa vigilanza sull’operato degli amministratori, ha carattere solidale tanto nei rapporti con questi ultimi, quanto in quelli fra i primi, sicché l’azione rivolta a farla valere non va proposta necessariamente contro tutti i sindaci e gli amministratori, ma può essere intrapresa contro uno solo o alcuni di essi, senza che insorga l’esigenza di integrare il contraddittorio nei confronti degli altri, in considerazione dell’autonomia e scindibilità dei rapporti con ciascuno dei coobbligati in solido. (Cass. 25178/2015).

Le azioni ex art. 2393 e 2394 c.c. per quanto unitariamente esercitate non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo tra loro distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, differenti essendo la distribuzione dell’onere della prova, i criteri di determinazione dei danni risarcibili ed il regime di decorrenza del termine di prescrizione.

In relazione all’azione dei creditori (di natura extracontrattuale) esercitata dalla procedura ex art. 2394 c.c. i termini di prescrizione cominciano a decorrere solo sul presupposto che “il patrimonio sociale risulta insufficiente” al soddisfacimento dei crediti vantati, secondo stringata proposizione che fa riferimento a due distinti presupposti che devono necessariamente concorrere:  non solo il concreto verificarsi della situazione di insufficienza, ma anche la piena ed effettiva riconoscibilità di un tale evento da parte della generalità dei terzi secondo ordinaria diligenza. Diversamente, in relazione all’azione sociale ex art. 2393 c.c. (di natura invece certamente contrattuale) va rimarcato che in tema di risarcimento del danno contrattuale, al fine di determinare il “dies a quo” di decorrenza della prescrizione occorre verificare il momento in cui si sia prodotto, nella sfera patrimoniale del creditore, il pregiudizio causato dal colpevole inadempimento del debitore, mentre non assume rilievo la circostanza che il creditore non abbia avuto conoscenza del fatto lesivo, atteso che si tratterebbe di un impedimento di mero fatto, che non incide sulla possibilità giuridica di esercitare il diritto al risarcimento del danno e, quindi non esclude il decorso del termine di prescrizione(Cass. 7609/2015).

Nell’ambito dell’azione sociale di responsabilità la procedura concorsuale non agisce affatto in qualità di “terzo” ma piuttosto nell’esercizio di un’azione già spettante alla medesima società quale creditrice dell’adempimento dovuto dalle persone fisiche investite di funzioni di amministrazione e controllo sulla gestione e tale peculiare “creditore” non può evidentemente invocare in giudizio l’ignoranza delle proprie scritture contabili e dunque di eventuali inadempimenti agli obblighi gestori conseguenti alla reale situazione in cui versava, laddove l’esigenza di tutela che a questo punto emerge in ragione della posizione rivestita dai soggetti incaricati della gestione dell’ente trova distinta risposta nella specifica disciplina della sospensione dei termini ex art. 2941 n. 7 c.c.. Una deroga a tale principio si ravvisa nella peculiare ipotesi di sospensione dei termini ex art. 2941 n. 8 c.c. che tuttavia presuppone l’accertamento di una condotta  propriamente “dolosa” in capo a ciascuno dei debitori nei cui confronti si voglia far valere la previsione in parola.

La data di effettiva cessazione dell’amministratore dall’incarico non decorre necessariamente dalla data di iscrizione di detta cessazione presso il Registro delle Imprese, in quanto la previsione dell’art. 2193 c.c. (di carattere non costitutivo) è dettata unicamente nei confronti di “chi è obbligato a richiedere l’iscrizione”, nella specie indiscutibilmente i “nuovi” organi sociali, laddove gli amministratori sostituiti avrebbero al più potuto rivendicare un diritto e non invece un obbligo di chiedere l’iscrizione.

Nell’ambito di azioni di responsabilità promosse da una procedura concorsuale, laddove l’attore pretendesse di individuare il petitum risarcitorio con riferimento agli esiti della procedura fallimentare allora dovrebbe necessariamente farsi carico di una piena ostensione di tutta quanta l’attività svolta e degli elementi di conoscenza su cui ha fondato tale azione, nell’esigenza di comprovare il dato essenziale di una stretta ed immediata conseguenzialità tra i risultati finali della procedura e lo stato dei conti “ereditato” da una gestione assertivamente non corretta, in ragione del dovuto rispetto del principio di causalità che regge nell’attuale ordinamento la disciplina della responsabilità risarcitoria secondo il duplice profilo della responsabilità dell’evento e commisurazione del risarcimento ai danni che risultino “conseguenza immediata e diretta” della condotta lesiva.

Un corretto utilizzo del principio equitativo della differenza dei netti patrimoniali presuppone l’assunzione di dati di riferimento omogenei e in tal senso deve certamente escludersi la possibilità di arrivare alla determinazione del danno risarcibile confrontando una stima formulata secondo principi di continuità aziendale, per quanto attiene il termine iniziale di computo, con una diversa stima elaborata secondo criteri di stima fallimentare e dunque secondo dati costitutivamente condizionati dall’attività degli organi fallimentari.

L’allegazione di omessa assunzione di una formale delibera di messa in liquidazione della società appare già in astratto inidonea, di per sé sola, a sorreggere una pretesa risarcitoria commisurata a “perdite” successivamente maturate in capo alla società, che invece presuppone il positivo accertamento di una condotta di gestione non meramente “conservativa”.

Riguardo al rapporto “esterno” con il CTU, la prestazione del consulente tecnico d’ufficio è effettuata in funzione di un interesse comune delle parti del giudizio, le quali sono solidalmente responsabili del pagamento delle relative competenze, anche dopo che la controversia nella quale il consulente ha prestato la sua opera sia stata decisa con sentenza passata in giudicato, indipendentemente dalla ripartizione in essa operata dell’onere delle spese processuali, giacché il principio di soccombenza attiene soltanto al rapporto tra le parti e non opera nei confronti dell’ausiliare. Per quanto attiene, invece, ai rapporti “interni” tra le parti in giudizio, la distribuzione delle spese del CTU deve avvenire sulla base del principio della soccombenza, dovendosi in particolare reputare che viola l’art. 91 c.p.c. la disposizione del giudice che pone parzialmente a carico della parte totalmente vittoriosa il compenso liquidato a favore del CTU perché neppure in parte essa deve sopportare le spese di causa (Cass. 25179/2013).

E’ inammissibile la produzione, per la prima volta da parte dell’attore, con memoria conclusionale della sentenza penale di condanna pronunciata in primo e secondo grado, con successiva dichiarazione di inammissibilità del ricorso in Cassazione, nei confronti degli originari convenuti per cui è successivamente intervenuto il trasferimento dell’azione civile in sede penale, atteso che si tratta di produzioni: a) espressamente effettuate a fini di prova e/o valutazione della prova; b) attraverso mera allegazione alla memoria conclusionale, senza alcuna formale domanda di rimessione in termini; c) relative a documenti a disposizione della parte fin dalla data del deposito delle relative motivazioni, data successiva al maturare dei termini ex art. 183 c.p.c. ma ampiamente precedente all’udienza di PC – richiamando al riguardo l’insegnamento della S.C. secondo cui la proposizione di istanza di rimessione in termini “presuppone la tempestività dell’iniziativa della parte, da intendersi come immediatezza della reazione al palesarsi della necessità di svolgere un’attività processuale ormai preclusa” (Cass. 19290/16).

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Daniela Russo

Daniela Russo

Avvocato del Foro di Milano

Laurea in giurisprudenza a pieni voti presso l'Università degli Studi di Parma e abilitazione all'esercizio della professione forense presso la Corte d'Appello di Milano. Tirocinio formativo presso la Sezione...(continua)

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