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Art. 74 c.p.p.
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Azione di risarcimento danni e costituzione di parte civile per danno non patrimoniale in sede penale

Ai fini dell’individuazione della competenza territoriale ex art. 18 c.p.c. (c.d. forum rei) occorre prendere in considerazione il comune di residenza del convenuto al momento della proposizione della domanda, a nulla rilevando – anche ai sensi dell’art. 5 c.p.c. – il fatto che, al momento del compimento delle condotte illecite, il convenuto fosse residente presso un differente comune.

Laddove l’attore agisca di fronte al giudice civile per domandare il risarcimento di tutti i danni cagionati dalle condotte del convenuto e, successivamente, mediante l’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale iniziato nei confronti dello stesso convenuto sulla base delle medesime condotte, domandi il solo risarcimento del danno non patrimoniale, trova ugualmente applicazione l’art. 75, co. 1, c.p.p. secondo il quale tale scelta della parte attrice comporta la rinuncia agli atti del giudizio civile e il trasferimento della relativa azione di fronte al giudice penale. Infatti, non è consentito alla parte del processo civile trasferire nel processo penale solo una parte dell’originario petitum. In caso contrario, l’accertamento giudiziale di una situazione giuridica controversa sarebbe frammentato in due diverse sedi giurisdizionali. Tuttavia, resta possibile per l’attore differenziare ab origine le proprie azioni ed agire per talune domande in sede civile e per altre in sede penale, a condizione che prima dell’avvio dell’azione civile l’attore limiti le proprie pretese ad alcuni profili risarcitori e si riservi espressamente di agire in altra sede per il soddisfacimento delle ulteriori ragioni di credito temporaneamente accantonate [Nel caso di specie, la persona fisica aveva agito in giudizio per ottenere il ristoro del pregiudizio causato al suo nome, al suo onore, alla sua reputazione e alla sua immagine in ragione di una serie di condotte “persecutorie” poste in essere dal convenuto. Del pari, la società aveva agito per ottenere il risarcimento del danno all’immagine cagionatole da tali condotte oltre che l’accertamento e la sanzione delle condotte di contraffazione di marchio e di concorrenza sleale attuate dal convenuto. Successivamente, sia la persona fisica che la società si erano costituite quali parti civili nel giudizio penale instaurato nei confronti del convenuto/imputato per condotte persecutorie (art. 612 bis c.p.) e per diffamazione (art. 595 c.p.) domandando il solo risarcimento dei danni non patrimoniali. Tuttavia, in considerazione dei principi sopra esposti, il Tribunale ha dichiarato estinte tutte le pretese svolte dalla persona fisica, nonché quelle della società correlate al risarcimento del pregiudizio all’immagine. Al contrario, il giudice civile si è pronunciato sulle condotte di contraffazione e di concorrenza sleale, in quanto non assorbite all’interno delle fattispecie oggetto dei capi d’imputazione del giudizio penale]

Il marchio rinomato, ossia quello conosciuto da una parte significativa del pubblico interessato ai prodotti o servizi da esso contraddistinti, acquisisce un valore economico in sé che prescinde dalla funzione distintiva del segno ed è espressamente tutelato dall’art. 20, lett. c), c.p.i. Infatti, tale marchio oltre a svolgere la propria funzione distintiva può svolgere anche funzioni di garanzia e pubblicitarie, trasmettendo così al consumatore un messaggio o un’immagine che sono incorporati nel segno ed entrano a far parte del suo carattere distintivo e della sua notorietà. Tale valore aggiunto trova tutela ai sensi della disposizione sopra richiamata laddove sia oggetto di un indebito vantaggio o di un ingiusto pregiudizio, un situazione che può verificarsi laddove l’uso del segno ne svaluti l’immagine o il prestigio acquisito presso il pubblico a causa di una sua riproduzione in un contesto osceno, degradante, inappropriato ovvero semplicemente incompatibile con l’immagine che il marchio ha acquisito (c.d. offuscamento o “dilution by tarnishing”). Pertanto, l’illecito ex art. 20, lett. c), c.p.i. si manifesta anche a fronte di una continuativa, immotivata e persistente attività di svilimento del carattere distintivo ed attrattivo del marchio, e ciò anche laddove tale uso consenta all’autore della violazione di trarre altresì per la propria attività un indebito vantaggio. [Nel caso di specie, il convenuto aveva reiteratamente pubblicato dei “post” e delle comunicazioni “social” nei quali esprimeva giudizi ed allusioni screditanti e denigratorie nei confronti del marchio della società attrice, promuovendo al contempo la propria attività di stilista ed esaltando la qualità la creatività e l’originalità dei propri prodotti in contrapposizione con quelli dell’attrice].

Se ai fini della contraffazione di marchio è irrilevante la qualità di imprenditore del contraffattore, presupposto indefettibile della concorrenza sleale è la sussistenza del rapporto di concorrenzialità tra due o più imprenditori. Tale rapporto deve essere valutato anche in una prospettiva potenziale, prendendo in considerazione la valutazione della naturale dinamicità dell’attività che configuri quale esito fisiologico e prevedibile l’offerta di prodotti affini e succedanei rispetto a quelli offerti dal soggetto che lamenta la concorrenza sleale.

Costituisce un’ipotesi di concorrenza sleale ai sensi dei nn. 2 e 3 dell’art. 2598 c.c. l’autopromozione dei propri segni distintivi e dei propri prodotti in contrapposizione sfavorevole con l’attività imprenditoriale del concorrente, specie ove tale condotta si caratterizzi inter alia con la diffusione indiscriminata ed illimitata sul web di contenuti di carattere denigratorio, gratuitamente offensivi e finanche persecutori.

Costituisce un’ipotesi rilevante sia sotto il profilo anticoncorrenziale che dal punto di vista della violazione dei diritti di marchio l’utilizzo di un hashtag tale da suscitare la curiosità degli utenti del web e che comprende una locuzione sovrapponibile al segno distintivo di titolarità dell’attrice per contraddistinguere post contenenti informazioni screditanti nei confronti di quest’ultima [Nel caso di specie il convenuto aveva utilizzato l’hashtag #quellochenonsaisuelisabettafranchi per contraddistinguere i propri post screditanti nei confronti della società attrice e della sua amministratrice, riproducendo in maniera non autorizzata la locuzione “elisabettafranchi”, sovrapponibile al segno distintivo azionato dall’attrice].