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Annamasi

Annamasi

Dottoranda di ricerca in diritto commerciale e dell'economia, presso l'Università di Roma "La Sapienza"

23 Maggio 2023

Estinzione della s.r.l. e responsabilità di soci e liquidatori nei confronti dei creditori insoddisfatti

Ferma restando l’estinzione immediata della società indipendentemente dall’esistenza di crediti insoddisfatti o di rapporti non ancora definiti ad essa facenti capo ex art. 2495, co. 1, c.c., eventuali passività lamentate dai creditori non possono che farsi valere nei confronti di soli due soggetti: i soci, fino alla concorrenza delle somme riscosse nel bilancio finale di liquidazione, e i liquidatori, se il mancato pagamento è dipeso da colpa (o dolo) di questi. In particolare, la responsabilità dei primi va commisurata alle caratteristiche dell’organizzazione societaria estinta e, per il caso delle s.r.l., così come durante la vita del soggetto sociale il patrimonio è stato posto come limitazione della responsabilità per le obbligazioni sociali verso terzi (art. 2462, co. 1, c.c.), estinta la società allora i soci potranno rispondere verso i creditori insoddisfatti nei limiti di quanto da ciascuno ricevuto in base al bilancio finale di liquidazione (e con la distribuzione di acconti di liquidazione), costituendo tali somme nient’altro che il patrimonio residuo della medesima società. Laddove la società venga cancellata senza distribuzione di attivo la limitazione di responsabilità degli (ex) soci non è idonea a creare di per sé pregiudizio ai creditori poiché esito finale dell’evidente incapienza del patrimonio sociale rispetto ai crediti da soddisfare.

Quanto alla domanda proponibile nei confronti del liquidatore ex art. 2495, co. 3, c.c., soggetto potenzialmente illimitatamente responsabile, trattandosi di azione aquiliana, grava sul creditore rimasto insoddisfatto l’onere di dedurre ed allegare che la fase di pagamento dei debiti sociali non si sia svolta nel rispetto del principio della par condicio creditorum. In particolare, quanto alla dimostrazione della lesione patita, il medesimo creditore è tenuto a dedurre il mancato soddisfacimento di un diritto di credito, provato come esistente, liquido ed esigibile al tempo dell’apertura della fase di liquidazione, e il conseguente danno determinato dall’inadempimento del liquidatore alle sue obbligazioni, astrattamente idoneo a provocarne la lesione, con riferimento alla natura del credito e al suo grado di priorità rispetto ad altri andati soddisfatti. La responsabilità di cui agli artt. 2394 e 2476, co. 6, c.c. ha natura extracontrattuale ed è determinata dalla condotta dell’amministratore funzionale a una riduzione del patrimonio sociale, tale da cagionarne la perdita della tipica funzione di garanzia generica ex art. 2740 c.c., con conseguente diritto dei creditori sociali ad ottenere, quale risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere. L’azione esperibile, in presenza di tali presupposti, è altresì da considerarsi diretta ed autonoma rispetto quella parimenti proponibile dalla società stessa – anche per motivi di ratio sistematica, vista l’espressa previsione del successivo periodo del medesimo comma che la rinuncia all’azione da parte della società, non impedisce l’esercizio dell’azione da parte dei creditori sociali – e soggetta al termine quinquennale di prescrizione, decorrente non già dalla commissione dei fatti integrativi le responsabilità summenzionata, bensì dal momento, evidentemente successivo, della manifestazione dell’evento dannoso, ossia dall’oggettiva percepibilità da parte dei creditori dell’insufficienza del patrimonio sociale a soddisfare le proprie ragioni, rispetto alla quale assume sicura rilevanza il bilancio di esercizio, vista la sua leggibilità anche per operatori non particolarmente qualificati. [ Continua ]
26 Maggio 2023

Legittimazione attiva all’impugnativa di delibere assembleari in caso di comproprietà del pacchetto azionario e nullità delle delibere di approvazione del bilancio di esercizio

La nomina necessaria del rappresentante comune priva i singoli comproprietari della quota dell’esercizio dei propri diritti, in quanto il loro interesse cede rispetto a quello della società di avere un unico interlocutore così da evitare che la situazione di comproprietà si trasformi in un ostacolo all’attività societaria. La legittimazione sostanziale del rappresentante comune priva i comproprietari della quota, ancorché agiscano di concerto, del potere di impugnativa, quale riflesso dell’esercizio dei diritti sociali; invero, l’art. 2347, co. 1, c.c., nel conferire alla partecipazione azionaria il carattere della indivisibilità, ha considerato indispensabile, in relazione alle esigenze peculiari della organizzazione societaria e alla natura del bene in comunione, la unitarietà dell’esercizio dei diritti, impedendone, quanto meno nei rapporti esterni, il godimento e l’amministrazione in forma individuale; e ciò al fine, da un lato, di evitare che contrasti interni si riflettano sulle attività assembleari e, dall’altro, di garantire certezza e stabilità alle deliberazioni assunte, correttamente approvate con la conseguenza che se l’intervento in assemblea e il diritto di voto in via esclusiva competono al rappresentante comune, la impugnazione prevista dagli artt. 2377 e 2379 c.c., non può che essere a lui attribuita. Anche nell’ipotesi in cui l’impugnazione sia esercitata unitariamente da tutti i comproprietari del titolo azionato il diritto processuale di impugnativa è riservato al rappresentante comune, dovendosi ritenere che il legislatore abbia valutato a priori – attraverso la previsione della nomina obbligatoria di un rappresentante comune senza eccezione – che non sia opportuna la verifica nei singoli casi dell’eventuale comunione di intenti dei comproprietari, essendo prevalente l’interesse a che la società, a fronte della comunione, a qualsiasi titolo, della quota di partecipazione azionaria, debba confrontarsi con un unico centro di interessi costituito, appunto, dal rappresentante comune. Rientrano nel novero delle delibere nulle, in quanto aventi un oggetto illecito ex art. 2379 c.c., le delibere con cui risulta approvato un bilancio non conforme ai principi di cui all’art. 2423 c.c., ovvero in violazione di tutte le altre norme dettate in materia di bilancio, sicchè l’impugnativa può essere promossa da chiunque vi abbia interesse. Trattasi, infatti, di norme imperative inderogabili, poste a tutela di interessi generali che trascendono i limiti della compagine sociale e riguardano anche i terzi, destinatari delle informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società, i quali possono agire in giudizio previa allegazione di un’incidenza negativa nella loro sfera giuridica delle irregolarità denunciate riguardo al risultato economico della gestione sociale. Il pregiudizio lamentato derivante dalla decisione impugnata, che l’attore ha l’onere di dimostrare in giudizio quale presupposto del suo interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. e che deve sussistere non solo al momento della proposizione della domanda, ma anche al momento della decisione, non deve essere necessariamente di carattere economico – ipotesi che si verifica ad esempio nel caso di perdita di valore o redditività della partecipazione, laddove l’attore agisce in qualità di socio –, potendo anche consistere nella lesione del diritto a ricevere dal bilancio un’informazione corretta in merito alla consistenza patrimoniale della società ed alla sua efficienza economica. Nel caso dell’azione volta a far dichiarare la nullità di una deliberazione assembleare approvativa del bilancio di esercizio di una società, l’attore, che assuma di aver subito un pregiudizio a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più poste contenute in bilancio, ha l’onere di enunciare quali siano esattamente le poste iscritte in violazione dei principi legali vigenti e il giudice dovrà valutare se quanto prospettato configuri o meno il pregiudizio al diritto di informazione di cui il socio è portatore; l’esame delle singole poste e la verifica della loro conformità ai precetti legali è, tuttavia, compito logicamente successivo, che attiene al giudizio di fondatezza della domanda, ma non al requisito dell’interesse ad agire. La mancata indicazione dell’identità dei partecipanti all’assemblea nel verbale della stessa determina la sola annullabilità della delibera; ciò in quanto con riferimento alla verbalizzazione della delibera assembleare l’art. 2379, co. 3, c.c. sanziona con la nullità esclusivamente l’ipotesi di verbale mancante, che si realizza quando esso è omesso o è carente in uno dei requisiti specificatamente previsti dalla norma, in cui non rientra la mancata indicazione dei partecipanti. [ Continua ]
24 Aprile 2023

Sul compenso dell’amministratore di società per azioni

L’amministratore di una società, con l’accettazione della carica, acquisisce il diritto ad essere compensato per l’attività svolta in esecuzione dell’incarico, sicché l’attività professionale dallo stesso prestata deve presumersi come svolta a titolo oneroso, in applicazione dei principi previsti in materia di mandato ex art. 1709 c.c., essendo quindi onere della società quello di superare la presunzione di onerosità del compenso. Resta, infatti, salva la possibilità che lo statuto preveda la gratuità dell’incarico ovvero che l’amministratore stesso vi rinunci. La rinuncia può essere anche tacita e desumersi da comportamenti concludenti, purché si tratti di comportamenti univoci che conferiscano un preciso significato negoziale al contegno tenuto e che quindi rivelino in modo inequivocabile la volontà dismissiva del relativo diritto, non essendo sufficiente, a desumere la rinuncia al compenso, la mera inerzia o il silenzio dell’amministratore. Ai sensi dell’art. 2389 c.c., previsto in materia di s.p.a. ma applicabile alle s.r.l., i compensi spettanti agli amministratori sono stabiliti dallo statuto o dall’assemblea. Rimangono quindi prive di effetti altre eventuali forme di determinazione diverse da quelle previste dall’art. 2389 c.c., tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge. In mancanza di determinazione statutaria o assembleare del compenso, l’amministratore può ricorrere all’autorità giudiziaria affinché ne stabilisca l’ammontare, anche in via equitativa, purché l’amministratore alleghi e provi la qualità e quantità delle prestazioni concretamente svolte e offra elementi tali da consentire al giudice di operare un’equa determinazione, non essendo sufficiente, ad esempio, la mera indicazione del compenso pattuito in esercizi sociali di anni diversi. Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali, ai sensi dell’art. 2389, co. 1, c.c., (nel testo vigente prima delle modifiche, non decisive sul punto, di cui al d.lgs. n. 6 del 2003), la delibera assembleare determinativa del compenso, in assenza di previsione statutaria,  deve esser esplicita e non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630, co. 2, c.c., abrogato dall’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002); la distinta previsione della delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364, nn. 1 e 3, c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393, co. 2, c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori. [ Continua ]