Determinazione del compenso degli amministratori di società di capitali
In base al combinato disposto degli artt. 2364, co. 1, n. 3, e 2389, co. 1, c.c., la determinazione del compenso degli amministratori di società per azioni è rimessa in primo luogo all’atto costitutivo e, solo ove esso non provveda, all’assemblea ordinaria. Resta di conseguenza escluso che l’assemblea possa accordare agli amministratori un compenso ulteriore rispetto a quello già previsto dallo statuto, senza una apposita modifica di questo.
La disciplina dettata in materia di compenso degli amministratori nella s.p.a. è applicabile anche alla s.r.l.
Obbligo di consegna della documentazione sociale da parte dell’amministratore cessato dall’incarico
La domanda avanzata con ricorso ex art. 700 c.p.c. dalla società nei confronti dell’ex amministratore di consegna dei libri sociali e contabili, nonché di ogni altro documento contabile o fiscale, non deve essere formulata in modo generico ed esplorativo, essendo onere del ricorrente specificare dettagliatamente la documentazione richiesta e non consegnata.
Presupposti per l’azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di fatto di s.r.l.
L’azione di responsabilità promossa nei confronti di più amministratori o sindaci non costituisce un caso di litisconsorzio necessario tra i convenuti, trattandosi di una pluralità di rapporti distinti, anche se collegati tra loro, e che consentono, pertanto, di agire separatamente nei confronti di ciascuno di essi.
Ai fini dell’individuazione della figura dell’amministratore di fatto della società non è necessario che l’attività posta in essere dal soggetto che si è ingerito nella gestione sociale in assenza di qualsivoglia investitura sia caratterizzata da completezza e, cioè, che sia svolta in tutti gli abiti tipici della funzione gestoria e attraverso atti conformativi dell’operato della società aventi valenza esterna. L’amministratore di fatto, esercitando dei poteri analoghi se non addirittura superiori a quelli spettanti agli amministratori di diritto, può concorrere con questi ultimi a cagionare un danno alla società attraverso il compimento o l’omissione di atti di gestione.
L’azione di responsabilità del curatore per gli illeciti gestori degli amministratori estesa anche agli amministratori di fatto
Nonostante i doveri degli amministratori non trovino una enumerazione precisa e ordinata nella legge, possono condensarsi nel più generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio, che impone loro sia di astenersi dal compiere qualsiasi operazione che possa rivelarsi svantaggiosa per la società e lesiva degli interessi dei soci e dei creditori, in quanto rivolta a vantaggio di terzi o di qualcuno dei creditori a scapito di altri, in violazione del principio della par condicio creditorum, sia di contrastare qualsiasi attività che si riveli dannosa per la società, così da adeguare la gestione sociale ai canoni della corretta amministrazione. Nel novero delle operazioni dannose meritano senz’altro di essere comprese le distrazioni del patrimonio sociale, intendendosi per tali tutte quelle azioni, in qualsiasi modo realizzate, che non perseguono altro fine se non quello di sottrarre beni e risorse finanziarie alla società, destinandoli al soddisfacimento di interessi ad essa estranei e, anzi, contrari al suo scopo.
Nell’azione di responsabilità ex art. 146 l.fall. intentata dal curatore nei confronti degli ex amministratori di una società fallita viene esercitata cumulativamente sia l’azione sociale di responsabilità nei confronti degli amministratori ai sensi dell’art. 2393 c.c. (o 2476 c.c. per le s.r.l.), sia l’azione che, ai sensi del successivo art. 2394 c.c., sarebbe spettata ai creditori sociali danneggiati dall’incapienza del patrimonio della società debitrice (2476, sesto comma, c.c. per le s.r.l.). L’azione sociale di responsabilità ha pacificamente natura contrattuale e dunque, quanto al riparto dell’onere della prova, il creditore che agisce in giudizio, sia per l’adempimento del contratto sia per la risoluzione ed il risarcimento del danno, deve fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi ad allegare l’inadempimento della controparte, su cui incombe l’onere della dimostrazione del fatto estintivo costituito dall’inadempimento.
Il mancato deposito delle scritture contabili, il mancato deposito del bilancio annuale di esercizio e la dispersione dell’attivo indicato nell’ultimo bilancio depositato, nonché la quasi integrale assenza di attivo rinvenuto dal curatore sono circostanze di fatto che legittimano la quantificazione del danno ricorrendo al criterio equitativo dello sbilancio non permettendo l’accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta del amministratore.
L’individuazione della figura del c.d. “amministratore di fatto” presuppone che la persona abbia in concreto svolto attività di gestione (e non anche meramente esecutive) della società e che tale attività abbia carattere sistematico e non si esaurisca nel compimento di taluni atti di natura eterogenea ed occasionale. La corretta individuazione della figura richiede l’accertamento dell’avvenuto inserimento nella gestione dell’impresa, desumibile dalle direttive impartite e dal condizionamento delle scelte operative della società, che si verifica quando le funzioni gestorie, svolte appunto in via di fatto, non si siano esaurite nel compimento di atti di natura eterogenea e occasionale, essendo la sistematicità sintomatica dell’assunzione di quelle funzioni; l’influenza dell’amministratore di fatto si deve tradurre, per essere rilevante, nell’ingerenza concreta nella gestione sociale che abbia il carattere della sistematicità.
Responsabilità per mala gestio dell’amministratore e del liquidatore di s.r.l.
Nonostante i doveri di amministratori e liquidatori non trovino una enumerazione precisa e ordinata nella legge, possono condensarsi nel più generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio, che impone loro sia di astenersi dal compiere qualsiasi operazione che possa rivelarsi svantaggiosa per la società e lesiva degli interessi dei soci e dei creditori, in quanto rivolta a vantaggio di terzi o di qualcuno dei creditori a scapito di altri, in violazione del principio della par condicio creditorum, sia di contrastare qualsiasi attività che si riveli dannosa per la società, così da adeguare la gestione sociale ai canoni della corretta amministrazione.
Nel novero delle operazioni dannose meritano senz’altro di essere comprese le distrazioni del patrimonio sociale, intendendosi per tali tutte quelle azioni, in qualsiasi modo realizzate, che non perseguono altro fine se non quello di sottrarre beni e risorse finanziarie alla società, destinandoli al soddisfacimento di interessi ad essa estranei e, anzi, contrari al suo scopo.
Dalla differente natura dell’attività gestionale dell’amministratore e del liquidatore e dai diversi obblighi specifici che la legge impone loro, deriva, al fine di far valere la responsabilità del liquidatore, l’onere della curatela di allegare inadempimenti nei confronti del liquidatore specifici e diversi rispetto a quelli svolti nei confronti dell’amministratore di una società in bonis, quali, ad esempio, la contestazione circa l’omessa attività liquidatoria, ovvero circa le modalità non corrette di liquidazione per l’eventuale eccessivo protrarsi della stessa o per il compimento di atti non finalizzati ad una rapida dismissione dell’attivo.
Responsabilità dell’amministratore per omessa cessazione dell’attività e richiesta di auto fallimento
In tema di società di capitali, l’amministratore, pur nominato quando la società si trovi già in stato di insolvenza, è tenuto a prendere atto dell’impossibilità di proseguire l’attività d’impresa e chiedere il fallimento ex art. 14 l. fall., non essendo sufficiente per escluderne la responsabilità il mancato compimento di attività non conservativa (nella specie, l’inerzia dell’amministratore aveva comportato la maturazione di maggiori interessi passivi e sanzioni del valore di circa un milione e mezzo di euro, aggravando in tal modo lo stato di indebitamento della società).
Mancata convocazione dell’assemblea per la ricapitalizzazione ex art. 2482 ter c.c. e responsabilità dell’amministratore unico
Il mancato adempimento dell’obbligo di convocare l’assemblea per la ricapitalizzazione di una s.r.l. ex art. 2482 ter c.c. non integra di per sé una responsabilità dell’amministratore nei confronti del creditore sociale insoddisfatto, atteso che, ove l’amministratore avesse ottemperato all’obbligo richiamato, i soci avrebbero potuto scegliere, in luogo della ricapitalizzazione, l’alternativa loro offerta dalla legge di sciogliere la società, cui sarebbero comunque conseguite l’incapienza del patrimonio sociale e, quindi, l’infruttuosità di qualsiasi tentativo di escussione del creditore.
Quantificazione del danno per indebita prosecuzione dell’attività in presenza di una causa di scioglimento
Il danno arrecato alla società ed ai creditori sociali per l’indebita prosecuzione dell’attività malgrado la sussistenza di una causa di scioglimento, nell’impossibilità di un più preciso conteggio, può quantificarsi, secondo i criteri consolidati nella più recente giurisprudenza di legittimità, nella differenza tra il patrimonio netto stimato alla data del fallimento, e quello stimato alla data del verificarsi della causa di scioglimento, dedotti quei costi che sarebbero stati sostenuti anche nella fase di liquidazione, e previa riclassificazione dei dati patrimoniali in prospettiva liquidatoria.
Azione sociale di responsabilità nella s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1 n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti.
L’azione sociale di responsabilità si configura, per consolidata giurisprudenza, come un’azione risarcitoria di natura contrattuale, derivante dal rapporto che lega gli amministratori alla società e volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del depauperamento cagionato dalla cattiva gestione degli amministratori e dalle condotte da questi posti in essere in violazione degli obblighi gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’obbligo di intervento preventivo e successivo. E’ onere della parte attrice allegare l’inadempimento sussistente in capo all’amministratore degli obblighi a lui imposti dalla legge e/o dall’atto costitutivo, nonché discendenti dal generale obbligo di vigilanza al fine di evitare il determinarsi di eventi dannosi.
La condotta dell’amministratore di s.r.l., equiparata per tale aspetto ai doveri che devono connotare il contegno degli amministratori di s.p.a., deve informarsi alla diligenza richiesta per la natura dell’incarico ed alle specifiche competenze del settore; trattasi, dunque, della speciale diligenza richiesta, ai sensi dell’art. 1176, 2° comma, al professionista e non, come previsto nei tempi precedenti alla riforma del diritto societario entrata in vigore il’1.1.2004, alla generica diligenza del mandatario.
Giova precisare che, ai fini della risarcibilità del danno, il soggetto agente, oltre ad allegare l’inadempimento dell’amministratore nei termini summenzionati, deve anche allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, che si estrinsechi nel depauperamento del patrimonio sociale di cui si chiede il ristoro, nonché nella possibilità di ricondurre detta lesione alla condotta dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico.
La ripartizione dell’onere probatorio attribuisce alla parte attrice l’obbligo non solo di allegare l’inadempimento – nel caso di specie l’acquisto della società identificato come operazione antieconomica per la società e, dunque, lesiva del dovere di diligenza che impegna l’amministratore nei confronti della società stessa – ma anche l’onere di allegare e provare l’esistenza di un danno concreto, causalmente connesso alla condotta dell’amministratore.
Il limite alla sindacabilità delle scelte gestorie dell’amministratore di s.r.l.
L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci, ai sensi dell’art. 2487 c.c. in relazione all’art. 2393, co. 1, c.c. nel testo antecedente l’entrata in vigore del d. lgs., 17 gennaio 2003, n.3; la mancanza di tale presupposto, incidente sulla legittimazione processuale del rappresentante della società, può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria (art. 2364, co. 1, n. 4, c.c.), non essendo ammesse forme equipollenti. Si ritiene che l’autorizzazione assembleare sia necessaria anche nelle società a responsabilità limitata in forza dell’applicabilità analogica dell’art. 2393 c.c. anche a questo tipo sociale.
La responsabilità degli amministratori di società di capitali per i danni cagionati alla società amministrata ha natura contrattuale, sicché la società deve allegare le violazioni compiute dagli amministratori ai loro doveri e provare il danno e il nesso di causalità tra la violazione e il danno, mentre spetta agli amministratori provare, con riferimento agli addebiti contestatigli, l’osservanza dei doveri previsti dall’art. 2392 c.c. Per quanto riguarda il nesso di causalità, deve ritenersi che un evento sia da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (c.d. teoria della condicio sine qua non), nonché (in virtù del criterio della c.d. causalità adeguata) dando rilievo, all’interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono, ad una valutazione ex ante, del tutto inverosimili.
All’amministratore di una società di capitali non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che valutazioni di tal sorta ineriscono alla discrezionalità imprenditoriale e ricadono nell’ambito di applicazione della c.d. business judgment rule, potendo essere al più fatte valere come giusta causa della revoca dell’amministratore e non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.
Il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, pur presentando queste profili di rilevante alea economica.
È necessario che il giudizio dell’organo giudicante si limiti alla sola diligenza mostrata nell’apprezzamento preventivo e prudenziale dei margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere. Ne deriva che rileveranno, ai fini del riconoscimento dell’inadempimento all’obbligo di diligenza ex art. 1176, co. 2, c.c. da cui discende responsabilità contrattuale, unicamente le condotte omissive delle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo operata in quelle circostanze e con quelle modalità.
Nella delimitazione del perimetro applicativo della c.d. business judgment rule occorre riferirsi ad alcune regole fondamentali riguardanti le facoltà decisionali degli stessi amministratori nella gestione della società. L’amministratore, difatti, è tenuto ad agire in modo informato e a operare con la cautela e la diligenza da lui esigibile ex art. 2392 c.c., deve decidere nei limiti di legge e operando non in conflitto di interessi.
Non può, tuttavia, affermarsi l’assoluta insindacabilità delle scelte di gestione dell’organo amministrativo, in quanto sussistono due ordini di limiti all’operatività della business judgment rule. Innanzitutto, la scelta di gestione è insindacabile ove legittimamente compiuta e, inoltre, essa non deve essere irrazionale. Per quanto concerne il primo limite all’applicazione del principio, è necessario operare un controllo sul processo decisionale che ha portato l’amministratore a compiere una determinata scelta. Relativamente al secondo limite, è necessario che la scelta sia definita come razionale e non irragionevole; ciò implica non solo che l’amministratore abbia posto in essere la diligenza esigibile in relazione al tipo di scelta e con le cautele, verifiche e informazioni necessarie, ma che sia ulteriormente necessario che queste abbiano condotto l’amministratore ad una scelta razionale e meditata.