Compenso degli amministratori di società capitali
Con riferimento al compenso spettante all’amministratore di società di capitali giova premettere che dal contenuto dell’art. 2389 c.c. si desume che l’ordinamento riconosce agli amministratori delle società di capitali il diritto ad un compenso per l’attività da essi svolta per conto della società in adempimento del mandato ricevuto (naturalmente oneroso, ex art. 1709 c.c.). La pretesa dell’amministratore di una società al compenso per l’opera prestata ha natura di diritto soggettivo.
In aderenza all’art. 2389, ove lo statuto nulla disponga in merito al compenso dell’amministratore, competente per la relativa determinazione è l’assemblea dei soci, che può provvedervi sia con la medesima delibera di nomina dei soggetti preposti alle funzioni gestorie, sia con autonoma e separata deliberazione. Sicchè, ove nulla disponga al riguardo lo statuto ovvero l’assemblea si rifiuti o ometta di procedere alla relativa liquidazione o, ancora, lo determini in misura assolutamente inadeguata, il compenso deve intendersi indeterminato e quindi deve essere giudizialmente determinato, su domanda dell’amministratore, in applicazione del richiamato art. 1709 c.c., anche mediante liquidazione equitativa. Rimangono prive di effetti altre eventuali forme di determinazione, tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge.
Presidente dell’assemblea di s.r.l. e abuso della maggioranza
In base a quanto disposto dall’art. 2479 bis, comma 4, c.c., a norma del quale “l’assemblea è presieduta dalla persona indicata nell’atto costitutivo o, in mancanza, da quella designata dagli intervenuti”, deve escludersi che la nomina del presidente dell’assemblea di società a responsabilità limitata – in assenza di una specifica disposizione statutaria – necessiti dell’espletamento di una formale procedura di voto, essendo a tutt’oggi previsto, per tale tipo di società, la mera “designazione” ad opera dei presenti.
La figura dell’abuso di potere rappresenta un limite al principio maggioritario vigente nel diritto societario corrispondente ad un principio generale dell’ordinamento giuridico secondo il quale è vietato abusare dei propri diritti e, quindi, fare di essi un esercizio emulativo. L’abuso di potere (abuso di maggioranza) è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari quando la deliberazione: (i) non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società (deve pertanto trattarsi di una deviazione dell’atto dallo scopo economico – pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale); (ii) sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché è rivolta al conseguimento di interessi extrasociali. I due requisiti non sono richiesti congiuntamente, ma in alternativa. Sulla scorta di tali principi deve affermarsi, pertanto, che la delibera assembleare di determinazione del compenso dell’amministratore adottata col voto determinante espresso dallo stesso amministratore che abbia preso parte all’assemblea in veste di socio non è, per ciò solo, annullabile, dovendosi anche valutare se con la stessa delibera stessa sia stato pregiudicato l’interesse sociale.
I limiti di compenso degli amministratori di società a controllo pubblico
L’art. 11, co. 7, del d.lgs. 175/2016 (c.d. “Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”), rinviando all’art. 4, co. 4, del d.l. 95/2012, si limita a esprimere un limite massimo e onnicomprensivo di spesa con riferimento ai compensi riconosciuti ai vari componenti dell’organo amministrativo di società a controllo publico, non un meccanismo di riduzione automatica e proporzionale dei compensi eventualmente eccedenti tale limite.
Prova del diritto al compenso dell’amministratore e delibera di approvazione del bilancio
Con riferimento alla determinazione della misura del compenso degli amministratori di società di capitali qualora non sia stabilita nello statuto, è necessaria una esplicita delibera assembleare, che non può considerarsi implicita in quella di approvazione del bilancio, attesa: la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica, oltre che dalla previsione come delitto della percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea (art. 2630, co. 2 c.c., abrogato dall’art. 1 del d.lgs. n. 61 del 2002); la distinta previsione delle delibera di approvazione del bilancio e di quella di determinazione dei compensi (art. 2364, n. 1 e 3 c.c.); la mancata liberazione degli amministratori dalla responsabilità di gestione, nel caso di approvazione del bilancio (art. 2434 c.c.); il diretto contrasto delle delibere tacite ed implicite con le regole di formazione della volontà della società (art. 2393, co. 2 c.c.). Conseguentemente, l’approvazione del bilancio contenente la posta relativa ai compensi degli amministratori non è idonea a configurare la specifica delibera richiesta dall’art. 2389 c.c., salvo che un’assemblea convocata solo per l’approvazione del bilancio, essendo totalitaria, non abbia espressamente discusso e approvato la proposta di determinazione dei compensi degli amministratori.
Il contenuto della delibera di azione di responsabilità contro gli amministratori; la responsabilità dei sindaci per culpa in vigilando
L’art. 2393 c.c. non richiede che la deliberazione con cui l’assemblea autorizza l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità rechi una specifica motivazione volta ad illustrare le ragioni che giustificano tale scelta, tantomeno che rechi una individuazione specifica delle condotte degli amministratori asseritamene contrarie ai doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto. Ne deriva che è da escludere che la delibera prevista dall’art. 2393 c.c. circoscriva l’esercizio dell’azione sociale di responsabilità solo agli atti di mala gestio eventualmente riportati nella relativa motivazione e che deve essere ritenuto senz’altro ammissibile, in sede di proposizione, fondare l’azione su fatti diversi da quelli specificamente esaminati dall’assemblea. A differenza di altre deliberazioni societarie, non è necessario che detta delibera sia motivata, né che individui in maniera specifica tutti gli addebiti, essendo sufficiente che emerga la volontà dei soci di ottenere per via giudiziaria il risarcimento del danno causato dalla mala gestio di determinati amministratori, poiché la delibera è soltanto una condizione dell’azione e non può predeterminarne il contenuto, che deve invece essere rimesso al vaglio degli amministratori attuali non in conflitto di interessi. L’azione di responsabilità, pertanto, non solo può essere concretamente esercitata nei confronti di alcuni soltanto degli amministratori indicati nella delibera assembleare, ma può anche essere fondata su fatti diversi da quelli specificatamente esaminati dall’assemblea in sede di delibera della relativa azione.
Per poter accertare la sussistenza della responsabilità dei sindaci in concorso omissivo con il fatto illecito degli amministratori o dei liquidatori, colui che propone l’azione ex art. 2407 c.c. ha l’onere di allegare specificamente quali doveri sono rimasti inadempiuti e quali poteri non sono stati esercitati dai sindaci, nonché di provare il danno e il nesso di causalità tra quelle omissioni e il danno, nesso che può ritenersi sussistente quando il danno non si sarebbe prodotto se essi avessero vigilato in conformità degli obblighi della loro carica (art. 2407, co. 2, c.c.), cioè quando, in base ad un ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione diligente dei poteri che la legge accorda loro lo avrebbe ragionevolmente evitato o limitato. Ciò accade, in particolare, quando i sindaci non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, specie se protratti per un lasso di tempo apprezzabile, poiché in tal caso il mantenimento di un comportamento inerte implica che non si sia vigilato adeguatamente sulla condotta degli amministratori (o dei liquidatori) pur nella esigibilità di un diligente sforzo per verificare la situazione anomala e porvi rimedio, col fine di prevenire eventuali danni.
Se lo statuto della società non stabilisce il diritto dell’amministratore al compenso, esso è determinato dall’assemblea ordinaria dei soci all’atto della nomina o successivamente. In mancanza di determinazione in seno allo statuto è pertanto necessaria, perché sorga in capo all’amministratore il diritto al compenso, un’esplicita delibera assembleare. Le medesime regole valgono anche con riferimento al liquidatore, al quale lo statuto dell’amministratore, mutatis mutandis, è applicabile (art. 2489 c.c.).
Sede appropriata per la verifica dei soci in ordine alla correttezza, da parte dell’organo amministrativo, della liquidazione dei propri compensi sulla base di criteri già stabiliti in apposita e previa sede assembleare ed assumere le relative determinazioni, ben può essere anche l’ approvazione del bilancio di esercizio, considerando che tale delibera è pur capace di esplicare limitati e condizionati effetti negoziali non già, come ovvio, nei rapporti della società con terzi, ma nei rapporti interni, non solo tra soci e tra soci e società (es.: vincolo, solo per i soci che lo abbiano approvato, del bilancio che reca un determinato regime dei loro finanziamenti), ma anche con riferimento ai rapporti interni tra organo amministrativo proponente il progetto di bilancio e società. Tuttavia, perché in sede di approvazione del bilancio possa dirsi formata un’effettiva volontà dei soci in ordine al riconoscimento / ratifica del compenso erogato all’organo gestorio, è necessario che la relativa appostazione sia chiara e specifica sia con riferimento all’attribuzione della somma pagata all’organo stesso a titolo di compenso, sia con riferimento al suo ammontare.
Il revisore è il soggetto preposto per legge al controllo dei conti delle società di capitali. L’attività del revisore consta di due diverse fasi: quella ispettivo-ricognitiva e quella valutativa. Il revisore, infatti, verifica periodicamente la regolare tenuta della contabilità sociale e la corretta rilevazione nelle scritture contabili dei fatti di gestione; a ciò segue la fase valutativa nella quale egli accerta se il bilancio di esercizio e, ove redatto, il bilancio consolidato corrispondano alle risultanze delle scritture contabili e siano stati redatti correttamente, esprimendo il relativo giudizio in apposita relazione (artt. 11 e 14 d.lgs. n. 39/2010). Il revisore contabile ha dunque prevalentemente doveri informativi che consistono specialmente nell’esprimere la valutazione sul bilancio di esercizio ma anche nel fornire tempestivamente al collegio sindacale informazioni rilevanti per l’espletamento dei rispettivi compiti ex art. 2409 septies c.c. La presentazione di dichiarazioni fiscali è un’attività di natura senz’altro gestoria ed esula dai poteri preventivi di controllo del revisore.
Competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa nelle controversie tra la società e gli amministratori o sindaci per il pagamento dei compensi
Sussiste la competenza della Sezione Specializzata in materia di Impresa in merito alle controversie tra la società e gli amministratori o i sindaci riguardanti le somme dovute in relazione all’attività dagli stessi esercitata quali organi della società; tale materia, infatti, è ricompresa nell’ambito dei rapporti societari di cui all’art. 3 comma 2 lett. a) D.L.vo n. 168/2003, tenuto conto sia della formulazione letterale della norma, sia della sua ratio tendente a concentrare la materia societaria innanzi al giudice specializzato.
Diritto dell’amministratore di società di capitali alla percezione del compenso
Il principio di cui all’art. 2389 c.c., secondo il quale gli amministratori di s.p.a. hanno diritto ad un compenso per l’attività svolta per conto della società, è applicabile analogicamente anche agli amministratori di s.r.l.
L’ammontare del compenso spettante all’amministratore di società di capitali per l’opera prestata è stabilito all’atto della nomina o dall’assemblea con successiva ed autonoma deliberazione e, in difetto di tali manifestazioni formali, deve essere giudizialmente determinato su domanda dell’amministratore, anche mediante liquidazione equitativa, in applicazione dell’art. 1709 c.c., rimanendo prive di effetti eventuali altre forme di determinazione, tra cui l’accordo orale eventualmente intervenuto fra amministratore e socio di maggioranza, con conseguente attribuzione del carattere di indebito oggettivo al compenso corrisposto, sulla base di un simile accordo, in mancanza del fatto costitutivo previsto dalla legge.
Non esiste un compenso minimo degli amministratori, tanto è vero che essi possono accettare di essere retribuiti in modo oggettivamente inadeguato al lavoro svolto, anche se, in tali ipotesi, vi deve essere il loro consenso, ancorché tacito. Del resto, il diritto al compenso degli amministratori è disponibile e, come tale, può costituire oggetto di rinuncia, pure tacita, purché inequivoca. Ed invero, in tema di compenso in favore dell’amministratore di una società di capitali, che abbia agito come organo, legato da un rapporto interno alla società, e non nella veste di mandatario libero professionista, la facoltà dell’amministratore di insorgere avverso una liquidazione effettuata dall’assemblea della società in misura inadeguata, per chiedere al giudice la quantificazione delle proprie spettanze, viene meno, vertendosi in materia di diritti disponibili, qualora detta delibera assembleare sia stata accettata e posta in esecuzione senza riserve.
Ai fini della determinazione giudiziale del compenso dell’amministratore, il giudice può avvalersi di una pluralità di criteri, tra cui la situazione societaria, la resa economica, l’impegno dell’amministratore, i criteri adottati in precedenti esercizi, il compenso corrente nel mercato per analoghe prestazioni in relazione a società di medesime dimensioni [nel caso di specie, il Tribunale ha applicato gli artt. 15 ss. della tabella C ex d.m. 140/2012 disciplinanti il compenso spettante ai commercialisti per le attività di amministrazione, consulenza e redazione bilancio].
Responsabilità per mala gestio dell’amministratore verso la cooperativa edilizia, compenso dell’amministratore che sia già militare
In tema di responsabilità per mala gestio dell’amministratore verso la cooperativa, a fronte della contestazione ex art. 2392 c.c. del mancato pagamento di imposte dovute dalla cooperativa edilizia, incombe sull’amministratore l’onere di provare l’esatto adempimento alle obbligazioni di corretta gestione societaria, dimostrando l’effettiva sussistenza di ragioni causali sottese al mancato pagamento delle imposte tali da escludere una valutazione in termini di mala gestio dell’omesso adempimento alle obbligazioni fiscali e tributarie. In mancanza, va riconosciuta la responsabilità dell’amministratore e l’entità del risarcimento deve essere limitata all’effettiva e diretta efficienza causale del suo inadempimento: non avendo il comportamento dell’amministratore inciso sulla debenza o meno dell’imposta, il danno da mancato pagamento non coincide con l’importo delle imposte non versate, ma esclusivamente con gli aggravi, costituiti dalle sanzioni e dagli interessi irrogati alla cooperativa a seguito dell’accertamento fiscale compiuto dagli enti competenti.
Non ha diritto ad essere remunerato per l’attività svolta in qualità di presidente del CdA di una cooperativa esercente attività commerciale il militare che, in violazione degli artt. 894 d.lgs. 66/2010 e 12 L. 599/1954, non abbia previamente ottenuto specifica autorizzazione dall’amministrazione di appartenenza ad esercitare tale attività extraprofessionale.
Simulazione del contratto di società e in materia di nomine gestorie
Non è configurabile la simulazione dell’atto costitutivo di società di capitali. La simulazione di una società di capitali iscritta nel registro delle imprese non è configurabile in ragione della natura stessa del contratto sociale, che non è solo regolatore degli interessi dei soci, ma si atteggia, al contempo, come norma programmatica dell’agire sociale, destinata ad interferire con gli interessi dei terzi, che con la società instaurano rapporti e fanno affidamento sulla sua esistenza, dovendosi ritenere che tipo e scopo sociale, una volta compiute le formalità di legge, siano quelli che emergono dal sistema di pubblicità, sicché l’atto di costituzione dell’ente non può più essere interpretato secondo la comune intenzione dei contraenti e resta consacrato nei termini in cui risulta iscritto ed è portato a conoscenza dei terzi. Parimenti, non è configurabile la simulazione in materia di nomine gestorie, dato il rapporto organico che tali nomine istituiscono tra la società e l’amministratore, nonché considerato il relativo sistema pubblicitario.
Lo statuto può disporre la gratuità dell’incarico di amministratore
Il compenso dell’amministratore costituisce materia del tutto disponibile e subordinata alle disposizioni statutarie (artt. 2377 comma 1, 2479 ter, ult. comma, c.c.). Ben si può dire, in linea molto generale, che, nel rapporto interno con l’amministratore e sul piano contrattuale, le scelte negoziali per conto della società sono assunte ed espresse dai soci, ai quali spetta ex lege il potere di nominare e revocare gli amministratori e di determinarne, eventualmente, il compenso. Da tali previsioni non può quindi in alcun modo desumersi il carattere inderogabilmente oneroso della prestazione dell’amministratore, non costituendo l’onerosità un requisito indispensabile della stessa.
Inoltre, il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni.
Pertanto, al fine di individuare le modalità di regolamentazione del rapporto con l’amministratore, occorre fare riferimento a quegli atti attraverso i quali, nell’ambito dell’organizzazione societaria, si manifesta la volontà dei soci con particolare riferimento al rapporto di amministrazione. Astrattamente, sono prospettabili quattro alternative, potendo lo statuto: (i) attribuire agli amministratori un diritto al compenso, (ii) subordinare il diritto al compenso all’assunzione di apposita delibera dell’assemblea, (iii) escludere il diritto al compenso e stabilire, dunque, la gratuità dell’incarico ovvero (iv) non prevedere nulla al riguardo.
Sicché, se lo statuto subordina il compenso dell’amministratore alla presenza di una specifica delibera assembleare, e tale delibera non vi è, nulla è dovuto a chi ricopra quella carica, in forza della vigenza di una regola statutaria di gratuità.
Resta fermo che, a fronte della gratuità dell’incarico, l’amministratore ben potrebbe non accettare la conclusione del contratto e, quindi, rifiutare la nomina oppure, ove l’abbia già accettata, estinguere anticipatamente il rapporto, rassegnando le proprie dimissioni.