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Andrea D'Amico

Andrea D'Amico

Avvocato del Foro di Roma. Si occupa principalmente di diritto civile e commerciale, diritto industriale e della proprietà intellettuale, contrattualistica d’impresa, diritto bancario, data protection

14 Ottobre 2022

La generica prospettazione della violazione di un segreto industriale non basta a determinare la competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa

Rientrano nella competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa le domande di repressione di atti di concorrenza sleale o di risarcimento dei danni che si fondano su comportamenti che interferiscono con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale cd. "interferente"), avendo riguardo alla prospettazione dei fatti da parte dell'attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza, mentre esulano dalla competenza delle sezioni specializzate le domande fondate su atti di concorrenza sleale cd. "pura", in cui la lesione dei diritti di esclusiva non sia elemento costitutivo dell'illecito concorrenziale. La generica prospettazione della violazione di un segreto industriale non basta a determinare la competenza delle sezioni specializzate in mancanza dei presupposti fattuali richiesti dalla legge onde si configuri l’oggetto stesso della tutela a mente dell’art. 98 c.p.i., comma 1, lett. a) b) e c), ossia onde un segreto abbia attinenza con la materia industriale, e di reali indicazioni descrittive del contenuto effettivo di quei segreti, non potendo la primaria funzione assertiva essere surrogata da espressioni lessicali solo evocative di mere categorie, lasciate prive di contenuti concreti (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto che l’attrice, nel prospettare la sottrazione di informazioni riservate, avesse svolto allegazioni non sufficientemente circostanziate, omettendo di indicare concreti elementi di valutazione, in fatto, idonei ad individuare la natura, la tipologia ed il contenuto effettivo dei dati aziendali asseritamente sottratti e a verificare, sia pure ai più limitati fini della determinazione della competenza, la sussistenza dei requisiti cui gli artt. 98 e 99 c.p.i. subordinano il carattere “segreto” dell’informazione; il ritenuto difetto di siffatte allegazioni ha portato il Tribunale a qualificare la fattispecie sottoposta al suo esame in termini di concorrenza sleale "pura" e, quindi, a dichiarare la propria incompetenza ratione materiae). In tema di concorrenza sleale, il luogo di commissione dell'illecito (rilevante ai fini della corretta individuazione del giudice competente per territorio alla stregua dei criteri alternativi indicati dagli artt. 19 e 20 cod. proc. civ.) non è quello in cui l'attore che si affermi danneggiato ha la sua sede, bensì quello nel quale si siano materialmente verificati sia gli atti che si assumono lesivi della norma di cui all'art. 2598 cod. civ., sia i conseguenti effetti, sul mercato, dell'attività concorrenziale vietata (nel caso di specie il Tribunale ha fatto coincidere il locus commissi delicti con quello in cui la convenuta – impresa operante nel settore della produzione, distribuzione e rivendita di valvole e tubazioni prefabbricate di alta qualità e nei correlativi servizi di analisi dei fluidi – aveva i propri stabilimenti industriali). Il fatto che le condotte contestate come sleali siano state attuate in tutto o in parte all’interno del più ampio contesto di lavoro non vale a fondare l’eccezione di incompetenza per materia, laddove dall'atto introduttivo emerga che l’attrice non abbia inteso svolgere nei confronti del convenuto azione di inadempimento delle obbligazioni "ex contractu" (e specificamente del dovere di lealtà ex art. 2015 c.c.), bensì un’azione di risarcimento danni per illeciti extracontrattuali (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto infondata l’eccezione di incompetenza per materia in favore del Giudice del lavoro sollevata da uno dei convenuti, in ragione del fatto che l’attrice non ha allegato il rapporto di lavoro come causa petendi, bensì come mera occasione nel cui ambito si sono verificate le condotte anticoncorrenziali contestate). [ Continua ]
29 Aprile 2023

Concorrenza sleale per imitazione servile in ambito di prodotti per l’igiene e la pulizia della casa

In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l'esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l'importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un'attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l'interesse a che l'imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente. L'imitazione rilevante ai sensi dell'art. 2598, n. 1, cod. civ. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto; ne consegue che, in caso di utilizzo di confezioni identiche a quelle della impresa concorrente, sussiste l'illecito predetto se tale comportamento è idoneo ad indurre il consumatore in inganno sulla provenienza del prodotto. La sussistenza di una reale possibilità di confusione tra prodotti di imprese concorrenti va apprezzata dal punto di vista dei consumatori dei prodotti stessi che siano di media diligenza e intelligenza, ma anche con riferimento al tipo di clientela cui il rapporto è destinato [nel caso di specie, avente ad oggetto detergenti, il Tribunale ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale in ragione delle dimensioni, colori e forma similari delle bottiglie impiegate per il confezionamento del prodotto, dell’identità di forma e colore dei tappi, della somiglianza delle indicazioni relative alle diverse profumazioni dei vari prodotti, nonché della somiglianza per forma e colorazione del logo riprodotto sulle etichette, il tutto dato anche conto del fatto che il pubblico di riferimento era rappresentato dal consumatore medio].   [ Continua ]
2 Settembre 2022

Sulla sospensione del giudizio di contraffazione in presenza di una sentenza di nullità del brevetto asseritamente contraffatto resa in un diverso e separato processo

L’art. 337 comma 2 c.p.c. impone al giudice della causa pregiudicata di conformarsi all'autorità della sentenza emessa nella causa pregiudicante; in caso contrario, ove intenda discostarsene, lo stesso è tenuto a sospendere la causa pregiudicata, nell’ipotesi in cui ritenga altamente probabile che la sentenza pregiudicante venga riformata. L’art. 337 comma 2 c.p.c. si applica anche alla materia brevettuale e vale anche ove i soggetti del giudizio pregiudicante e del giudizio pregiudicato non coincidono completamente (è il caso dei giudizi definiti con sentenze aventi efficacia ultra partes, quali quelle che dichiarano la nullità di un titolo brevettuale). Ai fini della cessazione di efficacia del brevetto nazionale ai sensi e per gli effetti dell’art. 59 c.p.i. non è necessariamente richiesto che esso abbia la stessa identica estensione di un brevetto europeo valido in Italia o un brevetto europeo con effetto unitario tutelanti la medesima invenzione e concessi allo stesso inventore o al suo avente causa con la medesima data di deposito o di priorità, ben potendo uno dei due essere compreso nell'altro, costituendone un "sottoinsieme". [ Continua ]

Illecita sottrazione di informazioni aziendali riservate, storno di dipendenti e prova del danno subito

Come confermato dal più recente orientamento della Suprema Corte, la consulenza tecnica d’ufficio non è certamente un mezzo di prova necessario per dimostrare il danno, ma può fornire un ausilio al giudicante per la quantificazione dello stesso. In tal senso, la CTU non costituisce né la prova per individuare l’an debeatur, né la prova per dimostrare il nesso causale. La consulenza tecnica d’ufficio, dunque, non è mezzo istruttorio in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze. Ne consegue che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati. [ Continua ]
8 Novembre 2021

Accertamento della contraffazione e conseguenze della cessazione delle condotte contraffattorie in corso di causa

La spontanea cessazione, in corso di giudizio, della condotta contestata non fa venire meno, di per sé, l’interesse all’accoglimento delle domanda di colui che agisce, ben potendo la parte all’esito del giudizio riprendere la condotta censurata, senza alcuna sanzione. Dovrà quindi procedersi, di volta in volta, ad una valutazione prognostica in merito alla probabilità di ripresa delle condotte contestate, che tenga conto delle peculiarità e delle specificità del caso sottoposto al vaglio del giudice (nel caso di specie il Tribunale ha ritenuto insussistente il rischio di reiterazione, da parte delle convenute, delle condotte contestate, tenuto conto, in particolare, dello stato di apparente inattività di queste ultime, nonché della sopravvenuta installazione di un’insegna del tutto diversa, in cui è spesa una denominazione differente dai segni distintivi azionati in giudizio dalle attrici). Non sussistono elementi che consentano di ravvisare un danno da contraffazione allorché non sia provato che il presunto contraffattore ha concretamente fatto uso, in violazione dell’art. 20 c.p.i. e nell’ambito della propria attività economica, dei marchi e dei segni distintivi di altrui titolarità, con conseguente non configurabilità, neppure sul piano del pericolo, di un danno da sviamento di clientela ai sensi di cui all’art. 2598 c.c. (nel caso di specie, pur nella contumacia delle convenute, da elementi prodotti agli atti – quali le visure camerali delle convenute o la prova dell’omessa consegna di diffide – il Tribunale ha desunto lo stato di “inattività” delle convenute, per l’effetto rigettando le domande delle attrici volte ad accertare la contraffazione e/o la concorrenza sleale, con ogni conseguenza anche di tipo risarcitorio). Deve procedersi d’ufficio alla riduzione ad equità della penale, ai sensi dell’art. 1384 c.c., la cui “eccessività” risulta, ex actis, dai documenti legittimamente acquisiti al processo (in applicazione del suddetto principio il Tribunale ha ritenuto che, ove un contratto di licenza permetta al licenziatario di fare legittimo uso di segni distintivi ed allestimenti del licenziante a fronte di un corrispettivo annuo di euro 2.800,00 oltre oneri, risulta manifestamente eccessiva una penale che, alla cessazione del contratto di licenza, preveda l’obbligo per il licenziatario di pagare una somma di euro 100,00 giornalieri per ogni giorno di ritardo nella rimozione di detti segni distintivi ed allestimenti; in sostituzione è stata ritenuta congrua una penale pari al doppio del corrispettivo annuo previsto nel contratto di licenza). [ Continua ]
11 Febbraio 2023

Concorrenza sleale: comunicazioni idonee a determinare il discredito di un’impresa presso il pubblico di riferimento

Secondo la giurisprudenza ormai consolidata, la concorrenza sleale, consistente nel diffondere notizie ed apprezzamenti sui prodotti altrui in modo idoneo a determinare il discredito, richiede un'effettiva divulgazione ad un numero indeterminato, o quanto meno ad una pluralità di soggetti cioè ad un pubblico indifferenziato, e non è pertanto configurabile nell'ipotesi di esternazioni occasionalmente rivolte a singoli interlocutori nell'ambito di separati e limitati colloqui. [Nel caso specifico, non è ravvisabile la fattispecie della denigrazione (art. 2598 n. 2 c.c. ) poiché le comunicazioni in contestazione non hanno avuto come destinatari una collettività indistinta di soggetti, operanti sul mercato di riferimento al quale sono destinati i prodotti di parte attrice, ma soggetti specifici.] [ Continua ]
25 Giugno 2022

Risarcimento del danno derivante dall’avere azionato, con colpa, un marchio decaduto nonché domande di marchi di dubbia registrabilità

L’art. 120 comma 1 c.p.i. prevede la sospensione del giudizio in attesa della decisione dell’Ufficio Italiano Brevetti e Marchi, ma non impone alcuna sospensione in caso di proposizione di ricorso in Cassazione avverso la decisione della Commissione dei ricorsi (in applicazione del presente principio il Tribunale ha ritenuto di non dover sospendere la causa, pur essendo pendente in Cassazione il giudizio di impugnazione della decisione della Commissione di cui all'art. 135 c.p.i., la quale, confermando l’orientamento già mostrato dall’U.I.B.M. in sede di opposizione ex artt. 176 e ss. c.p.i., aveva negato la registrazione di taluni dei marchi per cui è causa). E' tenuto a risarcire il danno provocato il soggetto che ha fatto valere, con condotta qualificabile come colposa, diritti derivanti dalla registrazione di un marchio che in realtà non aveva usato e che è stato pertanto oggetto di pronuncia di decadenza, nonché diritti derivanti da domande di registrazione che sono state respinte dall’UIBM, insistendo nelle proprie pretese anche dopo la decisione dell’UIBM e dopo la decisione della Commissione dei ricorsi. [ Continua ]
16 Ottobre 2022

Azione di rivendica di design comunitario tra questioni di giurisdizione ed accertamento della titolarità dei diritti patrimoniali

L'azione di rivendicazione di cui all'art. 118 c.p.i. si traduce in un rimedio giuridico-processuale diverso ed alternativo opposto rispetto all’azione di nullità, in quanto finalizzato non alla rimozione erga omnes del titolo, bensì all’accertamento giudiziale della titolarità in capo al soggetto che agisce. Tale azione rientra dunque nella competenza del giudice nazionale anche con riferimento al design comunitario ai sensi dell’art. 93 del medesimo Regolamento Europeo, secondo il quale, le azioni diverse da quelle di contraffazione e nullità vanno “proposte dinanzi all'autorita giudiziaria che sarebbe competente per territorio e per materia in ordine alle azioni riguardanti il disegno o modello nazionale registrato dallo Stato stesso”. Se, da un lato, è vero che il collegamento richiesto con la domanda principale non deve intendersi in senso restrittivo, ben potendo la domanda riconvenzionale dipendere da un titolo diverso, dall’altro, è pur vero che è, comunque, necessario (e sufficiente) che la domanda riconvenzionale sia collegata in maniera oggettiva con la pretesa principale, in modo tale da rendere necessario ed opportuno il simultaneus processus, in ossequio ai principi di economia processuale e del giusto processo (nel caso di specie il Tribunale ha reputato che la domanda riconvenzionale del convenuto – il quale inter alia aveva chiesto accertarsi la titolarità di un marchio asseritamente utilizzato da controparte – fosse inammissibile ai sensi dell’art. 36 c.p.c., non dipendendo dallo stesso titolo azionato in giudizio dall’attrice). Sebbene l’art. 64 CPI si propone come norma dettata espressamente per le invenzioni del lavoratore subordinato, essa ha tuttavia portata generale, suscettibile di applicazione analogica anche ai rapporti di lavoro parasubordinato e autonomo. Nei casi in cui l’attività inventiva costituisca l’oggetto della prestazione del lavoratore autonomo, del consulente o del professionista, si deve concludere che, salvo diversa pattuizione, i diritti patrimoniali derivanti dall’invenzione nascano direttamente in capo al committente che abbia commissionato l’invenzione. [ Continua ]
30 Luglio 2022

Sui presupposti per il compimento di atti di concorrenza sleale quali lo storno di dipendenti, lo sviamento di clientela e l’appropriazione ed uso illecito di informazioni aziendali riservate

L’ex dipendente dell’imprenditore, una volta cessato il rapporto di lavoro (esclusa l’ultrattività dell’obbligo contrattuale di cui all’art. 2105 c.c.), in mancanza di un patto di non concorrenza, può intraprendere un’attività in concorrenza con l’impresa con cui aveva intrattenuto il precedente rapporto professionale, sia che avvii in proprio un’attività, sia che svolga una prestazione di lavoro alle dipendenze o in collaborazione con altri. Egli resta sottoposto alle medesime regole valevoli per qualunque altro soggetto, non derivando dalla qualità di ex dipendente alcun ulteriore divieto od onere: dunque, l’eventuale illiceità della concorrenza viene ancorata al compimento di atti qualificabili come oggettivamente sleali, a prescindere dalla qualità del soggetto agente. L’ex dipendente (ma idem dicasi per l’ex collaboratore autonomo) non può utilizzare, a favore del nuovo datore di lavoro, quelle informazioni che vanno al di là del suo bagaglio di conoscenze professionali, sia che assumano i caratteri di segretezza di cui agli artt. 98-99 c.p.i., sia che si tratti di notizie comunque riservate, interne all’azienda e non suscettibili di divulgazione e di utilizzazione al di fuori di essa. Le notizie interne all’azienda – quali le informazioni commerciali relative ai clienti e ai fornitori, le condizioni contrattuali, le strategie imprenditoriali – sprovviste dei requisiti di protezione di cui agli artt. 98 e 99 c.p.i. possono presentare carattere di riservatezza nell’ambito dell’attività aziendale in cui sono impiegate, e in quanto tali sono tutelate ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c.. L’illiceità della condotta concorrenziale non va ricercata episodicamente, ma si desume dall’insieme delle manovre di approfittamento dell’avviamento altrui, attraverso un’attività di acquisizione sistematica dei clienti della società concorrente. L’imitazione servile dei prodotti realizzati e/o commercializzati da altra impresa, quale ipotesi di concorrenza confusoria ex art. 2598 n. 1 c.c., presuppone che la forma del prodotto da tutelare sia già nota al mercato e presenti, come per i segni distintivi non registrati, capacità distintiva dell’attività di un determinato imprenditore ed efficacia individualizzante e diversificatrice del prodotto rispetto ad altri consimili. Incombe sull’attore l’onere di provare la priorità e la capacità distintiva della forma, mentre grava sul convenuto l’onere di dimostrare la mancanza di novità. La necessità della capacità distintiva della forma nega tutela alle forme determinate dalla natura e dalla funzionalità del prodotto e a tutte quelle comunque “utili”, che in qualsiasi modo rispondano ad un’impostazione strutturale conseguente ad una scelta di natura tecnica (nel caso di specie il Tribunale negava capacità distintiva a utensili normalmente impiegati nelle lavorazioni meccaniche, standardizzati, fungibili tra loro e sprovvisti di forme speciali o ricercate). Affinché possano ravvisarsi gli estremi della fattispecie dello storno di dipendenti di un’azienda da parte di un imprenditore concorrente – comportamento vietato in quanto atto di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598 n. 3 c.c. – non è sufficiente il mero trasferimento di collaboratori da un’impresa ad un’altra concorrente, né la contrattazione che un imprenditore intrattenga con il collaboratore altrui, ricorrendo in tali caso un’attività di per sé legittima, in quanto espressione del principio della libera circolazione del lavoro, ove non attuata con lo specifico scopo di danneggiare l’altrui azienda. Lo storno di dipendenti vietato ex art. 2598 n. 3 c.c. deve essere caratterizzato dall’ "animus nocendi", che va desunto dall’obiettivo che l’imprenditore concorrente si proponga - attraverso il trasferimento dei dipendenti - di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando nel mercato l’effetto confusorio, o discreditante, o parassitario capace di attribuire ingiustamente, a chi lo cagiona, il frutto dell’investimento (ossia, l’avviamento) di chi lo subisce. Il giudizio di difformità dello storno di dipendenti dai principi della correttezza professionale non va condotto sulla base di un’indagine di tipo soggettivo, ma secondo un criterio puramente oggettivo, dovendosi valutare se lo spostamento dei dipendenti si sia realizzato con modalità tali, da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di arrecare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva dell'imprenditore concorrente, svuotandola delle sue specifiche possibilità operative. Al fine di verificare la sussistenza del requisito dell’animus nocendi, si valuta non solo se lo storno di dipendenti sia stato realizzato in violazione delle regole della correttezza professionale (come nei casi di impiego di mezzi contrastanti con i principi della libera circolazione del lavoro, di denigrazione del datore di lavoro, o avvalendosi di dipendenti dell’impresa che subisce lo storno, o quando il trasferimento del collaboratore sia finalizzato all’acquisizione dei segreti del concorrente), ma principalmente se le caratteristiche e le modalità del trasferimento evidenzino la finalità di danneggiare l’altrui azienda, in misura eccedente il normale pregiudizio che può derivare dalla perdita di prestatori di lavoro trasferiti ad altra impresa, non essendo sufficiente che l’atto in questione sia diretto a conquistare lo spazio di mercato del concorrente. Per potersi configurare un’attività di storno di dipendenti, alla luce del requisito dell’animus nocendi, assumono rilievo i seguenti elementi: a) la quantità e la qualità dei dipendenti stornati; b) il loro grado di fungibilità; c) la posizione che i dipendenti rivestivano all’interno dell’azienda concorrente; d) la tempistica dello sviamento; d) la portata dell’organizzazione complessiva dell’impresa concorrente. Anche qualora risulti accertata la concorrenza sleale, il danno non è in re ipsa, ma, essendo conseguenza diversa ed ulteriore dell’illecito rispetto anche alla distorsione della concorrenza, richiede di essere provato secondo i principi generali che regolano le conseguenze del fatto illecito, in quanto soltanto tale avvenuta dimostrazione consente al giudice di passare alla liquidazione del danno, eventualmente facendo ricorso all'equità. [ Continua ]