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La tutela giuridica del marchio debole utilizzato per commercializzare una varietà di olio d’oliva

La qualificazione del segno distintivo come marchio debole non preclude la tutela nei confronti della contraffazione in presenza dell’adozione di mere varianti formali, in sé inidonee ad escludere la confondibilità con ciò che del marchio imitato costituisce l’aspetto caratterizzante, non potendosi, invero, limitare la tutela del marchio debole ai casi di imitazione integrale o di somiglianza prossima all’identità, cioè di sostanziale sovrapponibilità del marchio utilizzato dal concorrente a quello registrato anteriormente.

In tema di tutela del marchio, l’attitudine dei beni a soddisfare le medesime esigenze di mercato, da cui dipende l’affinità tra prodotti contraddistinti da marchi simili ai fini del giudizio di confondibilità tra gli stessi, consiste nella circostanza che i beni o i prodotti siano ricercati ed acquistati dal pubblico in forza di motivazioni identiche, o strettamente correlate, tali per cui l’affinità funzionale esistente tra quei beni o prodotti e tra i relativi settori merceologici induca il consumatore a ritenere che essi provengono dalla medesima fonte produttiva, indipendentemente dall’eventuale uniformità dei canali di commercializzazione. [ Nel caso di specie, il giudice ha ritenuto priva di pregio la tesi di parte resistente che intende escludere la confondibilità tra i due marchi in ragione dei differenti canali di commercializzazione dei prodotti utilizzati, focalizzando l’attenzione sull’assenza di uno store online per i prodotti commercializzati da parte ricorrente, nonché la differente platea di riferimento e lo sviluppo del bene su territori differenti.]

Il divieto di concorrenza sleale per imitazione servile è diretto a impedire il rischio di confusione tra i prodotti dell’imitatore e i prodotti del concorrente

L’imitazione servile è sanzionata dall’art. 2598 n.1 c.c. solo in quanto idonea a creare confusione con i prodotti del concorrente, cioè tale da indurre il potenziale acquirente a ritenere che l’oggetto imitato è proprio quello del produttore che subisce l’imitazione. Inoltre, poiché l’imitazione servile viene ricondotta all’ambito della concorrenza confusoria e quindi al tema dei segni distintivi (nel caso di specie costituiti dalla forma esteriore del prodotto), la tutela della forma è subordinata alle condizioni generali di tutelabilità dei segni distintivi. Ne consegue che chi assume la commissione dell’illecito in questione ed invoca la tutela contro l’imitazione deve allegare e provare la capacità distintiva della forma imitata, intesa soprattutto quale percezione del segno da parte del pubblico come segno distintivo.

23 Settembre 2022

Il mero segno grafico non è sufficiente a distinguere due marchi operanti nel settore moda

In tema di tutela del marchio, l’apprezzamento sulla confondibilità va compiuto dal giudice di merito accertando non soltanto l’identità o almeno la confondibilità dei due segni, ma anche l’identità e la confondibilità tra i prodotti, sulla base quanto meno della loro affinità; tali giudizi non possono essere considerati tra loro indipendenti, ma sono entrambi strumenti che consentono di accertare la cd. “confondibilità tra imprese”. [Nel caso concreto il giudice ritiene che l’apposizione di un mero punto tra le due parole che compongono il marchio del convenuto non appare idonea a distinguerla dal marchio dell’attore, tanto più ove si consideri che entrambi vengono utilizzati per la pubblicizzazione e commercializzazione di abbigliamento]

29 Marzo 2022

Contraffazione del marchio cromatico mediante la commercializzazione di vini spumanti prosecco aventi un packaging dal colore simile a quello di un noto champagne

Ciò che rileva nell’ambito della valutazione globale in punto contraffazione, è l’interdipendenza tra la somiglianza dei segni e quella dei prodotti contrassegnati: la confondibilità consiste nella possibilità che il pubblico possa credere che i prodotti provengano dalla stessa impresa o da imprese economicamente legate tra loro, onde è sufficiente che il grado di somiglianza tra questi marchi abbia l’effetto di indurre il pubblico di riferimento a stabilire un nesso tra di essi, non necessariamente a credere si tratti dello stesso produttore. La valutazione del rischio di confusione deve fondarsi perciò sull’impressione complessiva prodotta dai marchi in confronto, in considerazione, in particolare, dei loro elementi distintivi e dominanti, rilevando la percezione dei segni da parte del consumatore medio, il quale “vede” normalmente il marchio come un tutt’uno e non effettua un esame spezzettato dei singoli elementi. Va altresì considerato che il giudice deve tenere conto, nel giudizio di confondibilità, che, al momento della scelta, il consumatore usualmente non ha di fronte entrambi i segni ma solo uno di essi, onde non confronta due marchi entrambi posti innanzi a sé per svolgerne un compiuto esame visivo, ma paragona solo mentalmente quelle che vede con il ricordo imperfetto e l’immagine mnemonica dell’altro. Di conseguenza, nell’esame di confondibilità dei marchi complessi contenenti elementi denominativi ed elementi figurativi, anche la parte figurativa del segno, ove si tratti di marchio complesso, va adeguatamente considerata nell’esame, non potendo escludersi la confondibilità sol perché sussistano diverse componenti denominative. [Nel caso di specie, si afferma la contraffazione del marchio di MHCS
da parte della convenuta stante l’evidente somiglianza cromatica dei colori utilizzati, tale da creare indubbia confusione nel consumatore medio, essendo proprio il particolare colore impiegato il cuore distintivo del marchio di MHCS. A ciò si aggiunga che gli Champagne Veuve Clicquot e i vini contestati alla convenuta (Prosecco, vini spumanti e vini bianchi in generale) sono prodotti che condividono la medesima destinazione commerciale e sono in diretto rapporto di concorrenza.]

29 Marzo 2022

Principio di unitarietà dei segni distintivi e rischio di confusione tra marchi utilizzati nel settore moda

Secondo il principio di unitarietà dei segni distintivi, chi acquista diritti su un segno distintivo acquisterà diritti di esclusiva anche in relazione alle funzioni proprie degli altri segni, e ciò corrisponde alla ratio secondo cui i vari segni distintivi assolvono alla stessa funzione e, pertanto, è necessario regolare l’eventuale conflitto fra di essi. L’articolo 22 del c.p.i. recepisce tale impostazione ma subordina la sua operatività alla condizione della possibile confusione fra i segni distintivi posti in comparazione. In tema di marchio, poiché la ditta designa il nome sotto cui l’imprenditore esercita l’impresa, senza avere diretta attinenza con i prodotti fabbricati o venduti o con i servizi resi dall’imprenditore, in ciò distinguendosi dal marchio, è consentito che una impresa inserisca nella propria ditta una parola che già faccia parte del marchio di cui sia titolare altra impresa, anche quando entrambe operino nello stesso mercato, ma non è lecito utilizzare quella parola anche come marchio, in funzione della presentazione immediata, o mediata attraverso forme pubblicitarie, dei prodotti o servizi offerti.

Domain name: principio di unitarietà dei segni e capacità distintiva

Il codice della proprietà industriale ha esplicitamente riconosciuto la natura di segno distintivo del nome a dominio, e ciò ha fatto introducendo all’art. 12 cpi il principio di unitarietà dei segni distintivi. Il principio di unitarietà dei segni distintivi comporta che sia da un lato vietato di registrare un marchio interferente (nei termini dell’art. 12 c.p.i.) con un precedente segno distintivo – quale un nome a dominio – già noto, e che dall’altro sia vietato utilizzare un segno distintivo interferente con un precedente marchio (nei termini dell’art. 22). Il nome a dominio, che non ha una propria specifica disciplina quale segno, deve rispettare, per la sua normativamente riconosciuta natura, il requisito della distintività. Per la valutazione di sussistenza della distintività si ritiene possano applicarsi i criteri dell’art. 13 c.p.i. in quanto applicabili. In forza di tale disciplina va esclusa la distintività, fra l’altro, per quei nomi che sono costituiti da denominazioni generiche di prodotti o servizi, o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscano. I segni non distintivi sono quelli che non sono idonei a indicare al pubblico l’origine di un prodotto o servizio.

10 Giugno 2021

Rischio di confusione e uso illecito del marchio simile a quello di un altro concorrente nel settore dell’abbigliamento

Ai fini della valutazione della confondibilità tra marchi, per cui bisogna verificare se vi è stata appropriazione del nucleo centrale del messaggio individualizzante del marchio anteriore, si deve inizialmente identificare se il marchio è qualificabile come “forte” o “debole”.  Nel caso in cui il segno sia privo di aderenza concettuale o semantica con i prodotti e/o servizi designati, esso potrà essere connotato come marchio “forte”.

La valutazione del rischio di confusione tra marchi deve essere effettuata in modo globale e sintetico, considerando, in primo luogo, l’interdipendenza tra gli elementi costitutivi del marchio, quali quelli denominativi, grafici, simbolici, figurativi, fonetici. In secondo luogo, la capacità distintiva del segno incide sul rischio di confusione, il quale è tanto più elevato quanto più elevato è il carattere distintivo del segno anteriore.

2 Aprile 2021

Contraffazione del marchio e concorrenza sleale per appropriazione di pregi: il caso Ferragamo

Ricorre la fattispecie di appropriazione di pregi quando un imprenditore fa propri, profittandone e veicolandoli sui suoi prodotti, pregi in realtà appartenenti e coessenziali a beni di diversa provenienza. La concorrenza sleale deve, comunque, consistere in attività dirette ad appropriarsi illegittimamente dello spazio di mercato ovvero della clientela del concorrente, che si concretino nella confusione dei segni prodotti, nella diffusione di notizie e di apprezzamenti sui prodotti e sull’attività del concorrente o in atti non conformi alla correttezza professionale; con la conseguenza che l’illecito non può derivare dal danno commerciale in sé, né nel fatto che una condotta individuale di mercato produca diminuzione di affari nel concorrente, in quanto il gioco della concorrenza rende legittime condotte egoistiche, dirette al perseguimento di maggiori affari, attuate senza rottura delle indicate regole legali della concorrenza. [Nel caso di specie, deve ritenersi sussistente la lamentata contraffazione del marchio “Gancini”; parte attrice ha comprovato di essere titolare di detto marchio, registrato sia in sede comunitaria, che in sede nazionale].

31 Dicembre 2020

Concorrenza sleale per imitazione servile in ambito di prodotti per l’igiene e la pulizia della casa

In tema di concorrenza sleale, al fine di accertare l’esistenza della fattispecie della confondibilità tra prodotti per imitazione servile, è necessario che la comparazione tra i medesimi avvenga non attraverso un esame analitico e separato dei singoli elementi caratterizzanti, ma mediante una valutazione sintetica dei medesimi nel loro complesso, ponendosi dal punto di vista del consumatore e tenendo, quindi, conto che, quanto minore è l’importanza merceologica di un prodotto, tanto più la scelta può essere determinata da percezioni di tipo immediato e sollecitazioni sensoriali, anziché da dati che richiedano un’attenzione riflessiva, e considerando altresì che il divieto di imitazione servile tutela l’interesse a che l’imitatore non crei confusione con i prodotti del concorrente. L’imitazione rilevante ai sensi dell’art. 2598, n. 1, cod. civ. non esige la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante, e cioè idonee, in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa, sempreché la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle caratteristiche funzionali del prodotto; ne consegue che, in caso di utilizzo di confezioni identiche a quelle della impresa concorrente, sussiste l’illecito predetto se tale comportamento è idoneo ad indurre il consumatore in inganno sulla provenienza del prodotto. La sussistenza di una reale possibilità di confusione tra prodotti di imprese concorrenti va apprezzata dal punto di vista dei consumatori dei prodotti stessi che siano di media diligenza e intelligenza, ma anche con riferimento al tipo di clientela cui il rapporto è destinato [nel caso di specie, avente ad oggetto detergenti, il Tribunale ha ritenuto sussistente la concorrenza sleale in ragione delle dimensioni, colori e forma similari delle bottiglie impiegate per il confezionamento del prodotto, dell’identità di forma e colore dei tappi, della somiglianza delle indicazioni relative alle diverse profumazioni dei vari prodotti, nonché della somiglianza per forma e colorazione del logo riprodotto sulle etichette, il tutto dato anche conto del fatto che il pubblico di riferimento era rappresentato dal consumatore medio].

 

Concorrenza sleale e rischio di confusione nell’ambito di una campagna pubblicitaria. Il caso Kiko vs Wycon

Per la sussistenza del pericolo che una campagna pubblicitaria possa creare confusione tra i produttori e i loro rispettivi prodotti, non sono i singoli dettagli (in parte comuni e in parte differenti) delle immagini, bensì l’impressione generale, che le immagini, ed eventualmente le scritte che le accompagnano, suscitano nel pubblico dei consumatori, il quale è portato ad orientare le proprie scelte d’acquisto proprio sulla base dell’apprezzamento e della condivisione dell’immagine generale che un determinato produttore propone della sua azienda; i consumatori, infatti, normalmente, non sono certamente portati ad effettuare un’analisi particolareggiata delle immagini pubblicitarie, ma nella loro mente restano impresse e quindi ricordano piuttosto le atmosfere e i mondi che tali immagini evocano.