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Tribunale di Catanzaro


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Domanda di compenso per il ruolo di sindaco ed eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c.

Il rapporto tra sezione ordinaria e sezione specializzata in materia di impresa, nello specifico caso in cui entrambe le sezioni facciano parte del medesimo ufficio giudiziario, non attiene alla competenza, ma rientra nella mera ripartizione degli affari interni all’ufficio giudiziario.

I principi sull’onere della prova in materia di responsabilità si applicano anche in caso di eccezione ex art. 1460 c.c. di modo che l’eccipiente può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento o l’inesatto adempimento alle obbligazioni assunte dal creditore (di cui deve dedurre e dimostrare il fatto costitutivo), spettando, per contro, a chi ha agito in giudizio l’onere di provare di aver esattamente adempiuto alle medesime. In particolare, nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di inadempienze reciproche deve procedersi ad un esame del comportamento complessivo delle parti, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti e causa del comportamento della controparte e della conseguente alterazione del sinallagma contrattuale.

L’eccezione d’inadempimento può essere dedotta anche in caso di adempimento solo inesatto e non è subordinata alla presenza degli stessi presupposti richiesti per la risoluzione del contratto e l’azione di risarcimento dei danni conseguentemente arrecati, e cioè, rispettivamente, la gravità e la dannosità dell’inadempimento dedotto.

In presenza di eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. da parte della società (o dal curatore nel caso di fallimento della società) spetta al sindaco il compito di provare il fatto estintivo di tale dovere, costituito dall’avvenuto esatto adempimento, e cioè di aver adeguatamente vigilato sulla condotta degli amministratori, attivando, con la diligenza professionale dallo stesso esigibile in relazione alla situazione concreta, i poteri-doveri inerenti alla carica (art. 2407, comma 1°, c.c.). E ciò con la necessaria precisazione che i sindaci non esauriscono l’adempimento dei proprio compiti con il mero e burocratico espletamento delle attività specificamente indicate dalla legge avendo, piuttosto, l’obbligo di adottare (ed, anzi, di ricercare lo strumento di volta in volta più consono ed opportuno di reazione, vale a dire) ogni altro atto (del quale il sindaco deve fornire la dimostrazione) in relazione alle circostanze del caso (ed, in particolare, degli atti o delle omissioni degli amministratori che, in ipotesi, non siano stati rispettosi della legge, dello statuto o dei principi di corretta amministrazione) fosse utile e necessario ai fini di un’effettiva ed efficace (e non meramente formale) vigilanza sull’amministrazione della società e le relative operazioni gestorie.

I doveri di controllo previsti a carico dei sindaci dall’art. 2403 c.c. devono estendersi alla legittimità sostanziale dell’attività degli amministratori della società e non possono ritenersi limitati alla mera constatazione della conformità formale di tale attività alle disposizioni di legge o agli astratti principi della contabilità. Il dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall’art. 2403 c.c. è, in effetti, configurato dalla legge con particolare ampiezza poiché, non è circoscritto all’operato degli amministratori, ma si estende al regolare svolgimento dell’intera gestione sociale in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci ma anche di quello concorrente dei creditori sociali: né, d’altra parte, riguarda solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo conferito ai componenti del relativo collegio il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione.

Si è sostenuto che, con specifico riferimento al diritto del sindaco al pagamento del compenso, il diritto del professionista al compenso, se non implica il raggiungimento del risultato programmato con il conferimento del relativo incarico (e cioè la legittimità dell’intera gestione sociale e la sua conformità ai principi di corretta amministrazione: art. 2403, comma 1°, c.c.), richiede, nondimeno, che il giudice di merito accerti, in fatto, la concreta ed effettiva idoneità funzionale delle prestazioni svolte a conseguire tale risultato, essendo, in effetti, evidente che, in difetto, pur in difetto di una responsabilità contrattuale del professionista a tal fine incaricato, non potrebbe neppure parlarsi di atto di adempimento degli obblighi contrattualmente assunti dallo stesso e giustifica, quindi, il rifiuto del committente, a norma dell’art. 1460 c.c., al pagamento, in tutto o in parte, del compenso (in ipotesi) maturato.

L’eccezione d’inadempimento di cui all’art. 1460 c.c. può essere, di conseguenza, opposta dal cliente (o dal curatore del relativo fallimento) al professionista (come il sindaco) che abbia violato l’obbligo di diligenza professionale quando le prestazioni svolte dallo stesso, a prescindere dal mancato conseguimento del risultato perseguito, non sono state, per la negligenza con cui sono state eseguite, oggettivamente funzionali, in tutto o in parte, alla soddisfazione degli interessi del primo, così come dedotti, per volontà delle parti o (come nel caso dei sindaci) della legge, nel contratto di prestazione d’opera professionale tra loro intercorso ed abbiano, di conseguenza, negativamente inciso sulla realizzazione (o possibilità di realizzazione) degli stessi.

Il compito essenziale dei sindaci, infatti, è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione, che la riforma del diritto societario ha esplicitato e che già in precedenza potevano ricondursi all’obbligo di vigilare sul rispetto della legge e dell’atto costitutivo, secondo la diligenza professionale prevista dall’art. 1176, comma 2°, c.c., e cioè di controllare in ogni tempo che gli amministratori, alla stregua delle circostanze del caso concreto, compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale. Se è pur vero, pertanto, che il sindaco non risponde automaticamente, in termini d’inadempimento ai propri doveri giuridici, per ogni fatto gestorio aziendale non conforme alla legge o allo statuto ovvero ai principi di corretta amministrazione, è, tuttavia, necessario, a fini del corretto adempimento dei propri obblighi, che abbia esercitato (o, quanto meno, tentato, con la dovuta diligenza professionale, di esercitare) l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge.

Il giudizio circa il corretto adempimento da parte del sindaco ai propri doveri istituzionali verso la società postula: (i) la prova del compimento da parte del sindaco opposto di tutte le attività proattive di natura ispettiva, consultiva e di controllo della legittimità sostanziale dell’operato degli amministratori, rientranti nella cd. vigilanza in senso stretto, volte a rilevare e prevenire potenziali atti di mala gestio compiuti dagli organi sociali, e, al contempo, (ii) nel caso di rilevati atti di negligente amministrazione, la prova positiva del tempestivo espletamento delle opportune attività reattive di segnalazione e sollecitazione degli organi competenti, al fine di evitare ovvero di contenere il prodursi di un danno a carico della società o dei soci di essa.

L’eccezione di inadempimento può essere dedotta per la prima volta in sede giudiziale, quand’anche non sia stata sollevata in precedenza per rifiutare motivatamente l’adempimento chiesto ex adverso, non ponendo l’art. 1460 c.c. alcuna limitazione temporale o modale alla sua esperibilità, salva l’ipotesi di termini differenziati di adempimento, né essendo l’esercizio della facoltà di sospendere l’esecuzione del contratto, a fronte del grave inadempimento della controparte, subordinato ad alcuna condizione né, in particolare, alla previa intimazione di una diffida o ad alcuna generica contestazione dell’inadempimento, l’eccezione stessa.

Nullità della notifica eseguita a soggetti diversi da quelli dovuti

La notificazione del decreto ingiuntivo può anche essere eseguita, a norma degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale. In tema di notifica, la qualità di rappresentante della persona giuridica e la sua residenza, domicilio e dimora, devono essere inseriti nell’atto da notificare e non nel plico. La notifica può, pertanto, essere seguita nelle mani della persona fisica che rappresenta la società, ma solo qualora sia indicata nell’atto da notificare e non altrove.

La notifica eseguita in luogo a soggetti diversi da quelli dovuti comporta l’inesistenza della notifica stessa solo in difetto di alcuna attinenza, o riferimento, o collegamento di quel luogo o soggetto con il destinatario, altrimenti essendo la notifica affetta da semplice nullità.

Azione di responsabilità nei confronti dell’amministratore di una società consortile

Alle società consortili si applicano le disposizioni relative al tipo sociale prescelto, eventualmente temperate da quelle sui consorzi. Da ciò discende che se la causa consortile può comportare la deroga delle norme che disciplinano il tipo adottato, ciò non consente di giustificarne lo stravolgimento dei connotati fondamentali, tra cui quello che riguarda la disciplina di tutela dei soci e dei creditori sociali.

L’azione di responsabilità esercitata nell’interesse dei creditori decorre dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di avere percezione dell’insufficienza del patrimonio sociale, per l’inidoneità dell’attivo, raffrontato alle passività, a soddisfare i loro crediti, con la precisazione che tale condizione non corrisponde allo stato d’insolvenza, derivante, in primis, dall’impossibilità di ottenere ulteriore credito, sicché in ragione della onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, ricadendo sull’amministratore la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale, con la deduzione di fatti sintomatici di assoluta evidenza, la cui valutazione spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se non per vizi motivazionali che la rendano del tutto illogica o lacunosa.

L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale, anche se esercitata dal curatore, in quanto trova la sua fonte nell’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dallo statuto, cui questi devono adempiere con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze. Di contro, l’azione spettante ai creditori sociali ha natura aquiliana, rispetto alla quale il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali, a garanzia della quale è posto il patrimonio della società con conseguente diritto del creditore di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di compiere.

L’esistenza di un conflitto di interessi tra la società e il suo amministratore non può essere fatta discendere genericamente dalla mera coincidenza nella stessa persona dei ruoli di amministratore e controparte contrattuale, ma deve essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui siano portatori, rispettivamente, la società e il suo amministratore.

Sussiste conflitto di interessi quando l’amministratore persegue una finalità inconciliabile con quella della società rappresentata, di guisa che all’utilità conseguita o conseguibile da quest’ultimo, per sé medesimo o per conto del terzo, segua o possa seguire il danno della società rappresentata. Viceversa, il conflitto di interessi non produttivo di danno, si risolve in una mera situazione potenzialmente lesiva, che, sul piano civilistico, non determina l’insorgenza di alcun obbligo risarcitorio.

28 Febbraio 2024

Classificazione e criteri per la qualificazione degli apporti dei soci

Gli apporti effettuati dai soci sono generalmente classificati come finanziamenti, versamenti in conto capitale o a fondo perduto o versamenti in conto futuro aumento di capitale. I finanziamenti fanno sorgere un vero e proprio obbligo di restituzione da parte della società e, come tali, sono appostati nella classe D del passivo dello stato patrimoniale, tra i debiti verso soci per finanziamenti. I versamenti in conto capitale o a fondo perduto sono apporti non comportanti obbligo di restituzione, non legati a una specifica e prospettica operazione sul capitale, idonei a irrobustire il patrimonio netto della società e dotarla di mezzi propri. Come tali, non sono appostati a debito ma a riserva, nella classe A del passivo dello stato patrimoniale, e restano definitivamente acquisiti dalla società. Infine, i versamenti in conto futuro aumento di capitale sono versamenti corrispondenti a veri e propri acconti su versamenti che saranno dovuti, in ragione dell’intenzione di sottoscrivere un determinato aumento di capitale, ancora non deliberato ma pur sempre individuato con un certo grado di chiarezza. In altri termini, appaiono come apporti risolutivamente condizionati alla mancata, successiva, deliberazione di aumento del capitale nominale della società. Essi devono essere iscritti in bilancio come riserva, e non come finanziamento soci, in quanto, ove l’aumento intervenga, le somme confluiscono automaticamente nel capitale sociale, mentre, in caso contrario, devono essere restituiti, in conseguenza del mancato perfezionamento della fattispecie programmata.

Stabilire se una determinata dazione tragga origine da un mutuo o se invece sia stato effettuato quale apporto del socio al patrimonio della società è questione di interpretazione, riservata al giudice del merito. L’indagine sul punto deve tenere conto soprattutto del modo in cui concretamente è stato attuato il rapporto, tenendo conto delle finalità pratiche perseguite, degli interessi implicati e della reale intenzione dei soggetti – socio e società – tra i quali il rapporto si è instaurato. In particolare, per qualificare la dazione come versamento in conto futuro aumento di capitale, l’interprete deve verificare che la volontà delle parti di subordinare il versamento all’aumento di capitale risulti in modo chiaro e inequivoco, utilizzando, all’uopo, indici di dettaglio (quali l’indicazione del termine finale entro cui verrà deliberato l’aumento, il comportamento delle parti, eventuali annotazioni contenute nelle scritture contabili o nella nota integrativa al bilancio, clausole statutarie) e, comunque, qualsiasi altra circostanza del caso concreto, capace di svelare la comune intenzione delle parti e gli interessi coinvolti, non essendo sufficiente la sola denominazione adoperata nelle scritture contabili.

12 Febbraio 2024

Compenso all’amministratore: competenza della sezione specializzata in materia di impresa ed eccezione di inadempimento

La controversia introdotta da un amministratore nei confronti della società e riguardante le somme da quest’ultima dovute in relazione all’attività espletata dal primo va attribuita alla cognizione della sezione specializzata in materia di impresa, poiché la formulazione dell’art. 3, co. 2, lett. a, del d.lgs. n. 168 del 2003, facendo riferimento alle cause e ai procedimenti “relativi a rapporti societari ivi compresi quelli concernenti l’accertamento, la costituzione, la modificazione o l’estinzione di un rapporto societario”, si presta a ricomprendere, quale specie di questi, tutte le liti che vedano coinvolti la società e i suoi amministratori, senza poter distinguere fra quelle che riguardino l’agire degli amministratori nell’espletamento del rapporto organico e i diritti che, sulla base dell’eventuale contratto stipulato con la società, siano stati da quest’ultima riconosciuti a titolo di compenso.

In tema di ripartizione dell’onere probatorio tra il soggetto attivo e il soggetto passivo del rapporto obbligatorio, il debitore convenuto che si avvalga dell’eccezione di inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c. può limitarsi ad allegare l’altrui inadempimento; viceversa, il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento e ciò anche nell’ipotesi in cui sia eccepito non l’inadempimento dell’obbligazione, bensì il suo inesatto adempimento, essendo sufficiente che il creditore istante alleghi l’inesattezza dell’adempimento, gravando sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento.

6 Febbraio 2024

Esercizio dei diritti sociali afferenti a quota di s.r.l. in comproprietà

In tema di esercizio dei diritti inerenti alla qualità di socio di una società di capitali, nel caso di quota indivisa in comproprietà tra più soggetti, l’art. 2468, co. 5, c.c. prevede che i diritti devono essere esercitati da un rappresentante comune. Tale disposizione detta un’ipotesi di rappresentanza necessaria, i cui poteri sono esclusivamente attribuiti al soggetto designato secondo le modalità prescritte dagli artt. 1105 e 1106 c.c., con conseguente preclusione, per i partecipanti alla comunione, del concorrente esercizio dei diritti, da intendersi come l’insieme di tutti i diritti sociali, siano essi patrimoniali, amministrativi o processuali. Corollario, questo, del principio di indivisibilità delle quote e delle azioni di cui all’art. 2347 c.c., norma che nel conferire alla partecipazione azionaria il carattere della indivisibilità, ha considerato indispensabile, in relazione alle esigenze peculiari della organizzazione societaria e alla natura del bene in comunione, la unitarietà dell’esercizio dei diritti, impedendone, quanto meno nei rapporti esterni, il godimento e l’amministrazione in forma individuale; e ciò al fine, da un lato, di evitare che contrasti interni si riflettano sulle attività assembleari e, dall’altro, di garantire certezza e stabilità delle deliberazioni assunte, correttamente approvate.

6 Febbraio 2024

Gravi irregolarità gestionali ex art. 2409 e adeguatezza degli assetti

Ai sensi dell’art. 2409 c.c., il fondato sospetto di gravi irregolarità gestionali compiute dagli amministratori è il requisito necessario affinché il Tribunale intervenga nell’attività delle società di capitali. Il procedimento è volto a realizzare il riassetto amministrativo, economico e contabile della società e, dunque, la ripresa della normale e corretta gestione sociale, nell’interesse dell’economia, della fede pubblica, dell’ordine economico, della collettività in genere e del regolare funzionamento delle società commerciali.

L’accertamento circa la sussistenza della gravità delle irregolarità è rimessa al prudente apprezzamento del Tribunale che in sede di volontaria giurisdizione, ove falliscano i rimedi endosocietari di cui al comma 3 della citata disposizione – sostituzione da parte dell’assemblea degli amministratori e sindaci con soggetti di adeguata professionalità, i quali si attivino senza indugio per accertare l’esistenza di violazioni per eliminarle – deve emettere tutti i provvedimenti precauzionali necessari per tutelare il patrimonio sociale, e ciò indipendentemente dai fatti espressamente denunciati che non vincolano il controllo del giudice, il quale può validamente estendere le sue indagini a qualsiasi irregolarità emersa successivamente alla denuncia medesima.

L’indizio di irregolarità deve essere serio, preciso e grave in quanto non è ammissibile un procedimento fondato su generici sospetti o su indimostrati rilievi critici di eventuali irregolarità, dovendo queste essere basate su specifici ed obiettivi riscontri da cui si possa desumere l’elevata probabilità che siano stati commessi atti irregolari.

L’adozione dei provvedimenti ex art. 2409 c.c. non può essere giustificata unicamente sulla base di valutazioni concernenti l’andamento economico dell’impresa sociale, poiché le gravi irregolarità non attengono a valutazioni di merito o di opportunità.

Gravi irregolarità gestionali, in violazione dei doveri, sono costituite da tutti quei comportamenti degli amministratori che nel caso specifico concretizzino un adempimento degli obblighi di legge e di statuto effettuato in modo inesatto ed inadeguato, ovvero da una grave inosservanza con un comportamento attivo o anche omissivo di uno o più doveri che gli amministratori avrebbero dovuto ottemperare, tale da arrecare (o anche solo poter arrecare) grave pregiudizio alla società, e sempre che l’impossibilità della condotta esatta e adeguata non sia determinata da un’impossibilità non imputabile, ex art.1218 c.c., agli organi societari.

È opinione pacifica che le gravi irregolarità possano integrare la violazione di obblighi e doveri a contenuto specifico previsti da norme civili, penali, tributarie e amministrative, ovvero riguardare anche violazioni di generici obblighi di gestione diligente, nell’interesse della società e senza conflitto di interessi. Le gravi irregolarità debbono essere attuali ed ancora in grado di produrre i loro effetti pregiudizievoli per la società.

La mancanza di un efficace sistema di gestione dei crediti commerciali costituisce una grave irregolarità, in quanto non consente la rilevazione tempestiva di eventuali sintomi di squilibrio economico-finanziario e della salvaguardia della continuità aziendale. L’assenza di un adeguato assetto organizzativo, contabile e amministrativo rappresenta una grave irregolarità, anche – anzi, soprattutto – in una impresa in situazione di equilibrio economico finanziario.

22 Gennaio 2024

La business judgment rule opera solo in assenza di un conflitto di interessi

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. ha carattere unitario e inscindibile poiché cumula le azioni disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. in un’unica azione finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, in modo tale che, venendo a mancare i presupposti dell’una, soccorrono i presupposti dell’altra. In caso di fallimento, pertanto, le diverse azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dal codice civile, pur rimanendo tra loro distinte, confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne muta i presupposti.

L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte dolose o colpose degli amministratori poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che quest’ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sui sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Il danno risarcibile è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente e, in difetto di tale allegazione e prova, la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto.

La mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. Una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.

La figura dell’amministratore di fatto ricorre nelle ipotesi in cui un soggetto non formalmente investito della carica di amministratore si ingerisce nell’amministrazione, esercitando i poteri propri inerenti alla gestione della società. Tali funzioni gestorie esercitate in via di fatto debbono avere carattere sistematico e non esaurirsi nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e occasionale.

All’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere e, quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. L’insindacabilità delle scelte di gestione dell’amministratore trova un limite anche nella presenza di una situazione di conflitto di interesse non manifestata.

Sussiste un conflitto di interessi quando gli interessi di cui sono portatori l’amministratore e la società sono in una relazione di incompatibilità, tale per cui il perseguimento dell’uno comporta il necessario sacrificio dell’altro. Ciò significa che al vantaggio conseguibile dall’amministratore in base all’operazione deve corrispondere, anche se non in modo necessariamente proporzionale, uno svantaggio della società, che può anche consistere in un mancato guadagno. Il comportamento dell’amministratore che agisce in conflitto di interessi deve ritenersi sindacabile sotto il profilo della violazione del generale dovere di correttezza cui egli è tenuto nel rapporto con la società.

Ai sensi degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c., gli amministratori, in caso di perdita di oltre un terzo del capitale, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la sola ed eventuale riduzione del capitale e non anche la messa in liquidazione, a meno che la perdita non comporti la riduzione al disotto del capitale minimo. Nel caso in cui il minimo legale non sia stato intaccato, la riduzione non è obbligatoria, potendo la società decidere di portare a nuovo le perdite, ma sussiste comunque l’obbligo, per gli amministratori, di convocare l’assemblea senza indugio per l’adozione degli opportuni provvedimenti e di redigere una relazione sulla situazione patrimoniale della società con le osservazioni del collegio sindacale o del revisore. In tal caso, la riduzione del capitale sociale ha funzione meramente dichiarativa, tendente a far coincidere l’entità del capitale nominale con quello effettivo, riconducendo il primo alla misura del secondo, se e in quanto questo sia realmente divenuto inferiore all’ammontare indicato nell’atto costitutivo.

15 Gennaio 2024

Sull’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore della società

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, dei liquidatori, e dei sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime, attesa la ratio ad essa sottostante identificabile nella destinazione di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti.

L’azione di responsabilità sociale ex art. 2393 c.c. ha natura contrattuale e presuppone un danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall’atto costitutivo; l’azione di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c. ha natura extracontrattuale e presuppone l’insufficienza patrimoniale cagionata dall’inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale. La prescrizione dell’azione proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio resta quinquennale e decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, o dalla cessazione dalla carica, bensì dal momento dell’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti e, per meglio dire, dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza di tale insufficienza. Detta disciplina, stante il disposto dell’art. 2489 c.c. che rinvia, quanto alla responsabilità del liquidatore, alle norme sull’amministratore, si applica anche ai liquidatori di società di capitali.

L’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c. non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale, che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo, né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento. Per presunzione iuris tantum, fondata sull’id quod plerumque accidit, la manifestazione di tale insufficienza si identifica con la dichiarazione di fallimento, mediante lo spossessamento del debitore e la presa in consegna delle attività da parte dell’organo della procedura. Tale presunzione non esclude come, in concreto, il deficit si sia manifestato in un altro momento, ma incombe sull’amministratore che eccepisce la prescrizione provare che l’insufficienza preesisteva e che era oggettivamente conoscibile da parte dei creditori in un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento.

Nonostante i doveri di amministratori e liquidatori non trovino una enumerazione precisa e ordinata nella legge, essi possono condensarsi nel più generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio, che impone loro sia di astenersi dal compiere qualsiasi operazione che possa rivelarsi svantaggiosa per la società e lesiva degli interessi dei soci e dei creditori, in quanto rivolta a vantaggio di terzi o di qualcuno dei creditori a scapito di altri, in violazione del principio della par condicio creditorum, sia di contrastare qualsiasi attività che si riveli dannosa per la società, così da adeguare la gestione sociale ai canoni della corretta amministrazione. Debbono considerarsi atti utili alla liquidazione, ai sensi dell’art. 2489 c.c., tutti quelli volti alla realizzazione dell’attivo e alla eliminazione del passivo sociale, in modo da consentire il riparto finale del residuo. La professionalità e la diligenza richieste secondo la natura dell’incarico conferito costituiscono parametri da valutarsi comunque con riferimento al fine ultimo della liquidazione ed estinzione della società e al compimento dei soli atti utili al raggiungimento di tale scopo; l’attività discrezionale, e come tale insindacabile, dei liquidatori ha quindi come limiti la ragionevolezza e la coerenza con le finalità proprie della particolare fase della vita della società cui sono preposti. Analogamente alla responsabilità degli amministratori, anche quella dei liquidatori è quindi una responsabilità qualificata e, per non incorrere in responsabilità, i liquidatori devono agire con la diligenza del corretto liquidatore, determinata in relazione all’incarico e alle specifiche competenze.

È da escludersi che sussista lo stato d’insolvenza in presenza di un passivo di bilancio, o allorché la difficoltà di adempimento delle obbligazioni sia momentanea, e non cronica, e riguardi non tutte le obbligazioni, ma solo poche obbligazioni in un lasso di tempo limitato. L’insolvenza, invero, dev’essere valutata dinamicamente, in relazione cioè al complesso delle operazioni economiche ascrivibili all’impresa: dunque a un elemento legato non all’incapienza in sé del patrimonio dell’imprenditore ma a una vera impotenza patrimoniale definitiva e irreversibile e non è, invece, ravvisabile in una mera temporanea impossibilità di regolare adempimento delle obbligazioni assunte.

Quando sia imputato all’organo amministrativo e di controllo il mancato incasso d’un credito, maturato dalla società in bonis prima del fallimento, non è sufficiente allegare l’inerzia degli amministratori nella riscossione di esso, occorrendo piuttosto allegare e provare che il credito è divenuto inesigibile a causa di quella inerzia.

Nel caso in cui un amministratore effettui pagamenti preferenziali in una situazione di dissesto, questi sarà tenuto a risarcire i creditori lesi dal pagamento preferenziale, ma non per l’intero credito, bensì per il danno da maggior falcidia dei crediti insinuati al passivo. Questo è rappresentato dalla differenza tra quanto i creditori avrebbero percepito dal riparto fallimentare se il pagamento non fosse stato effettuato, e il creditore preferito si fosse insinuato al passivo fallimentare, e quanto hanno effettivamente percepito.