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Michele Greggio

Michele Greggio

Dottorando di ricerca in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Padova. Avvocato, si occupa prevalentemente di diritto commerciale e bancario.

16 Giugno 2023

Sull’abuso di maggioranza nella delibera di scioglimento della società per deliberazione dell’assemblea

All'infuori della ipotesi di un esercizio “ingiustificato” ovvero “fraudolento” del potere di voto ad opera dei soci maggioritari, resta preclusa ogni possibilità di controllo in sede giudiziaria sui motivi che hanno indotto la maggioranza alla votazione della deliberazione di scioglimento anticipato della società, essendo insindacabili le esigenze relative all'economia individuale del socio che possano averlo indotto a votare per tale soluzione dissolutiva. Pertanto, ai fini dell'annullamento della delibera di scioglimento anticipato della società ex art. 2484 n. 6 c.c. per conflitto di interessi o per abuso di potere è necessario che sussista o un contrasto tra l'interesse della maggioranza e l'interesse sociale o che il voto della maggioranza sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta diretta a provocare la lesione dei diritti spettanti ai soci di minoranza uti singuli (nel caso di specie il Tribunale annulla la delibera, rilevando l'abuso da parte del socio di maggioranza, che con il proprio voto ha deliberato lo scioglimento anticipato della società, dopo che era fallita una trattativa sulla cessione della quota del socio di minoranza e dopo che era stato disposto il trasferimento dell'azienda sociale a favore di altra società partecipata dal socio di maggioranza). [ Continua ]
23 Giugno 2023

Sul valore probatorio dell’accertamento di infrazioni anticoncorrenziali ad opera delle Autorità di Vigilanza: le fideiussioni omnibus

In tema di accertamento dell’esistenza di intese restrittive della concorrenza vietate dall’art. 2 della l. n. 287/90, e con particolare riguardo alle clausole relative a contratti di fideiussione da parte delle banche, il provvedimento della Banca di Italia di accertamento dell’infrazione, adottato prima delle modifiche apportate dall’art. 19, co. 11, della l. n. 262 del 2005, possiede, al pari di quelli emessi dall’Autorità Garante della concorrenza e del mercato, un’elevata attitudine a provare la condotta anticoncorrenziale. Pertanto, l’accertamento effettuato dalla Banca d’Italia con il provvedimento amministrativo n. 55 del 2005 riferibile al periodo temporale ottobre 2022 - maggio 2005 esplica elevata attitudine probatoria in ordine all’esistenza dell’intesa anticoncorrenziale rispetto alle fideiussioni omnibus stipulate nel corso della finestra temporale oggetto dell’accertamento. Quel che assume rilievo, ai fini della nullità delle clausole del contratto di fideiussione omnibus riproducenti lo schema ABI, è che esse costituiscono lo sbocco dell’intesa vietata e cioè che attraverso dette disposizioni si siano attuati gli effetti di quella condotta illecita nei confronti di tutti gli operatori del mercato; ciò che va accertato, pertanto, è la coincidenza delle condizioni contrattuali col testo di uno schema contrattuale che possa ritenersi espressivo della vietata intesa restrittiva, per cui il giudice deve valutare se le disposizioni convenute contrattualmente coincidano con le condizioni oggetto dell’intesa restrittiva. Con riferimento alle fideiussioni omnibus, laddove sia accertato che le clausole del contratto siano il frutto o, meglio, l’estrinsecazione di un’intesa illecita ex art. 2 l. n. 287/1990, può configurarsi, oltre al rimedio del risarcimento del danno, anche quello civilistico della nullità speciale, posta – attraverso le previsioni di cui agli artt. 101 del TFUE e all’art. 2, co. 2, della l. 287/90 – a presidio di un interesse pubblico e, in specie, dell’ordine pubblico economico; dunque, nullità ulteriore a quella che il sistema già conosceva. In tal senso depone la considerazione che siffatta forma di nullità ha una portata più ampia della nullità codicistica (art. 1418 c.c.) e delle altre nullità conosciute dall’ordinamento – come la nullità di protezione nei contratti del consumatore (c.d. secondo contratto), e la nullità nei rapporti tra imprese (c.d. terzo contratto) –, in quanto colpisce anche atti, o combinazione di atti avvinti da un nesso funzionale, non tutti riconducibili alle suindicate fattispecie di natura contrattuale. La ratio di tale speciale regime è tale da ravvisarsi nell’esigenza di salvaguardia dell’ordine pubblico economico, a presidio del quale sono state dettate le norme imperative nazionali ed europee antitrust. Il contratto tra imprenditore e utente finale costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante, mentre ragionando diversamente si giungerebbe a negare l’intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato. Le clausole del contratto di fideiussione omnibus conformi a quelle di cui allo schema ABI illecito, devono essere dichiarate nulle in virtù al principio di conservazione degli atti negoziali, costituente la regola nell’ordinamento, a meno che non risulti comprovata agli atti una diversa volontà delle parti, nel senso dell’essenzialità, per l’assetto degli interessi divisato, dalla parte del contratto colpita da nullità. Va, per contro, esclusa la nullità totale del contratto a valle, con specifico riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio. Ed invero, anche a prescindere dalle critiche mosse a siffatta impostazione – sotto i diversi profili dell’inconfigurabilità di un collegamento negoziale tra intesa e fideiussione, della non ravvisabilità di un vizio della causa o dell’oggetto, ecc.) –, è proprio la finalità perseguita dalla normativa antitrust ad escludere l’adeguatezza del rimedio in questione. Il provvedimento n. 55 del 2005, quale prova privilegiata relativa alla sussistenza dell’intesa anticoncorrenziale, non si estende né alla prova dell’esistenza del nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno patito, né alla prova del danno conseguenza, che resta rimessa all’onere probatorio di parte istante. Se il legislatore avesse voluto estendere l’efficacia della decisione dell’Autorità Garante anche alla prova del nesso di causalità e del danno lo avrebbe fatto espressamente. [ Continua ]
21 Agosto 2023

Sulla prova dell’assunzione del ruolo di amministratore di fatto

L’espletamento in via di fatto del ruolo di amministratore della società deve essere provato mediante fonti atte a dimostrare che il terzo abbia assunto decisioni per la gestione della società, senza rivestire alcun ruolo che lo legittimasse a tanto. Rientrano in tale ambito le decisioni attinenti alla gestione dei rapporti con i dipendenti, con i terzi fornitori, con i fruitori dell’attività svolta dalla società, con le banche o comunque con soggetti in relazione con la società per i suoi fini istituzionali. [ Continua ]
19 Agosto 2023

Responsabilità degli amministratori derivante dall’illegittima prosecuzione dell’attività di impresa

Il criterio che quantifica il danno da illegittima prosecuzione dell’attività d’impresa è quello della differenza tra il patrimonio netto calcolato alla data del fallimento e alla data in cui l’attività avrebbe dovuto cessare. Poiché il patrimonio dell’impresa costituisce la misura del soddisfacimento dei creditori fallimentari, infatti, la diminuzione di valore di detto patrimonio rappresenta un danno per i creditori, ma anche per la stessa società, privata della prospettiva del rientro in bonis, una volta pagati i creditori, quando residui un attivo; e ciò ferma restando la risarcibilità dei danni riconducibili a singole condotte, laddove non siano assorbiti dall’incremento del passivo altrimenti calcolato. Vanno comunque dedotti quei costi che sarebbero stati sostenuti anche nella fase di liquidazione, previa riclassificazione dei dati patrimoniali in prospettiva liquidatoria, ossia compiendo sui bilanci le operazioni necessarie a valorizzare il patrimonio non più come strumento funzionale alla produzione del reddito d’impresa, ma come insieme dei cespiti da liquidare per il soddisfacimento dei creditori.

Salvo prova contraria, i componenti del consiglio di amministrazione hanno i medesimi poteri decisori e pertanto, in assenza di un operoso dissenso di taluno di essi rispetto alla gestione sociale, va applicata la regola della solidale responsabilità dei componenti dell’organo amministrativo collegiale. In questo senso, la redazione o l’approvazione del bilancio sono indici esterni della consapevolezza della situazione patrimoniale della società in capo a tutti gli amministratori, i quali hanno il dovere di avere costante conoscenza della situazione economico-finanziaria e patrimoniale della società.

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Sul danno “in re ipsa” cagionato dalla perdita della “parità gestoria”

In caso di violazione di una clausola di prelazione contrattuale il danno derivante da perdita della “parità gestoria” può ritenersi “in re ipsa” poiché riconducibile ad un interesse giuridicamente rilevante del socio, consistente nella impossibilità oggettiva di conseguire l’esercizio di tutte le prerogative di partecipazione e gestione della società previste per legge e per statuto, prerogative che una partecipazione paritaria avrebbe procurato. Si tratta, in particolare, di diritti poteri e facoltà, insiti nella partecipazione paritaria del socio e che dunque ne corredano e definiscono il complessivo patrimonio, che, in sintesi, possono essere descritti come il potere del socio tanto di indirizzare le gestione della società, quanto di impedire decisioni rilevanti dell’amministratore o dell’assemblea senza il suo consenso. [ Continua ]
22 Gennaio 2024

L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità nella s.r.l., il dovere di agire informato e il nesso causale

L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità deve essere deliberato, anche nelle società a responsabilità limitata, dall’assemblea dei soci e la mancanza di tale presupposto, incidente sulla legittimazione processuale del rappresentante della società, può anche essere rilevata d’ufficio dal giudice. L’autorizzazione assembleare, dunque, si pone come requisito necessario per attribuire al legale rappresentante della società la legittimazione processuale e la volontà dei soci deve necessariamente essere espressa mediante una deliberazione da assumersi nell’assemblea in sede ordinaria, non essendo ammesse forme equipollenti. Anche l'amministratore di s.r.l. ha l’obbligo di agire in modo informato ai sensi dell’art. 2381, co. 6, c.c. dovendosi osservare, al riguardo, che tale obbligo si declina, da un lato, nel dovere di attivarsi, esercitando tutti i poteri connessi alla carica per conseguire al meglio l’oggetto sociale o per prevenire, eliminare o attenuare le situazioni di criticità aziendale di cui sia o debba essere a conoscenza, nonché, dall’altro lato, nell’obbligo di informarsi affinché tanto la scelta di agire quanto quella di non agire sia fondata sulla conoscenza della situazione aziendale. In tema di responsabilità degli amministratori, il riferimento al nesso causale tra la condotta e il danno conseguito è rilevante anche da un punto di vista oggettivo, in quanto consente, come regola generale, di limitare l’entità del risarcimento all’effettiva e diretta efficienza causale dell’inadempimento e quindi a porre a carico degli amministratori inadempienti solo il danno direttamente riconnesso alla loro condotta omissiva o commissiva. Difatti, in termini di ripartizione dell’onere probatorio, incombe sugli amministratori l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. L’analisi del nesso causale si definisce mediante un duplice giudizio, il primo diretto all’individuazione del fatto idoneo a fondare la responsabilità, e il secondo diretto, di contro, a determinare l’entità del danno cagionato, che costituisce l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. Ne consegue che, prima facie, il concetto di causalità viene in evidenza sotto un profilo meramente materiale o di fatto, essendo teso - analogamente a quanto previsto in ambito penale ai sensi degli artt. 40 e 41 c.p. - a descrivere l’evento lesivo, mentre sotto il secondo profilo la causalità deve essere riletta in chiave quantificatoria, come può desumersi dall’art. 1223 c.c. In tale seconda fase trova applicazione la teoria della causalità adeguata o regolarità causale che attribuisce rilievo, all'interno delle serie causali così individuate, a quelle che, nel momento in cui si produce l'evento, non appaiano del tutto inverosimili, su un giudizio formulato in termini ipotetici. Un evento è, quindi, da considerare cagionato da un altro se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cosiddetta teoria della condicio sine qua non), nonché (in virtù del criterio della cosiddetta causalità adeguata) dando rilievo, all'interno della serie causale, solo a quegli eventi che non appaiono - ad una valutazione ex ante - del tutto inverosimili. [ Continua ]
22 Gennaio 2024

La responsabilità del socio gestore di s.r.l.: l’intenzionalità dell’art. 2476, co. 8, c.c.

L’art. 2476, co. 8, c.c. estende la responsabilità degli amministratori ai soci che hanno intenzionalmente deciso o autorizzato il compimento di atti dannosi per la società, i soci o i terzi. La norma, letta congiuntamente alle disposizioni sulla responsabilità da abuso di direzione e coordinamento (artt. 2497 ss.), disciplina il fenomeno della eterogestione nelle società, costituendo il fondamento giuridico dell’ammissibilità della responsabilità dei cosiddetti gestori di fatto delle società di capitali. La responsabilità in commento è, tuttavia, limitata alla sola ipotesi del dolo, come emerge dalla necessità che il compimento dell'atto dannoso sia stato deciso o autorizzato “intenzionalmente”, dovendo, dunque, provarsi la sussistenza della consapevolezza dell’illiceità e della dannosità dell’atto. L'intenzionalità ai fini della responsabilità del socio gestore di s.r.l. è costituita dalla riferibilità psicologica dell'atto al socio: è sufficiente al proposito che vi sia la consapevolezza, frutto di conoscenza o di esigibile conoscibilità, da parte del socio, dell'antigiuridicità dell'atto; a tal riguardo quest'ultima viene a configurarsi non solo quando l'atto deciso è contrario alla legge o all'atto costitutivo della società, ma anche quando l'atto, pur se di per sé lecito, è esercitato in modo abusivo, cioè con una finalità non riconducibile allo scopo pratico posto a fondamento del contratto sociale. La responsabilità del socio come disciplinata ex art. 2476 c.c. ha un carattere tipico che non prevede equipollenti nell’ambito delle società azionarie. Invero, la circostanza che in materia di s.p.a. non è prevista una responsabilità dei soci è diretta conseguenza della mancanza di una norma simile a quella dell’art. 2479 c.c., che prevede la possibilità che gli statuti delle s.r.l. riservino poteri gestionali ai soci. Comunque, tale responsabilità sussisterebbe anche nell’ipotesi in cui, in assenza di un conferimento formale al socio di potere gestorio, questi abbia di fatto concorso nell’operazione intrapresa dall’amministratore, ovvero il socio abbia espresso la propria approvazione in termini autorizzativi, quindi ex ante. Ai fini della configurabilità della responsabilità ex art. 2476, co. 8, c.c. è richiesta una specifica connotazione soggettiva dell’agire del socio, il quale potrà essere coinvolto nella responsabilità degli amministratori solo con riferimento ad atti gestori dannosi decisi o autorizzati nella piena consapevolezza delle caratteristiche dell’atto e delle possibili conseguenze, non essendo invece sufficiente la mera volontà di intervenire nella gestione della società. Nonostante il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti fondamentali relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di società a responsabilità limitata, quali il grado di diligenza richiesta e l'obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell'incarico a richiedere che per l'amministratore di società a responsabilità limitata (secondo lo schema delle obbligazioni di mezzi) venga adottato l'approccio valutativo di cui agli artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c. [ Continua ]
23 Gennaio 2024

Sulle caratteristiche dell’attività di direzione e coordinamento e sulla legittimazione attiva della società eterodiretta ai sensi dell’art. 2497 c.c.

Per attività di direzione e coordinamento si intende la formulazione ed attuazione di regole organizzative secondo un progetto unitario, inteso quale manifestazione di volontà dell’ente dirigente. In particolare, la direzione unitaria non si esaurisce nel solo effettivo esercizio di influenza dominante ad opera di una società o di un ente su altra società: ciò che connota l’attività di direzione e coordinamento è l’accentramento presso gli organi gestori della controllante o delle holding intermedie di funzioni amministrative inerenti alle diverse entità aggregate, in modo da creare una struttura organizzativa intesa ad assicurare un processo di direzione unitario, articolato nella pianificazione e programmazione, nell’organizzazione, nel coordinamento e nella guida riconducibile ad un unico soggetto giuridico. L’attività di direzione e coordinamento è un quid pluris rispetto al controllo, in quanto manifestazione di un potere di ingerenza più intenso e pregnante, consistente nel flusso costante di istruzioni impartite dalla società controllante e trasposte all’interno delle decisioni assunte dagli organi della controllata, involgenti momenti significativi della vita della società quali le scelte imprenditoriali, il reperimento dei mezzi finanziari, le politiche di bilancio e la conclusione di contratti importanti. L’art 2497 c.c., nel mentre configura una responsabilità da abuso di direzione e coordinamento della società dirigente verso i soci e creditori della società controllata, finisce inevitabilmente per svolgere una funzione conformativa della fattispecie anche rispetto alla responsabilità della società dirigente verso il soggetto direttamente danneggiato, cioè la società controllata, la quale è legittimata ad agire ai sensi dell'art. 2497 c.c. [ Continua ]
18 Marzo 2023

Sindacabilità della determinazione del rapporto di concambio in caso di fusione

La determinazione del valore effettivo del patrimonio delle società partecipanti alla fusione può essere verificata in sede giudiziale, attraverso una consulenza tecnica d’ufficio mediante la quale il giudice non sostituisce il proprio metodo di valutazione a quello individuato dagli amministratori, ma ne verifica l’attendibilità in termini tecnici con riferimento alle caratteristiche delle società partecipanti all’operazione straordinaria e, conseguentemente, in relazione alla sua incidenza sulla determinazione del rapporto di cambio. Rispetto al valore effettivo dei patrimoni sociali, eventuali differenze nel concambio devono trovare giustificazione adeguata in termini economici. E’ pertanto ammissibile entro certi limiti il sindacato giurisdizionale, in quanto afferente al controllo di legittimità dell’operato dei soggetti coinvolti nel procedimento di fusione e non incidente su scelte di merito di esclusiva pertinenza dell’organo amministrativo. Il controllo del giudice sull’operato degli amministratori deve essere quindi ristretto nei limiti della ragionevolezza ed adeguatezza dei criteri seguiti ed ai casi in cui il rapporto di cambio sia stato determinato in modo arbitrario e non congruo o sulla base di dati incompleti o inveritieri. Nel procedimento diretto alla fusione o alla scissione gli amministratori ed i loro esperti effettuano senz’altro delle scelte discrezionali che, tuttavia, devono essere coerenti con i principi di diritto e della buona tecnica (di cui peraltro devono dare conto nella relazione), con strumenti e modalità idonee ad assicurare agli azionisti il diritto all’informazione funzionale all’esercizio del voto. Pertanto, il sindacato giurisdizionale, in quanto diretto a verificare il mancato rispetto dei canoni di ragionevolezza o congruità, non si sostituisce all’operato degli amministratori e ciò, a fortiori, nell’ipotesi prevista dall’art. 2504-quater c.c., ovvero allorquando sia intervenuta l’iscrizione delle delibere e dei relativi atti di fusione o scissione non più modificabili. Talché il sindacato risulta funzionale al solo accertamento di un pregiudizio che sia derivato ai soci da tale operato ed alla liquidazione del medesimo. Quando la determinazione del rapporto di concambio non soddisfa le regole tecniche della materia o le procedure (ovvero entrambe) che disciplinano i criteri da applicare ai fini della sua congruità giuridica ed economico-patrimoniale, e ciò nonostante l’assemblea ugualmente deliberi di approvare il progetto di fusione, deve essere affermata la responsabilità della società scaturente dall’operazione straordinaria. In tale contesto il presupposto del danno lamentato dai soci di una delle due società partecipanti alla fusione è il fatto che tale società viene sottovalutata rispetto al suo reale valore oppure l’altra è sopravvalutata. L’effetto che ne deriva è identico. Le azioni o le quote che vengono assegnate ai soci della società sottovalutata (o sì correttamente valutata, ma messa in relazione a una società sopravvalutata) rappresentano una partecipazione al capitale della società di nuova costituzione inferiore a quella che sarebbe spettata in conseguenza di una corretta valutazione. [ Continua ]
27 Maggio 2023

Sulla prova del danno cagionato dall’inadempimento a doveri negoziali

Al creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, è sufficiente provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, essendo il debitore convenuto gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa; tuttavia, rimane in capo a parte attrice l’onere di indicare la natura del danno sofferto, dando prova del nesso di causalità e dell’ammontare, costituito dall’avvenuto adempimento. In caso di mancata prova del danno emergente, la prova del lucro cessante può essere raggiunta guardando alla somma predeterminata negozialmente dalle parti quale garanzia a fronte degli impegni assunti, costituendo essa un parametro oggettivo cui poter ricorrere ai fini della quantificazione del danno da mancato guadagno: tale previsione, che certo non svolge la funzione tipica della clausola penale, può costituire un indice significativo e univoco del “valore” finale che le parti hanno attribuito all’affare. [ Continua ]