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Gabriele Azoti

Gabriele Azoti

Laureato in Giurisprudenza all'Università Bocconi con una tesi in diritto societario. Praticante avvocato presso lo studio legale Masotti Cassella.

25 Novembre 2024

I principi di riferimento per la redazione del bilancio

Le regole sulla formazione del bilancio sono previste agli artt. 2423 e ss. del Codice Civile, contenenti i principi di carattere generale; per quanto non espressamente disposto dalla disciplina codicistica, poi, sopperiscono i Principi Contabili emanati dalla Fondazione OIC (Organismo Italiano di Contabilità), che, ai sensi dell’art. 20 del D.L. 91 del 24.06.2014 (convertito con L. n. 116 del 11-08.2014), costituiscono gli standard di riferimento per la redazione dei bilanci redatti in base alle disposizioni del Codice Civile.

A completamento della disciplina codicistica sui crediti è inoltre dedicato il principio contabile OIC 15, che ha lo scopo di disciplinare i criteri per la rilevazione, classificazione e valutazione dei crediti, nonché le informazioni da presentare nella nota integrativa. Secondo quanto riportato nel suddetto principio contabile, i crediti rappresentano “diritti ad esigere, ad una scadenza individuata o individuabile, ammontari fissi o determinabili di disponibilità liquide, o di beni/servizi aventi un valore equivalente, da clienti o da altri soggetti”.

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Il corretto adempimento dei debiti tributari e previdenziali costituisce un dovere per l’amministratore di una società di capitali

Il corretto adempimento dei debiti tributari e previdenziali costituisce un dovere per l’amministratore di una società di capitali. In tale contesto, il danno derivante dal mancato adempimento non può essere parametrato all’entità dell’imposta o del contributo omesso, in quanto la società è tenuta comunque a sopportarne il costo. Il danno deve piuttosto essere commisurato all’entità delle sanzioni comminate dall’amministrazione finanziaria e agli interessi maturati successivamente alla scadenza del termine legalmente previsto, poiché tali esborsi sarebbero stati evitabili qualora gli amministratori, utilizzando l’ordinaria diligenza, avessero provveduto ad adempiere ai propri obblighi in modo regolare. La responsabilità degli amministratori, peraltro, è ravvisabile solo in presenza di una loro condotta colpevole, ciò presupponendo che questi – pur potendo provvedere al pagamento evitando il lievitare del debito – non lo avrebbero fatto senza giustificato motivo. [ Continua ]
11 Ottobre 2024

Sulla legittimazione a impugnare il bilancio per violazione dei principi di verità e chiarezza

Rientrano nel novero delle delibere nulle, in quanto aventi un oggetto illecito ex art. 2379 c.c., le delibere con cui risulta approvato un bilancio non conforme ai principi di cui all'art. 2423 c.c., ovvero in violazione di tutte le altre norme dettate in materia di bilancio. Trattasi, infatti, di norme imperative inderogabili, poste a tutela di interessi generali che trascendono i limiti della compagine sociale e riguardano anche i terzi, destinatari delle informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società. Non è, tuttavia, sufficiente per l’impugnante far valere un generico interesse al rispetto della legalità, laddove impugni per nullità una delibera assembleare, ma è necessaria l'allegazione di un'incidenza negativa nella sfera giuridica del soggetto agente delle irregolarità denunciate riguardo al risultato economico della gestione sociale. Pertanto, la qualità di socio non è requisito necessario, essendo legittimato qualsiasi soggetto, purché titolare di un interesse concreto ed attuale all'impugnativa, interesse che deve sussistere non solo al momento della proposizione della domanda, ma anche al momento della decisione. I singoli soci di s.r.l. possono volontariamente costituirsi nel giudizio di impugnazione di delibera assembleare, a mezzo di intervento che, dal lato attivo, va qualificato come adesivo autonomo (con la facoltà di coltivare il procedimento nei vari gradi di lite, anche in presenza di rinunzia o acquiescenza alla sentenza da parte dell'originario attore), ove essi siano dotati di autonoma legittimazione ad impugnare la delibera, per non essersi verificata nei loro confronti alcuna decadenza. Nell'ipotesi di inerzia degli amministratori nell'accertamento di scioglimento della società, l’art. 2485, co. 2, c.c. prevede che i singoli soci possano agire avanti al tribunale chiedendo l’emissione di un decreto in sede di volontaria giurisdizione o di una sentenza resa all’esito di cognizione piena, che accerti il verificarsi della causa di scioglimento, con obbligo di iscrizione al registro imprese. La legittimazione dei soci trova la sua giustificazione nell’interesse qualificato del socio all’avvio della procedura di liquidazione, anche per evitare le conseguenze dannose in capo alla società potenzialmente derivanti dalle omissioni dell’organo amministrativo. In tema di valutazione dei crediti, il criterio legale non attribuisce agli amministratori una discrezionalità assoluta, ma implica una valutazione fondata sulla situazione concreta, secondo principi di razionalità, con prudente apprezzamento della situazione economica e patrimoniale del debitore e della sua solvibilità: pertanto, anche i crediti liquidi ed esigibili, qualora siano di dubbia o difficile esazione non devono essere iscritti nel loro intero ammontare, bensì nella minore misura che - secondo un prudente apprezzamento - si presume di poter realizzare. [ Continua ]
11 Ottobre 2024

L’onere della prova in caso di inadempimento contrattuale

Ove l'azione esercitata concerna l'inadempimento contrattuale, l'attore è onerato di allegare non solo l'inadempimento in quanto tale, ma anche le specifiche circostanze che lo integrano, in caso contrario incorrendo nella violazione dell'onere di allegazione. L’inadempimento non deve essere allegato in modo generico, bensì deve consentire che il suo contenuto sia compiutamente identificato e percepito, affinché possa essere oggetto di accertamento, in fatto e in diritto. [ Continua ]
11 Ottobre 2024

Sospensione del giudizio civile ex art. 295 c.p.c. e rapporto con il giudizio penale

In base agli artt. 75 e 652 c.p.p. il rapporto tra giudizio penale e giudizio civile è improntato ai principi di autonomia e separazione e la regola generale è che il giudizio civile di danno debba essere sospeso soltanto allorché l'azione civile, ex art. 75 c.p.p., sia stata proposta dopo la costituzione di parte civile in sede penale o dopo la sentenza penale di primo grado, in quanto esclusivamente in tali casi si verifica una concreta interferenza del giudicato penale nel giudizio civile di danno, che pertanto non può pervenire anticipatamente ad un esito potenzialmente difforme da quello penale, in ordine alla sussistenza di uno o più dei comuni presupposti di fatto. Affinché detta regola possa trovare applicazione è, dunque, necessario che vi sia, non solo, una effettiva coincidenza per petitum e causa petendi tra le due azioni, ma, soprattutto, che vi sia identità di soggetti. Solo in siffatta ipotesi può, infatti, trovare applicazione la sospensione necessaria di cui all’art. 295 c.p.c. Sospensione necessaria che viene, altresì, in rilievo, in base a quanto dispongono gli artt. 654 c.p.p. e 211 disp. att. c.p.p., nell'ipotesi in cui alla commissione del reato oggetto dell'imputazione penale una norma di diritto sostanziale ricolleghi un effetto sul diritto oggetto di giudizio nel processo civile, e sempre a condizione che la sentenza che sia per essere pronunciata nel processo penale possa esplicare nel caso concreto efficacia di giudicato nel processo civile, il che presuppone necessariamente ai sensi dell’art. 2909 c.c. l’identità di soggetti. [ Continua ]

Responsabilità degli amministratori non esecutivi

Ai fini della decorrenza della prescrizione dell'azione sociale di responsabilità rileva non già il momento in cui il presupposto dell'azione prevista dall'art. 2394 c.c. è effettivamente conosciuto dai creditori sociali, ma il momento in cui il presupposto di quell'azione diviene da loro oggettivamente percepibile, con due precisazioni: in primo luogo, questo presupposto riguarda l'insufficienza della garanzia patrimoniale generica della società e non corrisponde perciò né allo stato d'insolvenza di cui all'art. 5 l.fall., né alla perdita integrale del capitale sociale; in secondo luogo, il momento in cui questo presupposto diviene oggettivamente conoscibile dai creditori sociali non coincide necessariamente con la dichiarazione di fallimento, ma può collocarsi tanto anteriormente quanto posteriormente ad essa. L'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti, rilevante ai fini del decorso della prescrizione quinquennale, può risultare dal bilancio sociale che costituisce, per la sua specifica funzione, il documento informativo principale sulla situazione della società non solo nei riguardi dei soci, ma anche dei creditori e dei terzi in genere. Sicché spetta al giudice di merito, con un apprezzamento in fatto insindacabile in cassazione, accertare se la relazione dei sindaci al bilancio che abbia evidenziato l'inadeguatezza della valutazione di alcune voci - a fronte della quale l'assemblea abbia comunque deliberato la distribuzione di utili ai soci, senza rilievi da parte degli organi di controllo -, sia idonea a integrare di per sé l'elemento della oggettiva percepibilità per i creditori circa la falsità dei risultati attestati dal bilancio sociale. In tema di responsabilità degli amministratori, l’assenza di delega non esonera di per sé da responsabilità, poiché sugli amministratori grava l’obbligo di verificare e controllare il corretto esercizio della delega conferita ad altri. Di fatti, ai sensi dell’art. 2381, co. 3, c.c., i componenti del CdA deleganti sono comunque tenuti a valutare l’operato dei delegati, richiedere informazioni, impartire direttive, avocare a sé il compimento di atti, tutti doveri che si riflettono nella responsabilità solidale degli amministratori, prevista dall’art. 2392, co. 2, c.c. nel caso in cui pur essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno adottato le misure idonee a impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose. La responsabilità dell'amministratore non esecutivo si configura come condotta omissiva colposa, laddove la colpa può consistere, in primo luogo, in un difetto di conoscenza, per non avere rilevato colposamente l'altrui illecita gestione: non è decisivo che nulla traspaia da formali relazioni del comitato esecutivo o degli amministratori delegati, né dalla loro presenza in consiglio, perché l'obbligo di vigilanza impone, ancor prima, la ricerca di adeguate informazioni, non essendo esonerato da responsabilità l'amministratore che abbia accolto il deficit informativo passivamente. Pertanto, si può parlare di colpa in capo all'amministratore nel non rilevare i cd. segnali d'allarme, individuabili anche nella soggezione all'altrui gestione personalistica. L'amministratore non esecutivo non risponde in modo automatico per ogni fatto dannoso aziendale in ragione della mera posizione di garanzia, ma risponde per una propria condotta omissiva consistente nel mancato esercizio dei poteri impeditivi che l’ordinamento gli riconosce, quali, ad esempio, le richieste di convocazione del consiglio di amministrazione, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima o all'impugnazione della deliberazione viziata, l'attivazione ai fini all'avocazione dei poteri, gli inviti ai delegati di desistere dall'attività dannosa, la denunzia alla pubblica autorità, con informazione al p.m. ai fini della richiesta ex art. 2409 c.c., nella formulazione ante riforma. Nel caso di responsabilità dell'amministratore per omesso versamento di imposte, il danno risarcibile non coincide con le imposte non versate, che, siccome dovute, rappresentano un debito titolato, che non diventa danno solo per il fatto di essere rimasto inadempiuto, ma è pari all’importo delle sanzioni, spese esecutive e aggi, che non sarebbero stati applicati se l’amministratore avesse ottemperato tempestivamente all’obbligo di versamento delle imposte. In tema di responsabilità dei sindaci, la configurabilità dell'inosservanza del dovere di vigilanza imposto ai sindaci dall'art. 2407, co. 2, c.c. non richiede l'individuazione di specifici comportamenti che si pongano espressamente in contrasto con tale dovere, ma è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o comunque non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità, così da non assolvere l'incarico con diligenza, correttezza e buona fede, eventualmente anche segnalando all'assemblea le irregolarità di gestione riscontrate ovvero denunciandole al tribunale, ai sensi dell'art. 2409 c.c. [ Continua ]

Dies a quo di decorrenza della prescrizione dell’azione di responsabilità esercitata dal curatore

L'azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146, co. 2, l.fall. cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, in relazione alle quali assume contenuto inscindibile e connotazione autonoma, quale strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia degli stessi soci che dei creditori sociali, implicandone una modifica della legittimazione attiva, ma non dei presupposti. Sicché, dipendendo da rapporti che si trovano già nel patrimonio dell'impresa al momento dell'apertura della procedura concorsuale a suo carico, e che si pongono con questa in relazione di mera occasionalità, non riguarda la formazione dello stato passivo e non è attratta alla competenza funzionale del tribunale fallimentare ex art. 24 l.fall., restando soggetta a quella del tribunale delle imprese, ex art. 3, co. 2, del d.lgs. n. 168 del 2003, propria di tutte le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, da chiunque promosse. Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., anche se esercitate cumulativamente ai sensi dell'art. 146 l.fall., debbono considerarsi distinte, perché basate su presupposti differenti e soggette a diverso regime giuridico, con particolare riferimento al calcolo dei termini per la prescrizione. Infatti, le due azioni di responsabilità si prescrivono nel termine di cinque anni ex art. 2949 c.c.; tuttavia, la decorrenza del termine varia a seconda del profilo di responsabilità azionato dal curatore. Se il curatore agisce per far valere la responsabilità dei componenti degli organi sociali nei confronti della società ai sensi dell'art. 2393 c.c., il termine decorre da quando è cessata la carica prima del fallimento o da quando il fallimento è stato dichiarato, se il soggetto passivo dell'azione di responsabilità sia in carica in quel momento, in forza della causa di sospensione di cui all'art. 2941, n. 7, c.c. Se il curatore esercita invece l'azione di responsabilità dei creditori sociali ex art. 2394 c.c., il termine di prescrizione decorra dalla conoscibilità esteriore dell'incapienza patrimoniale e quindi dell'insufficienza dell'attivo sociale a soddisfare i debiti, in forza del dato normativo letterale secondo cui l'insufficienza patrimoniale deve comunque "risultare", il che può avvenire prima, dopo o al momento del fallimento. In considerazione dell'onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando pertanto all'amministratore che sollevi la relativa eccezione fornire la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale. La prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio, decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, o dalla cessazione dalla carica, bensì dal momento dell'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti e, per meglio dire, dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza di tale insufficienza. Tale incapacità, consistente nella eccedenza delle passività sulle attività, non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale (che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo) né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento. [ Continua ]
22 Aprile 2024

Sulla revoca in assenza di giusta causa dell’amministratore

Il rapporto intercorrente tra la società di capitali e il suo amministratore è di immedesimazione organica e a esso non si applicano né l'art. 36 cost., né l'art. 409, co. 1, n. 3, c.p.c. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni. La rinuncia al compenso da parte dell'amministratore può trovare espressione in un comportamento concludente del titolare che riveli in modo univoco una sua volontà dismissiva del relativo diritto. Le norme di cui agli artt. 2383, co. 3, e 1725, co. 2, c.c., riferite al rapporto societario di amministrazione, sono derogabili, sia perché hanno ad oggetto rapporti puramente patrimoniali, sia perché non hanno riflessi né su diritti di terzi né su aspetti concernenti la struttura corporativa dell’ente. Non sussistono, dunque, motivi per ritenere non disponibile per via statutaria la disciplina delle conseguenze della cessazione del rapporto amministrativo per effetto di revoca. Il diritto al risarcimento dell’amministratore revocato in assenza di giusta causa sorge a seguito di un atto giusto della società amministrata – configurandosi la revoca dell’amministratore quale diritto potestativo, salvo il caso estremo dell’abuso – talché esso è più propriamente qualificabile in termini di diritto a un indennizzo, avendo l'art. 2383, co. 3, c.c. utilizzato il sintagma “risarcimento del danno” per assicurare all’amministratore avente diritto il pieno ristoro del pregiudizio subito piuttosto che per affermarne la derivazione da fatto ingiusto. Sul piano più propriamente organizzativo / corporativo si può riconoscere meritevole di tutela l’interesse della società a estendere al massimo, per via statutaria, il proprio diritto potestativo di revoca, negando accesso, a fronte della decisione di revoca, a valutazioni o pretese di sorta circa il fondamento di quella decisione, nonché alle correlative controversie. Il pregiudizio ai diritti della persona (onore, reputazione, identità personale, ecc.) subito dall’amministratore revocato in assenza di giusta causa è distinto da quello derivante dalla lesione del diritto alla prosecuzione della carica sino a naturale scadenza. Il danno ulteriore ai diritti della persona si può verificare allorché, ad esempio, eventuali dichiarazioni contenute rese in occasione della revoca costituiscano un’attività ingiuriosa o diffamatoria, animata da colpa o da dolo, posta in essere dalla società, lesiva del prestigio professionale dell’amministratore; oppure quando le concrete modalità della cessazione del rapporto, esterne alla deliberazione, si palesino contra ius. Tuttavia, di tali ulteriori e diversi danni l’amministratore deve offrire puntuale allegazione. Tale puntuale allegazione dovrebbe estrinsecarsi, da un lato, nell’individuazione del diritto leso e, dall’altro, nella chiara e specifica allegazione delle dichiarazioni/deliberazioni o comportamenti lesivi di quei diritti. [ Continua ]
22 Aprile 2024

Finanziamenti infragruppo postergati e responsabilità di amministratori e sindaci

Nella situazione in cui la holding, operando già a patrimonio netto negativo e quindi in modo tale da traslare sui propri creditori il rischio delle sue nuove iniziative imprenditoriali, esegue finanziamenti nei confronti di una società controllata operativa a sua volta sull’orlo dell’insolvenza non sono configurabili i cc.dd. vantaggi compensativi che presuppongono l’operatività secondo criteri di economicità di tutte le società del gruppo in modo tale che l’impiego delle risorse a favore di una controllata sia effettivamente compensato nel patrimonio della controllante dal risalire dei proventi dell’attività della controllata operativa in misura tale da assicurare il soddisfacimento anche del suo ceto creditorio. Non valgono, quindi, a configurare vantaggi compensativi per la massa dei creditori della holding che opera a patrimonio netto negativo né la destinazione del finanziamento alla riduzione del passivo della controllata di cui hanno beneficiato solo i suoi creditori, né la liberazione dalle garanzie prestate tramite un’altra società controllata di cui si è avvantaggiata semmai solo la massa dei creditori della controllata garante. L’art. 2467 c.c. si applica anche ai finanziamenti eseguiti dai soci amministratori di società per azioni. [ Continua ]
25 Giugno 2024

La domanda implicita di risoluzione del contratto

La domanda di risoluzione del contratto sulla base di una clausola risolutiva espressa è diversa da quella di risoluzione del contratto per grave inadempimento: sia quanto al petitum, perché invocando la risoluzione ai sensi dell'articolo 1453 c.c., si chiede una sentenza costitutiva mentre la domanda di cui all'articolo 1456 c.c. ne postula una dichiarativa; sia relativamente alla causa petendi, perché nella ordinaria domanda di risoluzione, ai sensi dell'articolo 1453 c.c., il fatto costitutivo è l'inadempimento grave e colpevole, nell'altra, viceversa, la violazione della clausola risolutiva espressa. In tema di inadempimento contrattuale, mentre nella proposizione di una domanda di risoluzione di diritto per l'inosservanza di una diffida ad adempiere può ritenersi implicita, in quanto di contenuto minore, anche quella di risoluzione giudiziale di cui all'art. 1453 c.c., non altrettanto può dirsi nell'ipotesi inversa, nella quale sia stata proposta soltanto quest'ultima domanda, restando precluso l'esame di quella di risoluzione di diritto, a meno che i fatti che la sostanziano siano stati allegati in funzione di un proprio effetto risolutivo. La volontà di risolvere un contratto di compravendita per inadempimento non deve necessariamente risultare da una domanda espressamente proposta dalle parti in giudizio, ben potendo essere implicitamente contenuta in un'altra domanda, eccezione o richiesta, sia pure di diverso contenuto, che presupponga la domanda di risoluzione. Ciò in quanto il giudice del merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto a uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali esse sono contenute, ma deve, per converso, avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. [ Continua ]