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Art. 1375 c.c.
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7 Marzo 2023

Limitazioni al diritto del socio a consultare i libri sociali

Il diritto a consultare i libri sociali e i documenti relativi all’amministrazione ex art. 2476 c.c. è riconosciuto, in analogia con quanto disposto dall’art. 2261 c.c., a qualunque socio non amministratore di una s.r.l., indipendentemente dalla consistenza della partecipazione di cui risulti titolare. Il diritto potestativo in questione soffre solo di una limitazione strettamente legata al principio di buona fede ex art. 1375 c.c., che vieta di esercitare il diritto per scopi estranei al controllo di gestione della società. I soci non possono esercitare i propri diritti di controllo con  modalità tali da recare intralcio alla gestione societaria ovvero da svantaggiare la società nei rapporti con imprese concorrenti: una scelta puramente emulativa o vessatoria o antisociale di tempi e modi dei diritti di controllo farebbe, infatti, esorbitare questi ultimi dallo scopo per cui sono stati concessi dall’ordinamento ai soci stessi.

Deve ritenersi consentito limitare il diritto alla consultazione della documentazione sociale e alla estrazione di copia attraverso l’accorgimento del mascheramento preventivo dei “dati sensibili” presenti nella documentazione, quali, ad esempio, i dati relativi ai nominativi di clienti e fornitori, laddove le esigenze di controllo individuale della gestione sociale – cui è preordinato il diritto del socio ex art. 2476 c.c. secondo comma – si contrappongano a non pretestuose esigenze di riservatezza fatte valere dalla società, tra cui rientra sicuramente la necessità di mantenere la riservatezza su dati e informazioni che il socio, anche involontariamente, potrebbe diffondere nell’ambito familiare avente interessi imprenditoriali contrastanti.

27 Gennaio 2023

Principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale

Secondo quanto previsto dall’art. 1375 c.c. il contratto sociale deve essere eseguito in buona fede e, pertanto, tutte le determinazioni e decisioni dei soci devono essere valutate nell’ottica della tendenziale migliore attuazione del contratto sociale, dovendosi, perciò, considerare antigiuridico anche un atto che in concreto si presenti come espressione dell’inosservanza dell’obbligo di fedeltà allo scopo sociale e/o del dovere di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale.

Ai fini dell’accertamento della condotta del socio contraria ai principi di cui all’art. 1375 c.c. è necessario provare in concreto il pregiudizio patrimoniale effettivamente patito dalla società e la correlazione eziologica tra la condotta inadempiente del socio ed il danno patrimoniale sociale che viene ritenuto imputabile a tale condotta.

Il disposto dell’art. 2697 c.c. si applica anche al giudizio di cognizione che si apre in conseguenza dell’opposizione ex art. 645 ss. c.p.c. e, pertanto, anche in seno a tale procedimento, il creditore è tenuto a provare i fatti costitutivi della pretesa – cioè l’esistenza ed il contenuto della fonte negoziale o legale del credito e, se previsto, il termine di scadenza – mentre il debitore ha l’onere di eccepire e dimostrare il fatto estintivo del diritto, costituito dall’avvenuto adempimento, ovvero ogni altra circostanza dedotta al fine di contestare il titolo posto a base della pretesa avversa o gli eventi modificativi del credito azionato in sede monitoria.

Dal disposto dell’art. 2697 c.c. si desume il principio della presunzione della persistenza del credito, in forza del quale, ove il creditore dia la prova della fonte negoziale o legale della propria pretesa, la persistenza del credito si presume ed è, perciò, onere del debitore provare di aver provveduto alla relativa estinzione o dimostrare gli altri atti o fatti allegati come eventi modificativi o estintivi del credito vantato da parte avversa.

La domanda di ripetizione delle somme da corrispondersi in forza della provvisoria esecutività del decreto ingiuntivo opposto deve ritenersi implicitamente contenuta nell’istanza di revoca del decreto stesso, senza necessità di esplicita richiesta della parte, atteso che l’azione di restituzione non si inquadra nella condictio indebiti, sia perché si ricollega ad una specifica ed autonoma esigenza di restaurazione della situazione patrimoniale antecedente, sia perché in tal caso (come in quello di ripetizione di somme pagate in esecuzione di una sentenza di appello, o di una sentenza di primo grado provvisoriamente esecutiva, riformata in appello) il comportamento dell’accipiens non si presta a valutazioni di buona fede o mala fede, ai sensi dell’art. 2033 c.c., non potendo venire in rilievo stati soggettivi rispetto a prestazioni eseguite e ricevute nella comune consapevolezza della rescindibilità del titolo e della provvisorietà di suoi effetti.

18 Gennaio 2023

Abuso di maggioranza e invalidità della delibera di approvazione del bilancio

L’abuso di maggioranza integra una violazione della clausola generale di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale, che trova fondamento negli artt. 1175 e 1375 c.c., sull’assunto che le delibere assembleari costituiscano fondamentali momenti esecutivi del contratto di società. Tali norme impongono che i soci informino il proprio operato ai suddetti principi imponendo un impegno di cooperazione in base al quale ciascun socio deve tenere condotte idonee a soddisfare le legittime aspettative degli altri membri della compagine societaria.

Tale fattispecie rappresenta l’unica ipotesi in cui il giudice esercita non un controllo di mera legittimità, ma un vero e proprio sindacato nel merito della delibera societaria: infatti, non si configura formalmente una violazione di legge, ma una strumentalizzazione del principio di maggioranza a danno degli interessi della minoranza.

L’abuso di maggioranza è idoneo a determinare l’invalidità della delibera assembleare laddove quest’ultima non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché tesa al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico a quello sociale oppure perché espressione di un’attività fraudolenta dei soci di maggioranza, preordinata a ledere i diritti di partecipazione e i diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.

Il discrimen tra la legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario e l’abuso di detto principio, tale da rendere arbitrario e ingiustificato il voto apparentemente vincolante, è la ricorrenza di un superiore interesse sociale, che rende giustificato il pregiudizio sopportato dalla minoranza.

Grava sul socio impugnante l’onere di provare che alla base della decisione della maggioranza non vi fosse alcun interesse sociale e che alcun vantaggio per la società potesse derivarne.

Il socio ha diritto ad agire per l’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio solo quando egli possa essere in concreto indotto in errore dall’inesatta informazione fornita sulla consistenza patrimoniale e sull’efficienza economica della società, ovvero quando per l’alterazione o incompletezza dell’esposizione dei dati derivi o possa derivare un pregiudizio di ordine patrimoniale. La delibera di approvazione del bilancio è nulla allorché le violazioni civilistiche commesse comportino una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche ogni qual volta dal bilancio e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni previste dalla legge per ciascuna delle singole poste iscritte.

Nell’impugnazione di una delibera di approvazione del bilancio, il socio deve assumere di aver subito un pregiudizio a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più poste contabili ed è onerato della indicazione di quali siano esattamente le poste iscritte in violazione dei principi legali vigenti, spettando poi al giudice, nel giudizio sulla fondatezza della domanda, logicamente successivo al vaglio del preliminare interesse della parte all’impugnazione, esaminare le singole poste e verificarne la conformità ai precetti legali.

L’azione sociale mira a far valere la responsabilità degli amministratori per le violazioni dei loro doveri, che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Essa ha natura contrattuale, originando dall’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo ovvero dall’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza e di intervento preventivo e successivo; obblighi tutti che vengono a gravare sugli amministratori in forza del mandato loro conferito e del rapporto che, per effetto della preposizione gestoria e del susseguente inserimento nell’organizzazione sociale, si instaura con la società.

Di conseguenza, in termini di riparto dell’onere della prova, grava sulla parte che agisce l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi (che costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato), i pregiudizi concretamente sofferti dalla società e il nesso eziologico tra l’inadempimento e il danno prospettato. Per converso, incombe sull’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico.

Sui singoli soci che si assumono direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori incombe l’onere di provare la condotta illecita, anche sotto il profilo della colpevolezza, il danno e il nesso causale.

17 Gennaio 2023

Legittimazione attiva all’impugnazione e abuso della maggioranza nella deliberazione assembleare di azzeramento e ricostituzione del capitale sociale

La perdita della qualità di socio, nelle ipotesi in cui essa rappresenta corollario diretto dell’adozione della delibera assembleare di azzeramento e di ricostituzione del capitale sociale che l’impugnante assume illegittima, non esclude la legittimazione ad esperire le azioni di annullamento e di nullità in relazione alla medesima deliberazione assembleare (nello stesso senso, nella giurisprudenza di merito, cfr. Trib. Palermo, 13 aprile 2016, n. 2378; Trib. Torino, 15 novembre 2013).

L’abuso della maggioranza, suscettibile di integrare una causa di annullabilità della delibera assembleare, ricorre quando la maggioranza vota una deliberazione che, senza soddisfare un legittimo interesse apprezzabile sul piano societario della società stessa o del socio di maggioranza, danneggia il socio di minoranza (cfr. fra le tante, Trib. Milano, 23 aprile 2019, n. 4030; Trib. Milano, 7 giugno 2018; Trib. Roma, 30 aprile 2018, n. 8581). L’elemento di discrimine tra legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario ed abuso di detto principio, tale da rendere arbitrario e ingiustificato il voto apparentemente vincolante, è la ricorrenza dell’interesse sociale: ove nel voto espresso dalla maggioranza non si possa individuare alcun interesse sociale, il pregiudizio sopportato dalla minoranza potrà considerarsi arbitrario ed ingiustificato, diversamente dal caso in cui il sacrificio della minoranza sia giustificato dal superiore interesse sociale.

Ai fini della decisione sull’impugnazione della delibera risulta del tutto irrilevante la prospettata violazione di un patto parasociale da parte del socio di maggioranza, in quanto tale patto resta esterno alla società e non può sortire ripercussione alcuna sulla validità di atti societari, quali sono le delibere.

29 Novembre 2022

L’impatto della pandemia sul contratto preliminare di cessione di quote: l’integrazione del contratto, la presupposizione e l’eccessiva onerosità sopravvenuta

La pandemia può ritenersi costituire un evento imprevedibile e ingovernabile che, andando a cadere sulla esecuzione di contratti di durata o a esecuzione differita, anche quando non giunga a rendere in concreto definitivamente impossibile una prestazione ancora da eseguire, può comunque rovesciare il terreno fattuale e l’assetto giuridico-economico su cui si è eretta la pattuizione negoziale. Lo strumento risolutorio di cui all’art. 1467 c.c. risulta inadeguato a dare risposta alle esigenze delle parti e occorre, pertanto, indagare sulla possibilità di intervenire sul contenuto del contratto, che, salvi i casi previsti dalla legge o dalle parti stesse, le vincola irrevocabilmente (art. 1372 c.c.).

Va individuo nel disposto dell’art. 1374 c.c. lo strumento utile a permettere la conservazione del contratto, a condizioni mutate, rispettando il bilanciamento degli interessi delle parti in linea con i loro originari intenti, ma alla luce delle mutate condizioni. In particolare, poiché ex art. 1374 c.c. il contratto obbliga le parti, oltre che a quanto espressamente previsto nel contratto, anche alle prestazioni che sono dovute secondo buona fede, fra queste deve includersi anche il prestarsi, ove l’equilibrio del sinallagma originariamente trasfuso nel contratto sia aggredito e stravolto dalla pandemia o dalle sue conseguenze, ad una rinegoziazione effettiva delle clausole, la quale possa portare ad una congrua modificazione del contratto: sì che la parte che si sottragga ad una tale rinegoziazione deve dirsi inadempiente. Ciò non comporta comunque l’obbligo di perfezionare una modificazione del contratto, ma solo quello di tentare in buona fede di riequilibrarlo in una onesta trattativa. Il giudice, qualora gli venisse richiesto ex art. 2932 c.c., può intervenire a determinare il riequilibrio del contratto, ma solo in limiti ben determinati. Il giudice, infatti, non è mai chiamato ad esercitare una supervisione o correzione della volontà delle parti che hanno stipulato il contratto, ma può giungere alla ridefinizione del sinallagma solo ancorandosi al regolamento negoziale stesso e avendo come fondamento centrale della sua valutazione il contenuto della trattativa che le parti avevano condotto prima che il processo di rinegoziazione si interrompesse.

In materia di contratti, si ha presupposizione quando una determinata situazione di fatto o di diritto – comune ad entrambi i contraenti ed avente carattere certo e obiettivo – sia stata elevata dai contraenti stessi a presupposto condizionante il negozio, in modo tale da assurgere a fondamento, pur in mancanza di un espresso riferimento, dell’esistenza ed efficacia del contratto. La materia della presupposizione attiene dunque in primo luogo alla esistenza ed efficacia del contratto, anche se non è escluso che fatti presupposti comuni e obiettivi possano rilevare nella valutazione ex art. 1374 c.c. e, dunque, nella valutazione di inadempimento, quando il presupposto comune sia tale da chiarire l’ambito delle prestazioni dovute secondo il contratto.

Poiché il bene di cui si tratta è un bene il cui valore si stima non solo nel presente ma anche e soprattutto in prospettiva futura, la pretesa di ottenere la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta di un contratto preliminare di cessione di quote, che poggi sulla allegazione delle difficoltà incontrate dalla società bersaglio, richiede una allegazione che sia specifica e conduca alla prova che la società bersaglio versi, per effetti di fatti sopravvenuti e imprevedibili, non già in una situazione di contingente contrazione di fatturati, o altra difficoltà, ma in una situazione che prevedibilmente inibisca le proiezioni verso il futuro che erano formulabili quando l’accordo di acquisto fu concluso.

2 Settembre 2022

Abuso di maggioranza ed esercizio dei diritti sociali relativi a una partecipazione conferita in trust

L’abuso del diritto della maggioranza dei soci si sostanzia in una lesione del diritto del socio di minoranza, in violazione del canone di correttezza e buona fede, che impone la salvaguardia nell’interesse comune della società. In particolare, l’abuso di potere è causa di annullamento delle deliberazioni assembleari quando la deliberazione: (i) non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società; deve pertanto trattarsi di una deviazione dell’atto dallo scopo economico-pratico del contratto di società, per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico rispetto a quello sociale; (ii) sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci di maggioranza diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli poiché è rivolta al conseguimento di interesse extrasociali. Della prova della sussistenza dell’eccesso di potere è onerata, ex art. 2697 c.c., la parte che, deducendo tale vizio, assume l’illegittimità della deliberazione. L’annullabilità della delibera assembleare per abuso di maggioranza costituisce l’unica ipotesi in cui il giudice può procedere ad un esame nel merito della deliberazione assembleare e non di mera legalità formale.

L’invalidità della delega conferita da un socio a un proprio rappresentante per il voto in un’assemblea di s.r.l. si risolve in un motivo di annullamento della deliberazione qualora il voto espresso dal non legittimato sia stato determinante.

Nell’eventualità di impugnazione di delibera assembleare, incombe sulla società l’onere di provare che tutti i soci siano stati tempestivamente avvisati della convocazione; tale prova può essere fornita anche tramite presunzioni.

Il trust non è un ente dotato di personalità giuridica, ma un insieme di beni e rapporti destinati ad un fine determinato, nell’interesse di uno o più beneficiari, e formalmente intestati al trustee, il quale, pertanto, disponendo in via esclusiva dei diritti conferiti nel patrimonio vincolato, è l’unico soggetto legittimato a farli valere nei rapporti con i terzi, anche in giudizio. Ne consegue che, nell’ipotesi di partecipazione sociale conferita in trust, il suo trustee è l’unico soggetto legittimato all’esercizio dei relativi diritti sociali.

16 Giugno 2022

Il diritto di recesso nelle s.r.l.: ipotesi legali e termine per l’esercizio

Le ipotesi legali di recesso dei soci di s.r.l., previste dall’art. 2473 c.c., sono da considerarsi inderogabili e non sopprimibili dall’autonomia privata.

L’introduzione all’interno dello statuto sociale di una previsione che imponga la gratuità di tutti i finanziamenti concessi dai soci in occasione di un eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto societario costituisce un’ipotesi di mutamento significativo dell’oggetto e delle norme di funzionamento societario e, pertanto, legittima il recesso ex art. 2473 c.c.

Legittima altresì il recesso ex art. 2473, comma 2, c.c. una modifica statutaria che renda la durata della società superiore alla vita media di un essere umano. Il parametro della vita media deve valutarsi, caso per caso, in considerazione dell’età anagrafica del socio interessato a recedere.

Quanto ai termini e alle modalità per l’esercizio del recesso, l’art. 2473 c.c. non detta regole precise in merito e la relativa regolamentazione deve, pertanto, intendersi rimessa all’autonomia statutaria.
In assenza di una specifica disciplina statutaria, non possono applicarsi in via analogica le disposizioni dettate in materia di società per azioni, poiché la disciplina del recesso nell’ambito delle s.r.l., quanto a presupposti e finalità, non risponde alla medesima ratio del recesso nelle s.p.a.

Di conseguenza, nel caso in cui lo statuto non determini i tempi per l’esercizio del recesso, non si dovrà fare riferimento al termine di 15 giorni indicato dall’art. 2437-bis c.c. in materia di s.p.a., ma ai principi di diritto comune, riguardanti l’interpretazione e l’esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c.

Ne deriva che il termine per l’esercizio del recesso dovrà essere determinato in base al caso concreto. Il giudice di merito dovrà valutare di volta in volta le concrete modalità del suo esercizio e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti [nel caso di specie, è stato ritenuto tempestivo il recesso esercitato entro 30 giorni dalla data in cui il socio è venuto a conoscenza della delibera che legittima il recesso].

30 Marzo 2022

Assemblea totalitaria e abuso di maggioranza

Nel caso di mancata convocazione dell’assemblea, l’art. 2379 bis c.c. preclude al socio che, pur non essendovi convocato, abbia partecipato e ne abbia consentito lo svolgimento, di impugnare la delibera esitata dall’assemblea. In altre parole, per quell’ipotesi di totale compromissione del diritto d’informazione del socio, cui la convocazione è preordinata, in omaggio al principio generale immanente nel sistema del diritto societario – di garantire, il più possibile, la stabilità delle decisioni assembleari – il legislatore ha inteso prevedere un’ipotesi di nullità sanabile.

Di fronte a un’assemblea totalitaria, l’accertamento della presenza dell’intero capitale sociale e della maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo esclude la rilevanza della mancanza delle formalità previste per la convocazione, il cui astratto rilievo officioso rimane neutralizzato. Tale assemblea ha competenza generale, senza che rilevi l’eventuale violazione delle norme che disciplinano la convocazione.

La disciplina dell’assemblea totalitaria contenuta al comma 4 dell’art. 2366 c.c. è da ritenersi applicabile anche alle assemblee di s.r.l.

L’esecuzione del contratto di società deve essere improntata ai ben noti canoni di correttezza e buona fede e l’abuso di maggioranza (c.d. abuso, o eccesso, di potere) può condurre all’annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando le stesse non trovino alcuna giustificazione nell’interesse sociale – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.

Nel nostro ordinamento non esiste una norma che identifichi espressamente la figura dell’abuso di potere nelle deliberazioni assembleari, anche se, da tempo, si ammette l’esistenza di tale fattispecie, riferendola alle ipotesi di applicazione non corretta del principio maggioritario; più precisamente, tale figura giuridica non tipizzata si estrinseca nell’esercizio del diritto di voto da parte del socio di maggioranza a danno degli altri soci, tramite l’adozione di una delibera assembleare lesiva degli interessi della minoranza, ovvero, in alternativa, in contrasto con l’interesse sociale.

Il cosiddetto abuso della regola di maggioranza costituisce una species del ben più ampio genus dell’abuso del diritto, al quale si riconducono tutte quelle ipotesi in cui un comportamento, che formalmente rappresenta l’esercizio di un diritto soggettivo, è sprovvisto di tutela giuridica o comunque illecito in quanto svolto in violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, le quali sono di applicazione generale a tutti i rapporti giuridici obbligatori e, tra questi, anche a quelli derivanti dal contratto di società. Sussiste, infatti, la figura dell’abuso quando la decisione dell’assemblea risulta arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci di maggioranza allo scopo di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante.

15 Dicembre 2021

Abuso di dipendenza economica e responsabilità da direzione e coordinamento. Danno diretto e danno riflesso

La disciplina ex art. 2497 c.c. è specificatamente volta alla tutela dei soci di minoranza di società eterodirette, l’abuso nei confronti delle quali da parte della controllante si sia risolto in un pregiudizio al patrimonio dell’eterodiretta, comportante anche una diminuzione del valore della partecipazione dei soci di minoranza, i quali, in questa peculiare situazione, sono legittimati dalla norma a far valere, contrariamente alla regola generale, un proprio danno riflesso, non essendo plausibile, data la situazione di direzione e coordinamento esistente, che il danno diretto subito dal patrimonio della eterodiretta sia oggetto esso stesso di azioni risarcitorie e quindi potendosi escludere una duplicazione risarcitoria.

Proprio in relazione a tale finalità della disciplina, la responsabilità della società esercente attività di direzione e coordinamento viene quindi esclusa dall’ultima parte del primo comma dell’art. 2497 c.c. nel caso in cui il danno risulti mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero sia integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette. Tale esclusione deve essere estesa, secondo la ratio della norma, anche all’ipotesi in cui il pregiudizio subito direttamente dalla società eterodiretta sia stato azionato da quest’ultima, poiché l’accoglimento sia della pretesa azionata dalla società eterodiretta sia di quella azionata dai soci della stessa verrebbe a rappresentare una duplicazione delle poste risarcitorie.

Qualora una società di capitali subisca un danno per effetto dell’illecito commesso da un terzo, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non una conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

La partecipazione sociale in una società di capitali costituisce un bene giuridicamente distinto e autonomo dal patrimonio sociale, come tale inidoneo a venire direttamente danneggiato da vicende legate all’inadempimento contrattuale di un terzo nei confronti della società, attesa la natura meramente riflessa che il pregiudizio patrimoniale conseguente può produrre sul valore della quota di partecipazione. Ne consegue che, posta la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello del socio, anche nell’ipotesi di partecipazione totalitaria, qualsiasi danno che colpisce direttamente il patrimonio della società può avere un’incidenza meramente indiretta sulla quota medesima e, conseguentemente, non è suscettibile di autonoma risarcibilità.

La domanda che sia fondata su una pretesa di abuso di dipendenza economica, e cioè di eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi negli esistenti rapporti commerciali regolati da un contratto, ai fini della determinazione della competenza giurisdizionale rientra nella materia contrattuale, posto che la linea di demarcazione tra controversia contrattuale e quella relativa a delitti o quasi delitti è costituita dalla circostanza che nella prima vi deve essere prospettata una censura attinente alla mancata o imperfetta esecuzione di un programma di comportamento dovuto dal convenuto e non la semplice e autonoma lesione di un bene della vita tutelato in quanto tale dal diritto oggettivo. Rientrano, pertanto, nelle controversie di natura contrattuale non solo quelle riguardanti il mancato adempimento di un obbligo di prestazione di fonte negoziale (controversie pacificamente contrattuali), ma in genere le controversie in cui l’attore, allegando l’esistenza di una regola di condotta legata ad una relazione liberamente assunta tra lui e l’altra parte ne lamenti la violazione da parte di quest’ultima. In altri termini, va qualificata come controversia in materia contrattuale quella tra due soggetti, che non si pongono l’un l’altro come due consociati non relazionati reciprocamente, ma come soggetti che hanno già instaurato un rapporto di natura commerciale, dal quale ognuno attende che l’altro non ne abusi, ma tenga un comportamento determinato.

Anche nei confronti delle persone giuridiche, e in genere degli enti collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, qualora il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana costituzionalmente protetti, qual è il diritto all’immagine, determinando una diminuzione della considerazione dell’ente o della persona giuridica da parte dei consociati in genere, ovvero di settori o categorie di essi, con le quali il soggetto leso di norma interagisca.