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22 Gennaio 2024

La business judgment rule opera solo in assenza di un conflitto di interessi

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall. ha carattere unitario e inscindibile poiché cumula le azioni disciplinate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. in un’unica azione finalizzata alla reintegrazione del patrimonio sociale a garanzia dei soci e dei creditori, in modo tale che, venendo a mancare i presupposti dell’una, soccorrono i presupposti dell’altra. In caso di fallimento, pertanto, le diverse azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori e sindaci di una società di capitali previste dal codice civile, pur rimanendo tra loro distinte, confluiscono nell’unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell’art. 146 l. fall., la quale implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne muta i presupposti.

L’azione sociale di responsabilità ha natura contrattuale e si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte dolose o colpose degli amministratori poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo, ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che quest’ultima ha soltanto l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni e il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e sui sindaci l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti. Il danno risarcibile è un quid pluris rispetto alla condotta asseritamente inadempiente e, in difetto di tale allegazione e prova, la domanda risarcitoria mancherebbe di oggetto.

La mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l’attore abbia allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore medesimo. Una correlazione tra le condotte dell’organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall’intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell’impresa così generalizzate da far pensare che, proprio in ragione di esse, l’intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell’insolvenza.

La figura dell’amministratore di fatto ricorre nelle ipotesi in cui un soggetto non formalmente investito della carica di amministratore si ingerisce nell’amministrazione, esercitando i poteri propri inerenti alla gestione della società. Tali funzioni gestorie esercitate in via di fatto debbono avere carattere sistematico e non esaurirsi nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e occasionale.

All’amministratore di una società non può essere imputato, a titolo di responsabilità, di aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società. Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore nell’adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica, ma solo la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere e, quindi, l’eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità. L’insindacabilità delle scelte di gestione dell’amministratore trova un limite anche nella presenza di una situazione di conflitto di interesse non manifestata.

Sussiste un conflitto di interessi quando gli interessi di cui sono portatori l’amministratore e la società sono in una relazione di incompatibilità, tale per cui il perseguimento dell’uno comporta il necessario sacrificio dell’altro. Ciò significa che al vantaggio conseguibile dall’amministratore in base all’operazione deve corrispondere, anche se non in modo necessariamente proporzionale, uno svantaggio della società, che può anche consistere in un mancato guadagno. Il comportamento dell’amministratore che agisce in conflitto di interessi deve ritenersi sindacabile sotto il profilo della violazione del generale dovere di correttezza cui egli è tenuto nel rapporto con la società.

Ai sensi degli artt. 2482 bis e 2482 ter c.c., gli amministratori, in caso di perdita di oltre un terzo del capitale, devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la sola ed eventuale riduzione del capitale e non anche la messa in liquidazione, a meno che la perdita non comporti la riduzione al disotto del capitale minimo. Nel caso in cui il minimo legale non sia stato intaccato, la riduzione non è obbligatoria, potendo la società decidere di portare a nuovo le perdite, ma sussiste comunque l’obbligo, per gli amministratori, di convocare l’assemblea senza indugio per l’adozione degli opportuni provvedimenti e di redigere una relazione sulla situazione patrimoniale della società con le osservazioni del collegio sindacale o del revisore. In tal caso, la riduzione del capitale sociale ha funzione meramente dichiarativa, tendente a far coincidere l’entità del capitale nominale con quello effettivo, riconducendo il primo alla misura del secondo, se e in quanto questo sia realmente divenuto inferiore all’ammontare indicato nell’atto costitutivo.

15 Maggio 2023

La rivalutazione monetaria del danno cagionato dagli ex amministratori di società fallita

L’ammontare risarcibile del danno cagionato dagli ex amministratori di una società fallita che abbiano proseguito l’attività sociale nonostante la perdita di capitale costituisce un debito di valore cui deve aggiungersi la rivalutazione monetaria, la cui data di decorrenza deve essere individuata nella data di fallimento. Poiché tale somma rappresenta il controvalore monetario del danno patrimoniale subito, potrebbe in astratto essere riconosciuto al danneggiato anche il danno provocato dal ritardato pagamento in misura pari agli interessi legali. Tuttavia, poiché è preciso onere del creditore provare, anche in base a criteri presuntivi, che la somma rivalutata (o liquidata in moneta attuale) sia inferiore a quella di cui avrebbe disposto, alla stessa data della sentenza, se il pagamento della somma originariamente dovuta fosse stato tempestivo, e poiché non è configurabile alcun automatismo nel riconoscimento degli interessi compensativi, non è possibile riconoscere detti accessori in assenza di qualsiasi specifica allegazione sul punto da parte dell’attore.

20 Gennaio 2023

Responsabilità di amministratori e sindaci per una fusione a seguito di acquisizione con indebitamento finalizzata alla realizzazione di scopi extra societari

L’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l. fall., che ha come fine la reintegrazione del patrimonio della società fallita, cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c. a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, implicando una modifica della legittimazione attiva, ma non della natura giuridica e dei presupposti delle due azioni, che rimangono diversi e indipendenti, con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione (art. 2393, co. 4, 2941, n. 7, 2949 e 2394 co. 2, c.c. ) e dei limiti al risarcimento (art. 1225 c.c.).

Mentre l’azione sociale di responsabilità nei confronti dell’amministratore è soggetta al termine di prescrizione quinquennale con decorrenza dalla cessazione della carica, in virtù della sospensione del termine prevista dall’art. 2941, n. 7, c.c., l’azione di responsabilità sub specie di azione dei creditori sociali ai sensi dell’art. 2394 c.c., pur quando sia esercitata dal curatore del fallimento, si prescrive in ogni caso nel termine di cinque anni con decorrenza dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti, vale a dire dal momento in cui l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti risulti da qualsiasi fatto che possa essere oggettivamente conoscibile dai terzi. In ragione dell’onerosità della prova gravante sul curatore, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando a colui che eccepisce la prescrizione la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza dello stato di incapienza patrimoniale.

25 Ottobre 2022

Criterio di liquidazione del danno da indebita prosecuzione dell’attività di impresa

Nel caso di indebita prosecuzione dell’attività di impresa, il criterio di liquidazione del danno dell’intero deficit patrimoniale, che conduce a quantificare il danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, rimane utilizzabile, solo quale estremo rimedio, qualora manchi del tutto la contabilità dell’impresa fallita e tale mancanza, ascrivibile all’organo gestorio, abbia precluso ogni accertamento da parte del curatore fallimentare.

29 Aprile 2022

Azione ex art. 146 l. fall.: natura ed onere probatorio

L’azione ex art. 146 l. fall. presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula in sé le diverse azioni previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., a favore, rispettivamente, della società e dei creditori sociali, onde il curatore può formulare istanze risarcitorie tanto con riferimento ai presupposti della loro responsabilità contrattuale verso la società, quanto a quelli della responsabilità extracontrattuale nei confronti dei creditori; ma, una volta effettuata la scelta nell’ambito di ogni singola questione, egli soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili.

La responsabilità dell’amministratore sussiste solo in presenza (i) della violazione degli obblighi posti a suo carico dalla legge o dallo statuto, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) della presenza di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno. Invero, l’inadempimento rilevante nell’ambito delle azioni di responsabilità da risarcimento del danno nelle obbligazioni cosiddette di comportamento non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisca causa (o concausa) efficiente del danno, sicché il creditore deve allegare un inadempimento qualificato, e cioè astrattamente efficiente alla produzione del danno. Sull’attore grava l’onere di allegare, e poi di provare, gli altri elementi indispensabili per aversi responsabilità civile, che sono perciò al tempo stesso elementi costitutivi della domanda risarcitoria: danno e nesso di causalità.

Azione di responsabilità esercitata dal curatore e criterio della differenza dei netti patrimoniali per la quantificazione del danno

L’azione ex art. 146 l. fall., proponibile nei confronti degli amministratori e dei liquidatori della società fallita, presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Così che una volta esercitata, il curatore soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili. Non si tratta di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore: la norma si limita ad attribuire al curatore la legittimazione (esclusiva) ad esercitare, in forma cumulativa, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali. In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori verso la società ha natura contrattuale, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.

L’amministratore di s.r.l. risponde in presenza (i) della violazione dei suddetti obblighi, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno.

Sebbene il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di s.r.l., quali il grado di diligenza richiesta secondo la natura dell’affare e le loro specifiche competenze e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di s.r.l. venga adottato lo stesso approccio valutativo utilizzato per gli amministratori di s.p.a. (ex artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.).

Il curatore che esercita l’azione di cui all’art. 146, co. 2, l. fall. ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’amministratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo, oppure a quello generale di diligenza, nonché ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso. Deve inoltre dimostrare che la società abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento degli amministratori, spettando, invece, all’amministratore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.

Il curatore che agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali deve provare l’inosservanza, da parte dell’amministratore, degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e che hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.

In forza del principio per cui gli amministratori devono amministrare la società secondo i doveri di diligenza e correttezza, in sede di verifica di tale adempimento, non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell’impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall’assunzione di un rischio. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali di gestione tuttavia non è assoluta. Sotto il profilo della relativa legittimità rileva, infatti, il modo con cui le scelte sono state assunte ed attuate, ossia il percorso decisionale che ha portato a preferire una determinata scelta, rispetto ad un’altra. Se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente — se necessario, con adeguata istruttoria — i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili. Spetta al giudice ripercorrere il procedimento decisionale, onde verificare che la decisione degli amministratori sia stata coerente e congrua rispetto alle informazioni da questi raccolte e valutare l’eventuale violazione del dovere di diligenza in relazione ai normali criteri di liceità, razionalità, congruità e attenzione che dovrebbero ispirare l’operatore economico.

Sotto il profilo della ragionevolezza della scelta e della prevedibilità dei risultati, gli amministratori devono poi ritenersi responsabili nei confronti della società quando le decisioni assunte non siano in alcun modo idonee a realizzare l’interesse della società, in quanto avventate o irrazionali, tali da permettere agli amministratori di prevedere l’erroneità dell’operazione compiuta.

Gli amministratori andranno esenti da responsabilità nel caso in cui provino di aver in buona fede raggiunto una decisione adeguatamente informata, ragionevole e in assenza di un interesse in conflitto con quello della società e di aver seguito le cautele e svolto le verifiche che si imponevano nel singolo caso. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgment rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito delle scelte effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante.

In tema di individuazione e quantificazione del danno, compete a chi agisce dare la prova della sua esistenza, del suo ammontare, degli specifici inadempimenti imputabili all’amministratore e del loro rapporto causalità, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili, rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

L’art. 2486, co. 3, c.c., come modificato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha positivizzato il criterio per la quantificazione del danno c.d. “della differenza dei netti patrimoniali”. Tale criterio è stato utilizzato dalla giurisprudenza di merito soprattutto nelle ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, ed il raffronto viene fatto, in questi casi, tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, ovvero della sentenza dichiarativa di fallimento (se non preceduta dalla fase di liquidazione). Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, anche se anch’esso sconta alcuni automatismi presuntivi che sono propri dell’altro criterio differenziale (differenza tra attivo e passivo fallimentare), in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

Legittimati ad agire con l’azione di simulazione sono i terzi che siano attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla simulazione (artt. 1415, co. 2, e 1416, co. 2, c.c.), non essendo necessario che il pregiudizio sia attuale e che l’inadempimento si sia già verificato, essendo sufficiente la dimostrazione del pericolo di lesione o di insoddisfacimento del credito e della maggiore difficoltà od onerosità dell’adempimento. Infatti, a differenza dell’actio pauliana, che presuppone l’eventus damni, e per gli atti a titolo oneroso il consilium fraudis, per la proponibilità dell’azione di simulazione da parte del creditore è sufficiente che questi abbia un legittimo interesse a vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo del creditore stesso ed indipendentemente dall’epoca in cui è sorto il credito di chi agisce. È terzo creditore legittimato ad agire anche il titolare di un credito illiquido e non esigibile, giacché anche questi ha interesse a prevenire il danno che potrebbe derivargli dall’atto simulato, al momento in cui il credito si rendesse esigibile.

La prova della partecipatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

5 Novembre 2021

Azioni di responsabilità esercitate dalla curatela

La responsabilità degli amministratori verso la società è di natura contrattuale e trova la sua fonte tanto nella violazione degli obblighi che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall’atto costitutivo, quanto nella violazione di obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l’obbligo di amministrare la società e perseguirne l’oggetto sociale con la diligenza professionale esigibile ex art. 1176, co. 2, c.c., nonché quello di amministrare senza conflitto di interessi. Altra e distinta forma di responsabilità è quella degli amministratori verso i creditori della società come conseguenza dell’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, la cui natura extracontrattuale presuppone l’assenza di un preesistente vincolo obbligatorio tra le parti ed un comportamento dell’amministratore funzionale ad una diminuzione del patrimonio sociale di entità tale da renderlo inidoneo per difetto ad assolvere la sua funzione di garanzia generica, con conseguente diritto del creditore di ottenere, a titolo di risarcimento, l’equivalente della prestazione che la società non è più in grado di adempiere. L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l.fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c. ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, patrimonio visto unitariamente come garanzia sia per i soci sia per i creditori sociali. Dal carattere unitario dell’azione ex art. 146 l.fall. discende che il curatore, potendosi avvalere delle agevolazioni probatorie proprie delle azioni contrattuali, ha esclusivamente l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità tra queste ed il danno verificatosi, incombendo per converso sui convenuti l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi loro imposti.

Il thema probandum, nell’ambito dell’azione in questione, si articola pertanto nell’accertamento di tre elementi: l’inadempimento di uno o più degli obblighi di cui sopra, il danno subito dalla società e il nesso causale, mentre il danno risarcibile sarà quello causalmente riconducibile, in via immediata e diretta, alla condotta (dolosa o colposa) dell’agente sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante, dunque commisurato in concreto al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, positivo o omissivo, non fosse stato posto in essere. Ad ogni modo, nell’accertamento della responsabilità degli amministratori deve tenersi conto del principio della insindacabilità nel merito delle scelte di gestione, in quanto il giudice non può apprezzare il merito dei singoli atti di gestione, valutandone, così, l’opportunità e la convenienza: ciò che forma oggetto di sindacato da parte del giudice, dunque, non può essere l’atto in sé considerato e il risultato che abbia eventualmente prodotto, bensì, esclusivamente, le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi agli amministratori. Pertanto, alla luce del principio di insindacabilità del merito gestorio, non ogni atto dannoso per il patrimonio sociale è idoneo a fondare la responsabilità dell’amministratore che lo abbia compiuto; al contempo, non tutte le violazioni di obblighi derivanti dalla carica comportano necessariamente una lesione del patrimonio sociale e, dunque, l’individuazione di un danno risarcibile. Infatti, non tutti i comportamenti illeciti degli amministratori danno luogo infatti a responsabilità risarcitoria, ma solo quelli che abbiano causato un danno al patrimonio sociale rendendolo incapiente, danno che deve essere legato da un nesso eziologico ai suddetti illeciti.

16 Dicembre 2020

Rilevanza probatoria nell’azione di responsabilità del patteggiamento dell’amministratore

Benché la sentenza di patteggiamento non abbia efficacia di giudicato nel giudizio civile inerente la responsabilità gestoria e risarcitoria degli amministratori, essa assume tuttavia in sede civile (in ordine agli specifici ed identici fatti contestati) natura e valenza di prova critica e, quindi, una valenza probatoria importante. Questo significa che il Giudice civile può utilizzarla come elemento di prova sufficiente a ritenere fondata la responsabilità gestoria in merito agli stessi fatti dedotti; al contrario, qualora voglia discostarsene dovrà motivare specificatamente le ragioni del non utilizzo: in tal caso, il Giudice ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’amministratore imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (la richiesta di patteggiamento, dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato, quindi, una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall’onere della prova).

Per lo stesso fatto soltanto alla stregua di valide giustificazioni, debitamente argomentate, possono ammettersi differenti e contrastanti decisioni giudiziali, pur nell’autonomia dei relativi giudizi assicurata e disciplinata da norme di rango costituzionale e di natura processuale.

11 Dicembre 2019

Prescrizione e onere probatorio nell’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare

L’azione di responsabilità contro gli amministratori esercitata dal curatore fallimentare ex art. 146 l. fall. compendia in sé le azioni ex artt. 2393 e 2394 c.c., con conseguente possibilità per il curatore di cumulare i vantaggi di entrambe le azioni sul piano del riparto dell’onere della prova, del regime della prescrizione (art. 2393 comma 4, 2941 n. 7, 2949 e 2394 comma 2 c.c.) e dei limiti al risarcimento (art. 1225 c.c.) ed è diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia sia per i soci che per i creditori sociali.

Il thema probandum, nell’ambito dell’azione di responsabilità ex art. 146 l. fall., si articola nell’accertamento di tre elementi: l’inadempimento di uno o più degli obblighi specifici previsti dalla legge o dallo statuto e/o dell’obbligo generale di diligenza previsto dall’art. 2392 c.c., il danno subito dalla società e il nesso causale, mentre il danno risarcibile sarà quello causalmente riconducibile, in via immediata e diretta, alla condotta (dolosa o colposa) dell’agente sotto il duplice profilo del danno emergente e del lucro cessante, dunque commisurato in concreto al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, positivo o omissivo, non fosse stato posto in essere.

In questo senso, in ossequio al principio di causalità, al fine di imputare all’amministratore colpevole il danno effettivamente derivato dall’illecita prosecuzione dell’attività, occorrerà confrontare i bilanci – vale a dire quello relativo al momento in cui si è realmente verificata la causa di scioglimento e quello della messa in liquidazione (ovvero del fallimento) – dopo avere effettuato non solo le rettifiche volte ad elidere le conseguenze della violazione dei criteri di redazione degli stessi ma pure, quelle derivanti dalla necessità di porsi nella prospettiva della liquidazione, visto che proprio alla liquidazione, se si fosse agito nel rispetto delle regole, si sarebbe dovuti giungere.

19 Ottobre 2019

Sull’amministratore di fatto e sulla utilizzabilità del criterio del deficit patrimoniale nelle azioni di responsabilità nel fallimento

Il ruolo di amministratore di fatto di una società di capitali può essere ricostruito mediante l’utilizzo di elementi indiziari e fattuali (ad esempio delega di firme ad operare su conto corrente, rapporti di parentela tra le parti, esistenza di rapporti e collegamenti contrattuali o giuridici con fornitori e clienti, contatti e gestione ordinativi e del magazzino e dei rapporti con i fornitori ed il personale etc), nonché attraverso il ricorso alla prova testimoniale e/o all’interrogatorio formale.
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