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I presupposti della revocatoria dell’atto istitutivo di trust

Il requisito dell’anteriorità del credito, rispetto all’atto impugnato in revocatoria, deve essere riscontrato in base al momento dell’insorgenza del credito e non a quello successivo del suo accertamento giudiziale, indipendentemente dalla circostanza che il debito sia certo e determinato nel suo ammontare o che sia scaduto ed esigibile.

In tema di azione revocatoria ordinaria degli atti a titolo gratuito, il requisito della scientia damni richiesto dall’art. 2901, comma 1, n. 1), c.c. si risolve, non già nella consapevolezza dell’insolvenza del debitore, ma nella semplice conoscenza del danno che ragionevolmente può derivare alle ragioni creditorie dal compimento dell’atto.

Quando l’atto di disposizione sia a titolo gratuito e successivo al sorgere del credito, unica condizione per l’esercizio dell’azione ex art. 2901 c.c. è la conoscenza che il debitore abbia del pregiudizio delle ragioni creditorie e la relativa prova può essere fornita anche tramite presunzioni, il cui apprezzamento è devoluto al giudice di merito ed è incensurabile in sede di legittimità ove congruamente motivato.

1 Febbraio 2023

Il periculum in mora nel sequestro conservativo e gli effetti dell’azione revocatoria

Il requisito del periculum in mora richiede la prova di un fondato timore di perdere le garanzie del proprio credito. Requisito desumibile, alternativamente, sia da elementi oggettivi, riguardanti la capacità patrimoniale del debitore in rapporto all’entità del credito, sia da elementi soggettivi, rappresentati invece da comportamenti del debitore che lascino presumere che, al fine di sottrarsi all’adempimento, egli possa porre in essere atti dispositivi idonei a provocare l’eventuale depauperamento del suo patrimonio. Il periculum in mora può essere riconosciuto esistente innanzitutto quando sussista una condizione oggettiva di inadeguata consistenza del patrimonio del debitore stesso in rapporto all’entità del credito.

L’accoglimento della revocatoria ordinaria non produce l’effetto di restituire al patrimonio del fallito la proprietà del bene oggetto dell’atto revocato, laddove l’accoglimento dell’azione revocatoria ha la limitata efficacia di rendere inopponibile l’atto sottoposto a revoca nei confronti dei creditori del fallimento, senza caducare, ad ogni altro effetto, l’acquisto determinatosi in capo all’acquirente. Il creditore dovrà attendere il passaggio in giudicato della sentenza a lui favorevole prima di poter agire esecutivamente, atteso che le sentenze di mero accertamento e quelle costitutive possono fondare un’azione esecutiva anche prima del passaggio in giudicato, a norma dell’art. 282 c.p.c., limitatamente ai capi condannatori del dispositivo, come ad esempio quelli relativi alle spese di lite. Ne consegue che tutti gli altri effetti di tali decisioni si producono soltanto con il giudicato.

21 Dicembre 2022

Simulazione e invalidità della scissione, azione revocatoria

Alla luce del combinato disposto di cui agli artt. 2504-quater e 2506-ter, co. 5 c.c., deve ritenersi preclusa in radice qualsivoglia statuizione che implichi la caducazione degli effetti dell’operazione straordinaria di scissione, ivi compresa l’asserita simulazione del negozio, posto che l’eventuale esito vittorioso determinerebbe – diversamente dall’azione revocatoria, che in caso di accoglimento ne comporterebbe soltanto l’inefficacia – una profonda e irreversibile modificazione degli assetti societari, in spregio alle esigenze di certezza e stabilità cui tende il disposto dell’art. 2504-quater c.c., richiamato dall’art. 2506-ter c.c. Trattasi di disposizione che, in quanto posta a garanzia della certezza e della stabilità dell’operazione straordinaria, anche e soprattutto nell’interesse dei terzi, non è suscettibile di deroga pattizia.

Di contro, l’azione revocatoria dell’atto di scissione societaria deve ritenersi sempre esperibile, in quanto mira a ottenere l’inefficacia relativa dell’atto, che lo rende inopponibile al solo creditore pregiudicato, al contrario di ciò che si verifica nell’opposizione dei creditori sociali prevista dall’art. 2503 c.c., finalizzata, viceversa, a farne valere l’invalidità.

12 Dicembre 2022

Presupposti dell’azione revocatoria

Nel caso di atto dispositivo eseguito a titolo oneroso, in ottica di tutela del terzo avente causa – il quale comunque ha versato un controvalore a fronte del negozio stipulato in suo favore – appare necessario che l’attore, oltre a provare la conoscenza in capo al debitore del pregiudizio arrecato alle ragioni creditorie con l’atto dispositivo, dimostri che anche il terzo ne fosse a conoscenza o, perlomeno, ne avesse la conoscibilità.

Qualora la disposizione a titolo oneroso sia stata posta in essere prima dell’esistenza del credito, il creditore sarà chiamato a provare anche la c.d. partecipatio fraudis, ossia che il terzo, avente causa, fosse a conoscenza della dolosa preordinazione dell’alienazione, da parte del debitore, con riguardo al credito. La prova della participatio fraudis del terzo può essere ricavata anche da presunzioni semplici.

14 Ottobre 2022

Sequestro conservativo di quote a seguito del fallimento della società

Nel caso in cui, a seguito della perdita integrale del capitale sociale, l’assemblea non adotti gli opportuni provvedimenti (ossia non deliberi la riduzione con contestuale aumento, lo scioglimento o la trasformazione), è esclusiva responsabilità dell’amministratore procedere ad accertare tempestivamente la sussistenza della causa di scioglimento e provvedere all’iscrizione dello scioglimento al registro. Non può invece configurarsi una responsabilità dei soci che, anziché provvedere agli adempimenti imposti dalla legge, abbiano riportato a nuovo la perdita di esercizio che erodeva completamente il capitale sociale.

Rientra pacificamente tra gli atti conservativi che possono essere compiuti dal creditore particolare del socio anche il sequestro conservativo di cui all’art. 671 c.p.c. sulla quota di liquidazione spettante al socio.

Le sezioni specializzate non sono competenti a conoscere della domanda di revocatoria degli atti di donazione di quote, in quanto l’art. 3, comma 3 del D.lgs. n. 168/2003 (nel prevedere la competenza delle sezioni specializzate anche per le cause e i procedimenti che presentano ragioni di connessione con quelli di cui ai commi 1 e 2) deve esser interpretato in maniera restrittiva e riguarda quindi le sole ipotesi di connessione forte, rimanendo sottratta all’ambito della norma citata tanto la connessione propria debole per titolo od oggetto ex art. 33 c.p.c., quanto la connessione c.d. “impropria” o per mero cumulo oggettivo di domande diverse proposte nei confronti della stessa parte.

 

Azione di responsabilità esercitata dal curatore e criterio della differenza dei netti patrimoniali per la quantificazione del danno

L’azione ex art. 146 l. fall., proponibile nei confronti degli amministratori e dei liquidatori della società fallita, presenta natura inscindibile ed unitaria, in quanto cumula le due possibili forme di tutela previste per la società e per i creditori di cui agli artt. 2393 e 2394 c.c., le quali si trasferiscono, con l’apertura del fallimento, in capo al curatore. Essa non rappresenta quindi un tertium genus, potendo fondarsi su presupposti sia dell’una che dell’altra azione, fermo il rispetto delle regole e degli oneri probatori inerenti a ciascuna. Così che una volta esercitata, il curatore soggiace anche agli aspetti eventualmente sfavorevoli dell’azione individuata, riguardando le divergenze non solo la decorrenza del termine di prescrizione, ma anche l’onere della prova e l’ammontare dei danni risarcibili. Non si tratta di un’azione nuova, che sorge a titolo originario in capo al curatore: la norma si limita ad attribuire al curatore la legittimazione (esclusiva) ad esercitare, in forma cumulativa, le stesse azioni che, prima del fallimento, spettavano, separatamente, alla società ed ai creditori sociali. In particolare, la differenza normativa principale tra le due fattispecie è che mentre la responsabilità degli amministratori verso la società ha natura contrattuale, la responsabilità degli amministratori verso i creditori sociali ha natura extracontrattuale, pur se fatta valere nell’ambito del fallimento.

L’amministratore di s.r.l. risponde in presenza (i) della violazione dei suddetti obblighi, (ii) della causazione di un danno al patrimonio sociale e (iii) di un nesso causale tra la violazione dei doveri e la produzione del danno.

Sebbene il legislatore abbia omesso di disciplinare alcuni aspetti relativi ai presupposti della responsabilità degli amministratori di s.r.l., quali il grado di diligenza richiesta secondo la natura dell’affare e le loro specifiche competenze e l’obbligo di agire in modo informato, è la stessa natura dell’incarico a richiedere che per l’amministratore di s.r.l. venga adottato lo stesso approccio valutativo utilizzato per gli amministratori di s.p.a. (ex artt. 1176, co. 2, e 2236 c.c.).

Il curatore che esercita l’azione di cui all’art. 146, co. 2, l. fall. ha l’onere di dimostrare l’inadempimento da parte dell’amministratore ai doveri derivanti dalla legge o dall’atto costitutivo, oppure a quello generale di diligenza, nonché ai doveri di vigilanza attiva e di intervento operoso. Deve inoltre dimostrare che la società abbia ricevuto un danno patrimoniale e che tale pregiudizio sia la conseguenza diretta e immediata dell’inadempimento degli amministratori, spettando, invece, all’amministratore la prova che l’inadempimento è derivato da causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.).

L’azione di responsabilità dei creditori si propone di tutelare l’integrità del patrimonio sociale, in relazione all’obbligo della sua conservazione; essa riveste natura di azione aquiliana ex art. 2043 c.c., in cui il danno ingiusto è integrato dalla lesione dell’aspettativa di prestazione dei creditori sociali a garanzia della quale è posto il patrimonio della società, trovando così fondamento nel principio generale della tutela extracontrattuale del credito di cui agli artt. 2740 e 2043 c.c.

Il curatore che agisce in giudizio per far valere la responsabilità extracontrattuale verso i creditori sociali deve provare l’inosservanza, da parte dell’amministratore, degli obblighi inerenti la conservazione del patrimonio sociale, che tali inadempimenti sono dovuti a dolo o colpa e che hanno provocato l’insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti sociali.

In forza del principio per cui gli amministratori devono amministrare la società secondo i doveri di diligenza e correttezza, in sede di verifica di tale adempimento, non possono essere sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali compiute dagli amministratori, sempre che si tratti di scelte relative alla gestione dell’impresa sociale e, pertanto, caratterizzate dall’assunzione di un rischio. L’insindacabilità nel merito delle scelte discrezionali di gestione tuttavia non è assoluta. Sotto il profilo della relativa legittimità rileva, infatti, il modo con cui le scelte sono state assunte ed attuate, ossia il percorso decisionale che ha portato a preferire una determinata scelta, rispetto ad un’altra. Se è vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche se presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell’apprezzare preventivamente — se necessario, con adeguata istruttoria — i margini di rischio connessi all’operazione da intraprendere, così da non esporre l’impresa a perdite, altrimenti prevenibili. Spetta al giudice ripercorrere il procedimento decisionale, onde verificare che la decisione degli amministratori sia stata coerente e congrua rispetto alle informazioni da questi raccolte e valutare l’eventuale violazione del dovere di diligenza in relazione ai normali criteri di liceità, razionalità, congruità e attenzione che dovrebbero ispirare l’operatore economico.

Sotto il profilo della ragionevolezza della scelta e della prevedibilità dei risultati, gli amministratori devono poi ritenersi responsabili nei confronti della società quando le decisioni assunte non siano in alcun modo idonee a realizzare l’interesse della società, in quanto avventate o irrazionali, tali da permettere agli amministratori di prevedere l’erroneità dell’operazione compiuta.

Gli amministratori andranno esenti da responsabilità nel caso in cui provino di aver in buona fede raggiunto una decisione adeguatamente informata, ragionevole e in assenza di un interesse in conflitto con quello della società e di aver seguito le cautele e svolto le verifiche che si imponevano nel singolo caso. Le scelte gestionali connotate da discrezionalità soggiacciono alla c.d. business judgment rule, secondo la quale è preclusa al giudice la valutazione del merito delle scelte effettuate con la dovuta diligenza nell’apprezzamento dei loro presupposti, delle regole di scienza ed esperienza applicate e dei loro possibili risultati, essendo consentito al giudice soltanto di sanzionare le scelte negligenti, o addirittura insensate, macroscopicamente ed evidentemente dannose ex ante.

In tema di individuazione e quantificazione del danno, compete a chi agisce dare la prova della sua esistenza, del suo ammontare, degli specifici inadempimenti imputabili all’amministratore e del loro rapporto causalità, potendosi configurare un’inversione dell’onere della prova solo quando l’assoluta mancanza, ovvero l’irregolare tenuta delle scritture contabili, rendano impossibile al curatore fornire la prova del predetto nesso di causalità; in questo caso, infatti, la citata condotta, integrando la violazione di specifici obblighi di legge in capo agli amministratori, è di per sè idonea a tradursi in un pregiudizio per il patrimonio.

Nell’azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell’amministratore della stessa, l’individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev’essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell’amministratore, che l’attore ha l’onere di allegare, onde possa essere verificata l’esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti e il danno di cui si pretende il risarcimento. Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all’amministratore convenuto, di per sé sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l’attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perché si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.

L’art. 2486, co. 3, c.c., come modificato dal Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza, ha positivizzato il criterio per la quantificazione del danno c.d. “della differenza dei netti patrimoniali”. Tale criterio è stato utilizzato dalla giurisprudenza di merito soprattutto nelle ipotesi di prosecuzione dell’attività di impresa pur in presenza di una causa di scioglimento, ed il raffronto viene fatto, in questi casi, tra il patrimonio netto della società al momento in cui gli amministratori avrebbero dovuto accorgersi della causa di scioglimento e il patrimonio netto della società al momento della messa in liquidazione, ovvero della sentenza dichiarativa di fallimento (se non preceduta dalla fase di liquidazione). Si tratta di un criterio che consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione patrimoniale della società, anche se anch’esso sconta alcuni automatismi presuntivi che sono propri dell’altro criterio differenziale (differenza tra attivo e passivo fallimentare), in quanto non tutte le perdite riscontrate dopo il verificarsi di una causa di scioglimento possono essere riferite alla prosecuzione dell’attività, potendo in parte prodursi comunque anche in pendenza della liquidazione o durante il fallimento per il solo fatto della svalutazione dei cespiti aziendali in ragione del venir meno dell’efficienza produttiva e dell’operatività dell’impresa.

Legittimati ad agire con l’azione di simulazione sono i terzi che siano attualmente o potenzialmente pregiudicati dalla simulazione (artt. 1415, co. 2, e 1416, co. 2, c.c.), non essendo necessario che il pregiudizio sia attuale e che l’inadempimento si sia già verificato, essendo sufficiente la dimostrazione del pericolo di lesione o di insoddisfacimento del credito e della maggiore difficoltà od onerosità dell’adempimento. Infatti, a differenza dell’actio pauliana, che presuppone l’eventus damni, e per gli atti a titolo oneroso il consilium fraudis, per la proponibilità dell’azione di simulazione da parte del creditore è sufficiente che questi abbia un legittimo interesse a vedere ristabilita la verità contro l’apparenza, non occorrendo un danno effettivo del creditore stesso ed indipendentemente dall’epoca in cui è sorto il credito di chi agisce. È terzo creditore legittimato ad agire anche il titolare di un credito illiquido e non esigibile, giacché anche questi ha interesse a prevenire il danno che potrebbe derivargli dall’atto simulato, al momento in cui il credito si rendesse esigibile.

La prova della partecipatio fraudis del terzo, necessaria ai fini dell’accoglimento dell’azione revocatoria ordinaria nel caso in cui l’atto dispositivo sia oneroso e successivo al sorgere del credito, può essere ricavata anche da presunzioni semplici, ivi compresa la sussistenza di un vincolo parentale tra il debitore ed il terzo, quando tale vincolo renda estremamente inverosimile che il terzo non fosse a conoscenza della situazione debitoria gravante sul disponente.

19 Novembre 2021

Sull’oggetto della domanda revocatoria

L’oggetto della domanda revocatoria (ordinaria o fallimentare) non è il bene trasferito in sé, bensì la reintegrazione della generica garanzia patrimoniale dei creditori, mediante il suo assoggettamento ad esecuzione forzata. Il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria, ai sensi degli artt. 2901 e 2902 c.c., non comporta in alcun modo l’invalidità dell’atto di disposizione dei beni ceduti e il rientro di questi nel patrimonio del debitore alienante, bensì unicamente l’inefficacia dell’atto nei soli confronti del creditore che agisce per ottenerla.

28 Giugno 2021

Legittimazione processuale del fallito

La legittimazione processuale in capo al fallito sussiste solo per le questioni dalle quali può dipendere un’imputazione di bancarotta a suo carico, se l’intervento è previsto dalla legge, nonché nei giudizi di natura tributaria qualora possano derivare, da questi, fatti oggetto di imputazione penale, ovvero in caso di inerzia assoluta del curatore fallimentare (nel caso di specie, è stata esclusa la legittimazione processuale del fallito all’azione revocatoria volta ad assicurare gli esiti di un giudizio relativo a fattispecie di responsabilità civile, i cui diritti ai sensi dell’art. 42 l.f. erano stati già esercitati dal curatore, che con autorizzazione del giudice delegato ha inteso non coltivare il giudizio connesso, ritenendolo non utile per la massa ed assumendosi la responsabilità dell’atto).

Cessione di quote sociali: azione revocatoria di atto stipulato anteriormente all’insorgenza del credito

Nel caso in cui sia richiesta la revocatoria di atto di cessione di quote sociali stipulato in data anteriore all’insorgenza del credito è indispensabile fornire prova della “dolosa preordinazione richiesta dall’art. 2901 c.c. e della partecipazione degli acquirenti alla dolosa preordinazione dell’alienante. [Nella specie, il Tribunale ha ritenuto carente la prova del dolo attinente ad attività di infingimenti, raggiri, azioni ambigue, scaltre predisposizioni premeditate per sottrarre anticipatamente il patrimonio alla garanzia del credito e che, pertanto, la domanda revocatoria dovesse essere integralmente respinta poiché non provata.]

5 Maggio 2021

Azione di responsabilità del fallimento nei confronti dell’amministratore di srl e presupposti per l’esercizio dell’azione revocatoria

Tra i doveri imposti dalla legge agli organi gestori – a pena di responsabilità ai sensi dell’art. 2476 c.c. –  vi sono doveri di corretta e puntuale gestione fiscale. Al fine di ridurre l’impatto fiscale sul patrimonio societario, l’amministratore, deducendo che la società non dispone di provviste necessarie per adempiere all’obbligazione tributaria, può provvedere alle richieste di adesione/rateazione. Malgrado l’accertamento con adesione, nell’ipotesi in cui l’omissione degli adempimenti fiscali continui sino a diventare sistematica, l’ingente debito a cui si trova esposta la società, consapevolmente accumulato da parte dell’amministratore, può causare il dissesto della società. In tal caso, l’amministratore va riconosciuto gravemente responsabile della violazione di propri doveri di legge sul punto e tenuto al risarcimento del danno da calcolarsi sulla base delle conseguenze sanzionatorie alle quali la società -in termini di gravosi ricarichi, interessi moratori nonché aggi e spese di recupero – si trova perciò esposta.

La circostanza che alla data della cessazione della carica dell’amministratore unico, lo stato di crisi non fosse manifesto è irrilevante: l’amministratore non va esente da responsabilità per fatti e danni successivi, causati da atti di mala gestio e da condotte distrattive e in fronde ai creditori durante il periodo in carica.

Al fine di dichiarare l’inefficacia nei confronti del Fallimento di atti di disposizione del patrimonio compiuti dall’amministratore, i presupposti richiesti – dall’art. 2901 co.1 c.c. richiamato dall’art. 66 l.fall. – sono segnatamente:
(i) La sussistenza del credito risarcitorio del Fallimento, interamente maturato alla data della cessazione dell’incarico ed accertato al momento della proposizione della domanda.
(ii) Il pregiudizio arrecato alla garanzia patrimoniale generica, insito nella rapida evaporazione di beni immobili in liquidità.
(iii) La consapevolezza di tale pregiudizio in capo al disponente, risultante dall’intento di schermare i beni immobili personali dalle pretese dei creditori sociali. La stessa scelta del contraente [società costituita ad hoc dalle figlie dell’amministratore nella fattispecie] è indice di una chiara consapevolezza di tale pregiudizio.
(iv) Essendo l’atto di disposizione compiuto dal disponente a titolo oneroso, è altresì necessaria la consapevolezza da parte del terzo acquirente del pregiudizio che tale atto arreca alla garanzia patrimoniale generica. Il tentativo della società terza – controllata da soggetto riconducibile al disponente – di dissimulare una cessione delle quote in occasione dell’atto di disposizione del patrimonio oggetto dell’azione revocatoria e la successiva retrocessione delle stesse, rende certa tale consapevolezza.