Controversia in materia di concorrenza sleale per imitazione servile

L’imitazione servile concerne le forme aventi efficacia individualizzante e diversificatrice del prodotto rispetto ad altri simili, idonee a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa.

L’imitazione rilevante ai fini della concorrenza sleale per confondibilità non si identifica con la riproduzione di qualsiasi forma del prodotto altrui, ma solo con quella che cade sulle caratteristiche esteriori dotate di efficacia individualizzante e cioè idonee, proprio in virtù della loro capacità distintiva, a ricollegare il prodotto ad una determinata impresa. Inoltre, non si può attribuire carattere individualizzante alla forma funzionale, cioè a quella resa necessaria dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto.

La fabbricazione di prodotti identici nella forma a quelli realizzati da impresa concorrente (che non fruisca della tutela brevettuale), costituisce atto di concorrenza sleale soltanto se la ripetizione dei connotati formali non si limiti a quei profili resi necessari dalle stesse caratteristiche funzionali del prodotto, ma investa caratteristiche non essenziali alla relativa funzione.

Risponde in proprio, in concorso con la società concorrente, il terzo interposto che, pur non avendo i necessari requisiti soggettivi, non essendo concorrente del danneggiato, ha agito in collegamento con un concorrente del danneggiato. Il terzo va legittimamente ritenuto responsabile, in solido con l’imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre mancando siffatto collegamento tra il terzo autore del comportamento lesivo del principio della correttezza professionale e l’imprenditore concorrente del danneggiato, il terzo stesso è chiamato a rispondere ai sensi dell’art 2043 c.c. dell’attività perpetrata dalla società.

 

17 Gennaio 2020

Azione di accertamento dell’illecito concorrenziale nei confronti di una società

Qualora una società di capitali subisca, per effetto dell’illecito commesso da un terzo, un danno, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

Legittimato all’ordinaria azione di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 cod. civ. è unicamente l’imprenditore concorrente e, nel caso in cui gli atti di concorrenza sleale vengano compiuti in danno di una società, soltanto questa, in persona dell’organo che la rappresenta, è la parte legittimata all’esercizio della relativa azione.

Affinché lo storno dei dipendenti di un’impresa concorrente possa costituire atto di concorrenza sleale, sono necessari la consapevolezza nel soggetto agente dell’idoneità dell’atto a danneggiare l’altrui impresa ed altresì l’“animus nocendi”, cioè l’intenzione di conseguire tale risultato, da ritenersi sussistente ogni volta che lo storno sia stato posto in essere con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente.

Sussiste la competenza delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale, ai sensi dell’art. 3 del d.lgs. n. 168 del 2003, allorché, ai fini della decisione sulla domanda di repressione della concorrenza sleale o di risarcimento dei danni, debba verificarsi se i comportamenti denunciati interferiscano con un diritto di esclusiva (concorrenza sleale c.d. interferente) avendo riguardo a tali fini alla prospettazione dei fatti da parte dell’attore ed indipendentemente dalla loro fondatezza.

Know how e concorrenza sleale da parte di un ex dipendente: perimetro applicativo degli istituti e risarcibilità del danno

La concorrenza può dirsi illecita quando la natura stessa dei mezzi utilizzati al fine di compiere i predetti atti sia contraria alla correttezza professionale, e dunque idonea a danneggiare le aziende altrui: in tal senso, costituisce concorrenza sleale il fatto di porre in essere un’attività lesiva, volta ad appropriarsi in maniera illegittima dello spazio di mercato o della clientela delle imprese concorrenti. L’ipotesi di cui al n. 3 dell’art. 2598 c.c. si discosta da quelle dei nn. 1 e 2, giacché questa è configurabile in maniera indipendente rispetto al riscontro della confondibilità, oggettiva e soggettiva, dei prodotti concorrenti: tale considerazione estende il campo applicativo della norma in questione ad ogni condotta che si riveli contraria ai principi di correttezza professionale, e dunque idonea a provocare, nel concreto, danni di rilievo al concorrente sul mercato. È dunque richiesto che vi sia prova, in concreto, dell’idoneità degli atti a comportare, per il concorrente, un determinato pregiudizio, tenuto conto che il n. 3 non prevede specifici atti di concorrenza sleale, ma si estende a qualsiasi condotta volta a minare i principi della concorrenza professionale e dunque idonea a danneggiare l’altrui azienda. A ciò consegue che la norma deve essere intesa in senso ampio, giacché il legislatore non ha voluto configurare in maniera restrittiva il concetto di correttezza professionale, laddove il comportamento illecito a cui si fa riferimento è dato dall’insieme di azioni, e, in generale, dalla “manovra” operata per danneggiare il concorrente.

 

Importazione parallela e commercializzazione di dispositivi medici previo riconfezionamento senza l’autorizzazione del titolare

Secondo la giurisprudenza comunitaria, il titolare del marchio può opporsi all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, contraddistinti dal suo marchio, dopo la prima immissione in commercio, previo riconfezionamento degli stessi, quando non sussista un’esigenza, meritevole di tutela, di procedere a tale riconfezionamento.

[Nel caso di specie, la circostanza che alcuni esemplari dei prodotti contestati, cioè dei prodotti acquistati all’estero, riconfezionati e importati in Italia, siano stati commercializzati al dettaglio in Milano, pur in assenza di un rapporto diretto tra il rivenditore al dettaglio e le società importatrici e distributrici, consente di attribuire la competenza all’Autorità Giudiziaria di Milano anche nei confronti delle società importatrici e distributrici, non essendovi dubbio che anche la mera commercializzazione del prodotto, in asserita violazione dei diritti sul marchio registrato, costituisca un segmento della condotta lesiva del diritto del titolare del marchio di cui alla norma sopra citata.]

 

28 Novembre 2019

Condotte integranti concorrenza sleale

L’utilizzo, da parte di un’impresa concorrente e, segnatamente, nella propria pubblicità, di un segno distintivo di cui altra impresa ha diritto all’uso esclusivo come marchio di fatto, può essere inibito, ove tale utilizzo possa determinare confusione nel pubblico, a sensi dell’art. 2, comma 4, c.p.i. (che tutela i segni o marchi di fatto) e dell’art. 2598 c.c.; tale utilizzo dell’altrui segno distintivo, anche di fatto, costituisce infatti non solo “contraffazione di marchio”, ma anche “concorrenza sleale confusoria”, quando si verifica nell’ambito di un rapporto concorrenziale. [ LEGGI TUTTO ]

29 Ottobre 2019

Responsabilità dell’amministratore per concorso nella condotta illecita anticoncorrenziale

Dell’illecito di concorrenza sleale può essere chiamato a rispondere anche l’amministratore di s.r.l. ai sensi dell’art. 2476, co. 6,  se risultano provati la addebitabilità agli amministratori di omissioni e condotte in violazione degli obblighi specifici e dei doveri connessi alla carica rivestita, i pregiudizi patrimoniali diretti asseritamente subiti e il nesso eziologico tra gli addebiti formulati e i danni prospettati.

L’inapplicabilità degli art. 98 e 99 CPI non implica l’automatica liceità delle condotte

Anche laddove non siano applicabili gli artt. 98 e 99 CPI, la consapevole acquisizione di informazioni tecniche di valore commerciale, non segrete ma riservate, per il tramite di persona contrattualmente obbligata a non divulgarle, costituisce comportamento contrario ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda, dal momento che consente all’impresa “acquirente” di entrare nel mercato in tempi più brevi e a costi più bassi di quelli che occorrerebbero, se fosse necessario procedere a studi e ricerche autonome.

16 Luglio 2019

Marchi composti da parole dotate di un significato comune e pericolo di confusione

Lo svolgimento della medesima attività commerciale tra convenuta e attore sgombera il campo da una eventuale limitazione della tutela connessa all’utilizzo di un termine che abbia in sé un significato comune riespandendo in toto la sfera di tutela garantita dall’ordinamento laddove il pericolo di confusione sia indotto ed agevolato dallo svolgimento di una medesima attività imprenditoriale in ciò realizzando proprio quello che la legge vuole tutelare: il pericolo che il consumatore sia tratto in inganno rispetto a quello che pensa di acquistare e, come altra faccia della medaglia, il pericolo che un imprenditore svii o si appropri illecitamente della clientela che costituisce patrimonio di altro imprenditore.

20 Giugno 2019

La concorrenza sleale parassitaria, per imitazione servile confusoria e per appropriazione di pregi: presupposti e onore della prova

La concorrenza sleale parassitaria richiede una prova diversa rispetto a quella di imitazione servile del prodotto del concorrente. Occorre infatti la dimostrazione di un’attività sistematica e complessa, realizzata nel corso del tempo, sia mediante successivi comportamenti imitativi delle iniziative e dei prodotti sia attraverso una serie di comportamenti simultanei che possano tutti ritenersi e manifestarsi in maniera univoca ed in quantità significativa come rivolti al perseguimento del medesimo illecito fine, in relazione ad una pluralità di idee ed iniziative originali della concorrente.

L’illecito della concorrenza sleale sotto il profilo dell’imitazione servile si verifica nel caso in cui l’imprenditore imiti un prodotto la cui forma abbia un valore individualizzante e distintivo (così da ricollegare il prodotto ad una determinata impresa), indipendentemente dall’essere il prodotto stesso oggetto di privativa, in modo tale da creare confusione con quello messo in commercio dal concorrente.

La concorrenza per appropriazione di pregi non consiste nell’adozione, sia pur parassitaria, di tecniche materiali o procedimenti già usati da altra impresa (che può dar luogo, invece, alla concorrenza sleale per imitazione servile), ma ricorre quando un imprenditore, in forme pubblicitarie od equivalenti, attribuisce ai propri prodotti od alla propria impresa pregi, quali ad esempio medaglie, riconoscimenti, indicazioni di qualità, requisiti, virtù, da essi non posseduti, ma appartenenti a prodotti od all’impresa di un concorrente, in modo da perturbare la libera scelta dei consumatori.