Contenuto ed estensione del diritto di accesso del socio di s.r.l.
Il diritto di accesso del socio si estende non soltanto ai libri sociali ma a tutti i documenti e le scritture contabili, i documenti fiscali e quelli riguardanti singoli affari poiché il riferimento normativo ai documenti relativi all’amministrazione appare in sè idoneo a ricomprendere ogni documento concernente la gestione della società e non consente letture riduttive volte a distinguere, ad esempio, la documentazione amministrativo-contabile da quella più prettamente commerciale.
Il diritto di controllo così enucleato soddisfa l’esigenza di acquisire tutte le informazioni utili sulle modalità di effettivo svolgimento della funzione gestoria da parte degli amministratori ed è funzionale all’esperimento dell’azione sociale di responsabilità promuovibile in via surrogatoria da ciascun socio, nonché all’esercizio dei diritti e degli obblighi, anche di natura fiscale, derivanti dalla partecipazione societaria.
Nel caso in cui l’esercizio di tale diritto, finalizzato alla tutela di una posizione soggettiva del singolo socio, venga impedito od ostacolato, il socio può fare ricorso alla tutela cautelare atipica di cui all’art. 700 c.p.c. In tal caso, il tribunale può precisare le modalità di consultazione delle scritture contabili
L’art. 2476 c.c. non condiziona l’esercizio del diritto a un interesse specifico e concreto, né fissa limiti all’esercizio del diritto, benchè esso debba comunque essere esercitato secondo i canoni della buona fede e correttezza a tutela dei diritti della società e degli altri soci.
Il diritto di accesso del socio non amministratore di s.r.l. non può essere utilizzato per perseguire interessi e finalità differenti da quelle cui è preordinato; in caso contrario, si verifica un’ipotesi di abuso del diritto, tanto più grave quando le concrete modalità esercitate arrecano un pregiudizio alla società controllata, ovvero quando l’accesso alle informazioni e ai documenti è finalizzata a perseguire un interesse contrario a quello della società
Inammissibilità del ricorso ex art. 700 c.p.c. di riammissione dell’associato escluso da un’associazione per difetto del requisito di sussidiarietà
Difetta del requisito di sussidiarietà e va dunque dichiarato inammissibile il ricorso proposto secondo le forme di cui all’art. 700 c.p.c. di riammissione dell’associato escluso da un’associazione (nelle more trasformatasi in società cooperativa), stante la presenza dello strumento di tutela tipico offerto dall’art. 23 c.c.
Ammissibilità della tutela cautelare di revoca dell’amministratore di srl ante causam
La revoca in via cautelare dell’amministratore di s.r.l. è richiedibile anche ante causam, atteso che il testo dell’art. 2476, co. 3 c.c. ha ambiguità ma non vieta espressamente ciò.
La revoca in via cautelare può esser chiesta sia prospettando quale futura causa di merito una vera e propria azione di responsabilità di natura risarcitoria, sia prospettando una domanda meritale tal per cui anche nel giudizio a cognizione piena ciò che viene richiesto sia la sola revoca dalla carica di amministratore.
Nel primo caso si è in presenza di richiesta di misura cautelare avente strumentalità sui generis, prevista espressamente dal legislatore che ha voluto nella particolare fattispecie in esame correlare la misura cautelare de qua a domanda meritale di danno, configurandola quindi come latu sensu conservativa, ancorchè detta cautela non tuteli il vero e proprio diritto al risarcimento del danno prospettato mirando piuttosto alla prevenzione di danni futuri.
Nel secondo caso e cioè di richiesta cautelare di revoca in presenza di prospettazione di domanda meritale di mera revoca di amministratore, si è di fronte a richiesta di una misura cautelare che ha invece una chiara natura anticipatoria della domanda meritale di medesimo contenuto.
Presupposti dell’istanza cautelare di revoca ante causam dell’amministratore
Il fumus boni iuris e il periculum in mora per la revoca dell’amministratore di s.r.l. andrebbero indirizzati sui presupposti di merito dell’azione di responsabilità, vale a dire la fondatezza della contestazione circa l’inadempimento e il pericolo che le ulteriori condotte scorrette dell’amministratore aggravino il danno della società, per il risarcimento del quale si agisce in via principale. Ciò in quanto l’azione ex art. 2476, co. 3, c.c. consente l’adozione di una misura cautelare tipizzata meramente strumentale e preventiva all’azione sociale di responsabilità prevista dal medesimo articolo, avente contenuto solo risarcitorio, dovendosi escludere l’esistenza di un diritto sostanziale del socio alla revoca degli amministratori dalla loro carica.
Il concetto di “grave irregolarità”, ai fini della proposizione dell’istanza, anche in via cautelare ed urgente, dell’amministratore di s.r.l., deve essere mutuato dalla legge. Sebbene la norma parli di irregolarità “di gestione” non è dubbio che tale termine debba ritenersi comprensivo dell’inadempimento di tutti gli obblighi amministrativi che fanno capo all’amministratore per legge o per statuto, dunque non solo quelli strettamente gestionali, ma anche quelli relativi al funzionamento dell’organizzazione societaria, cioè gli adempimenti o atti di impulso concernenti i rapporti con i soci o con gli altri organi sociali, che gli amministratori sono tenuti a compiere per legge o per obbligo statutario.
Quanto al periculum in mora, è sufficiente osservare che la situazione di prolungata assoluta inerzia posta in essere dall’amministratore compromette gravemente l’operatività della società ed è potenzialmente foriera di gravi danni economici per la stessa. Con particolare riferimento alla mancata approvazione dei bilanci per diversi anni consecutivi, detta grave violazione dei doveri inerenti alla carica risulti foriera di pregiudizi per il patrimonio sociale, dato che, in mancanza di un’aggiornata rendicontazione della situazione economico-patrimoniale, l’organo amministrativo prosegue nell’attività gestoria senza ordine, creando per di più una situazione idonea a scoraggiare i terzi dall’intraprendere rapporti negoziali con la società, perché essi rimangono privi di informazioni ufficiali, anche in ordine all’assolvimento degli obblighi in materia fiscale.
Strutture turistiche: rischio di confusione e/o di associazione tra marchi figurativi
Le norme di cui all’art. 20 c.p.i. richiedono, ai fini del giudizio di confondibilità, una doppia verifica: quella sull’identità o affinità tra i prodotti o servizi e quella sull’identità o somiglianza tra i segni a confronto. Infatti, la sussistenza di un rischio di confusione va apprezzata attraverso una valutazione globale, tenendo conto dell’impressione d’insieme che suscita il raffronto tra i due segni mediante un esame unitario e sintetico che tenga in considerazione i diversi fattori pertinenti del caso di specie tra di loro interdipendenti, quali la identità/somiglianza dei segni, la identità/somiglianza dei prodotti e servizi, il carattere distintivo del marchio anteriore, gli elementi distintivi e dominanti dei segni concorrenti, in relazione al normale grado di percezione dei potenziali acquirenti del prodotto del presunto contraffattore. La confondibilità dei marchi a confronto non deve essere accertata esclusivamente in via analitica, effettuando un esame particolareggiato e una valutazione separata di ogni singolo elemento di dettaglio, neppure può essere valutata avendo riguardo non tanto delle differenze, quanto delle concordanze tra i segni messi a confronto. La dialettica tra esame analitico ed esame sintetico non va risolta in termini di alternatività, quanto piuttosto in termini di complementarità, trattandosi dei due momenti necessari del giudizio di confondibilità. Nel senso che, qualora siano implicati molteplici elementi formali, ad una prima fase di comparazione delle singole caratteristiche essenziali, deve seguire una fase di sintesi dei risultati acquisiti, al fine di relativizzare il risultato dei vari dati formali in quello che è l’aspetto globale del segno. In tal modo, l’esame sintetico assume il ruolo di elemento di chiusura della ricognizione concreta, condotta caso per caso, degli elementi costitutivi dei segni a confronto.
Sulla natura consensuale e sulla forma del contratto di trasferimento di quote di s.r.l.
Il contratto di trasferimento di quote di s.r.l. ha di per sé natura consensuale ed effetti reali, sicché l’effetto traslativo della proprietà sulla quota alienata, trattandosi pacificamente di diritti disponibili, si perfeziona con l’accordo delle parti a mezzo di atto di autonomia privata. Affinché la cessione sia quindi valida ed efficace inter partes, non sono previsti particolari requisiti di forma dell’atto, né ad substantiam, né ad probationem, rilevando la formalizzazione per scrittura privata autenticata piuttosto ai sensi dell’art. 2470 c.c., ossia ai fini dell’iscrizione dell’atto nel registro delle imprese e della opponibilità del trasferimento alla società, agli altri soci ed ai terzi. Pertanto, in caso di mancata autenticazione, sarà solo attraverso l’integrazione della scrittura con la sentenza, che la parte interessata potrà ottenere l’effetto dell’opponibilità della prima ai terzi.
Il giudice non ha alcun obbligo di motivazione quando pone alla base del proprio convincimento considerazioni incompatibili con le osservazioni del consulente tecnico di parte, in quanto queste costituiscono mere allegazioni difensiva, a contenuto tecnico e prive di valore probatorio.
La cautela sospensiva delle delibere assembleari nel giudizio arbitrale
La cautela sospensiva delle delibere assembleari è condizionata al fatto che l’istante abbia proposto la sua domanda contestualmente al giudizio ordinario di cognizione, anche ove esso sia devoluto ad arbitri. Il principio è desumibile dall’art. 2378 c.c., in tema di giudizio introdotto dinanzi all’autorità giudiziaria, oltre che dall’art. 35, co. 5, del D.Lgs. n. 5/2003 ove la controversia sia devoluta, secondo volontà statutaria, al giudizio arbitrale. In quest’ultimo caso, detto potere cautelare residua in capo all’autorità giudiziaria se, nonostante l’avvio del procedimento arbitrale, l’organo non sia ancora costituito.
É necessario estendere l’exceptio doli generalis al terzo creditore pignoratizio nel caso di prestiti obbligazionari
In materia di prestiti obbligazionari, il debitore ricorrente deve estendere il proprio ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c. anche al terzo creditore pignoratizio – vero soggetto avente diritto al rimborso – al fine di dimostrarne la collusione con il creditore del ricorrente (nonché debitore pignoratizio del terzo), nel caso in cui si voglia eccepire l’exceptio doli generalis per evitare il rimborso in presenza di asseriti vizi. Infatti, ai sensi dell’art. 2014 c.c. l’emittente non può opporre al giratario in garanzia le eccezioni fondate sui propri rapporti personali col girante a meno che il giratario, ricevendo il titolo, abbia agito intenzionalmente a danno dell’emittente.
La tutela cautelare d’urgenza di un obbligo di facere infungibile indeterminato
Con riguardo alla “utilizzabilità” dello strumento cautelare ex art. 700 c.p.c. al fine di ottenere un “facere infungibile” o il mero accertamento dell’efficacia inter partes di un contratto, a fronte di una prospettazione che si caratterizza per la natura meramente negoziale dei rapporti intercorsi fra le parti e dunque per la natura di mero “inadempimento contrattuale” degli addebiti contestati, l’accertamento della validità e dell’efficacia del contratto concluso inter partes può essere solo incidentale.
Secondo lo schema tipico, un contraente che ritiene di aver diritto ad una prestazione può agire in sede cautelare al fine di veder garantito il risultato (bene della vita) finale dell’accordo, ovvero il trasferimento della proprietà di beni e partecipazioni sociali, risultato rispetto al quale l’azione di merito da proporre dovrebbe essere quella ex art. 2932 c.c., rispetto alla quale una adeguata tutela è offerta dal sequestro giudiziario ex art. 670 c.p.c.; ma non certo un facere infungibile indeterminato nel suo preciso oggetto e in quanto tale non coercibile, né in sede ordinaria, né in sede cautelare.
I doveri di controllo e la responsabilità dei sindaci
Il sistema dei controlli nelle società di capitali è un sistema composito che coinvolge una pluralità di soggetti e organi, quali gli amministratori non esecutivi e gli amministratori indipendenti, i sindaci, i revisori, il comitato per il controllo interno, l’organismo di vigilanza di cui al d.lgs. 231/01 e il dirigente preposto alla redazione dei documenti contabili societari nelle società quotate di cui all’art. 154 bis t.u.f., allo specifico fine di ottenere, grazie all’eterogeneità dei controlli, una garanzia rafforzata dell’osservanza delle regole di corretta amministrazione. La particolare conformazione della struttura societaria induce a doveri più intensi, come quando la società sia parte di un gruppo o si tratti di società a ristretta base familiare, soggetta perciò a influenze esterne anche pregiudizievoli.
La responsabilità omissiva del soggetto tenuto, per funzione, ad esercitare un controllo sull’agire di altri è per fatto proprio colpevole, purché si riscontrino la condotta almeno colposa e il nesso di causa con il danno, dovendosi ritenere ormai espunta anche dal diritto civile la responsabilità oggettiva, la responsabilità per fatto altrui o quella da mera posizione.
I doveri di controllo imposti ai sindaci ex artt. 2403 ss. c.c. sono configurati con particolare ampiezza, estendendosi a tutta l’attività sociale, in funzione della tutela non solo dell’interesse dei soci, ma anche di quello, concorrente, dei creditori sociali; né riguardano solo il mero e formale controllo sulla documentazione messa a disposizione dagli amministratori, essendo loro conferito il potere-dovere di chiedere notizie sull’andamento generale e su specifiche operazioni, quando queste possono suscitare perplessità, per le modalità delle loro scelte o della loro esecuzione. Compito essenziale è di verificare il rispetto dei principi di corretta amministrazione: dovere del collegio sindacale è di controllare in ogni tempo che gli amministratori compiano la scelta gestoria nel rispetto di tutte le regole che disciplinano il corretto procedimento decisionale, alla stregua delle circostanze del caso concreto.
Ai fini dell’affermazione della responsabilità dei membri degli organi di controllo, è sufficiente che essi non abbiano rilevato una macroscopica violazione o non abbiano in alcun modo reagito di fronte ad atti di dubbia legittimità e regolarità. Ricorre il nesso causale tra la condotta inerte antidoverosa dei sindaci di società e l’illecito perpetrato dagli amministratori, ai fini della responsabilità dei primi, secondo la probabilità e non necessariamente la certezza causale, se, con ragionamento controfattuale ipotetico, l’attivazione dei poteri sindacali avrebbe ragionevolmente evitato l’illecito, tenuto conto di tutte le possibili iniziative che il sindaco può assumere esercitando i poteri-doveri propri della carica, quali: la richiesta di informazioni o di ispezione ex art. 2403 bis c.c., la segnalazione all’assemblea delle irregolarità riscontrate, i solleciti alla revoca della deliberazione illegittima, l’impugnazione della deliberazione viziata ex artt. 2377 ss. c.c., la convocazione dell’assemblea ai sensi dell’art. 2406 c.c., il ricorso al tribunale per la riduzione del capitale per perdite ex artt. 2446 e 2447 c.c., il ricorso al tribunale per la nomina dei liquidatori ai sensi dell’art. 2487 c.c., la denunzia al tribunale ex art. 2409 c.c. ed ogni altra attività possibile ed utile.
Non è sufficiente ad esonerare i sindaci della società da responsabilità, in presenza di una illecita condotta gestoria posta in essere dagli amministratori, la dedotta circostanza di esserne stati tenuti all’oscuro o di avere assunto la carica dopo l’effettiva realizzazione di alcuni dei fatti dannosi, qualora i sindaci abbiano mantenuto un comportamento inerte, non vigilando adeguatamente sulla condotta degli amministratori, sebbene fosse da essi esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio, di modo che l’attivazione dei poteri sindacali, conformemente ai doveri della carica, avrebbe potuto permettere di scoprire le condotte illecite e reagire ad esse, prevenendo danni ulteriori.
L’obbligo di vigilanza impone – prima ancora che la verifica sulla regolarità formale degli atti e delle relazioni degli amministratori – la ricerca di adeguate informazioni, in particolare da parte dei componenti dell’organo sindacale, la cui stessa ragion d’essere è il provvedere al controllo sulla gestione. Onde sussiste la colpa in capo al sindaco già per non avere rilevato i c.d. segnali d’allarme, individuati dalla giurisprudenza anche nella stessa soggezione della società all’altrui gestione personalistica.
Le dimissioni presentate non esonerano il sindaco di società di capitali da responsabilità, in quanto non integrano un’adeguata vigilanza sull’operato altrui e sullo svolgimento dell’attività sociale, per la pregnanza degli obblighi assunti proprio nell’ambito della vigilanza sull’operato altrui e perché la diligenza richiesta al sindaco impone, piuttosto, un comportamento alternativo; le dimissioni diventano anzi esemplari della condotta colposa tenuta dal sindaco, rimasto indifferente ed inerte nel rilevare una situazione di reiterata illegalità.
Neppure l’essere stato designato alla carica solo dopo la commissione dell’illecito è di per sé circostanza sufficiente ad esimere il sindaco da responsabilità, in quanto l’accettazione della carica comporta comunque l’assunzione dei doveri di vigilanza e di controllo; né la responsabilità per il ritardo nell’adozione delle misure necessarie viene meno per il fatto imputabile al precedente amministratore, una volta che, assunto l’incarico, fosse esigibile lo sforzo diligente di verificare la situazione e porvi rimedio.
Ai fini dell’esonero dalla responsabilità è necessario invece che i componenti dell’organo di controllo – gravati dal relativo onere probatorio a fronte dell’allegazione dell’inerzia e della prova del fatto illecito gestorio da parte dell’attore – abbiano esercitato o tentato di esercitare l’intera gamma dei poteri istruttori ed impeditivi affidatigli dalla legge, fino alla denuncia all’autorità giudiziaria civile e penale, in mancanza delle quali concorrono nell’illecito civile commesso dagli amministratori della società per omesso esercizio dei poteri-doveri di controllo loro attribuiti per legge. Anche la semplice minaccia di ricorrere ad un’autorità esterna può costituire deterrente, sotto il profilo psicologico, al proseguimento di attività antidoverose da parte dei delegati; la condotta impediente omessa va valutata nel contesto complessivo delle concrete circostanze, in quanto l’inerzia del singolo, nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo degli altri acquista efficacia causale, dato che, all’opposto, una condotta attiva giova a rompere il silenzio sollecitando, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione un analogo atteggiamento degli altri.
La responsabilità dell’amministratore di società di capitali per il ritardo nell’adozione delle misure necessarie a contenere le perdite e per la mancata richiesta di fallimento nonostante la vistosità ed irreversibilità del dissesto non viene meno per effetto della responsabilità del precedente amministratore nell’aver occultato detto stato, una volta che di questo egli abbia avuto contezza.