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Art. 1375 c.c.
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16 Giugno 2022

Il diritto di recesso nelle s.r.l.: ipotesi legali e termine per l’esercizio

Le ipotesi legali di recesso dei soci di s.r.l., previste dall’art. 2473 c.c., sono da considerarsi inderogabili e non sopprimibili dall’autonomia privata.

L’introduzione all’interno dello statuto sociale di una previsione che imponga la gratuità di tutti i finanziamenti concessi dai soci in occasione di un eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto societario costituisce un’ipotesi di mutamento significativo dell’oggetto e delle norme di funzionamento societario e, pertanto, legittima il recesso ex art. 2473 c.c.

Legittima altresì il recesso ex art. 2473, comma 2, c.c. una modifica statutaria che renda la durata della società superiore alla vita media di un essere umano. Il parametro della vita media deve valutarsi, caso per caso, in considerazione dell’età anagrafica del socio interessato a recedere.

Quanto ai termini e alle modalità per l’esercizio del recesso, l’art. 2473 c.c. non detta regole precise in merito e la relativa regolamentazione deve, pertanto, intendersi rimessa all’autonomia statutaria.
In assenza di una specifica disciplina statutaria, non possono applicarsi in via analogica le disposizioni dettate in materia di società per azioni, poiché la disciplina del recesso nell’ambito delle s.r.l., quanto a presupposti e finalità, non risponde alla medesima ratio del recesso nelle s.p.a.

Di conseguenza, nel caso in cui lo statuto non determini i tempi per l’esercizio del recesso, non si dovrà fare riferimento al termine di 15 giorni indicato dall’art. 2437-bis c.c. in materia di s.p.a., ma ai principi di diritto comune, riguardanti l’interpretazione e l’esecuzione del contratto secondo buona fede ex art. 1375 c.c.

Ne deriva che il termine per l’esercizio del recesso dovrà essere determinato in base al caso concreto. Il giudice di merito dovrà valutare di volta in volta le concrete modalità del suo esercizio e, in particolare, la congruità del termine entro il quale il recesso è stato esercitato, tenuto conto della pluralità degli interessi coinvolti [nel caso di specie, è stato ritenuto tempestivo il recesso esercitato entro 30 giorni dalla data in cui il socio è venuto a conoscenza della delibera che legittima il recesso].

30 Marzo 2022

Assemblea totalitaria e abuso di maggioranza

Nel caso di mancata convocazione dell’assemblea, l’art. 2379 bis c.c. preclude al socio che, pur non essendovi convocato, abbia partecipato e ne abbia consentito lo svolgimento, di impugnare la delibera esitata dall’assemblea. In altre parole, per quell’ipotesi di totale compromissione del diritto d’informazione del socio, cui la convocazione è preordinata, in omaggio al principio generale immanente nel sistema del diritto societario – di garantire, il più possibile, la stabilità delle decisioni assembleari – il legislatore ha inteso prevedere un’ipotesi di nullità sanabile.

Di fronte a un’assemblea totalitaria, l’accertamento della presenza dell’intero capitale sociale e della maggioranza dei componenti degli organi amministrativi e di controllo esclude la rilevanza della mancanza delle formalità previste per la convocazione, il cui astratto rilievo officioso rimane neutralizzato. Tale assemblea ha competenza generale, senza che rilevi l’eventuale violazione delle norme che disciplinano la convocazione.

La disciplina dell’assemblea totalitaria contenuta al comma 4 dell’art. 2366 c.c. è da ritenersi applicabile anche alle assemblee di s.r.l.

L’esecuzione del contratto di società deve essere improntata ai ben noti canoni di correttezza e buona fede e l’abuso di maggioranza (c.d. abuso, o eccesso, di potere) può condurre all’annullamento delle deliberazioni assembleari allorquando le stesse non trovino alcuna giustificazione nell’interesse sociale – per essere il voto ispirato al perseguimento da parte dei soci di maggioranza di un interesse personale antitetico a quello sociale – oppure sia il risultato di una intenzionale attività fraudolenta dei soci maggioritari diretta a provocare la lesione dei diritti di partecipazione e degli altri diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.

Nel nostro ordinamento non esiste una norma che identifichi espressamente la figura dell’abuso di potere nelle deliberazioni assembleari, anche se, da tempo, si ammette l’esistenza di tale fattispecie, riferendola alle ipotesi di applicazione non corretta del principio maggioritario; più precisamente, tale figura giuridica non tipizzata si estrinseca nell’esercizio del diritto di voto da parte del socio di maggioranza a danno degli altri soci, tramite l’adozione di una delibera assembleare lesiva degli interessi della minoranza, ovvero, in alternativa, in contrasto con l’interesse sociale.

Il cosiddetto abuso della regola di maggioranza costituisce una species del ben più ampio genus dell’abuso del diritto, al quale si riconducono tutte quelle ipotesi in cui un comportamento, che formalmente rappresenta l’esercizio di un diritto soggettivo, è sprovvisto di tutela giuridica o comunque illecito in quanto svolto in violazione delle regole generali di buona fede e correttezza, le quali sono di applicazione generale a tutti i rapporti giuridici obbligatori e, tra questi, anche a quelli derivanti dal contratto di società. Sussiste, infatti, la figura dell’abuso quando la decisione dell’assemblea risulta arbitrariamente o fraudolentemente preordinata dai soci di maggioranza allo scopo di perseguire interessi divergenti da quelli societari, ovvero per ledere i diritti del singolo partecipante.

15 Dicembre 2021

Abuso di dipendenza economica e responsabilità da direzione e coordinamento. Danno diretto e danno riflesso

La disciplina ex art. 2497 c.c. è specificatamente volta alla tutela dei soci di minoranza di società eterodirette, l’abuso nei confronti delle quali da parte della controllante si sia risolto in un pregiudizio al patrimonio dell’eterodiretta, comportante anche una diminuzione del valore della partecipazione dei soci di minoranza, i quali, in questa peculiare situazione, sono legittimati dalla norma a far valere, contrariamente alla regola generale, un proprio danno riflesso, non essendo plausibile, data la situazione di direzione e coordinamento esistente, che il danno diretto subito dal patrimonio della eterodiretta sia oggetto esso stesso di azioni risarcitorie e quindi potendosi escludere una duplicazione risarcitoria.

Proprio in relazione a tale finalità della disciplina, la responsabilità della società esercente attività di direzione e coordinamento viene quindi esclusa dall’ultima parte del primo comma dell’art. 2497 c.c. nel caso in cui il danno risulti mancante alla luce del risultato complessivo dell’attività di direzione e coordinamento, ovvero sia integralmente eliminato anche a seguito di operazioni a ciò dirette. Tale esclusione deve essere estesa, secondo la ratio della norma, anche all’ipotesi in cui il pregiudizio subito direttamente dalla società eterodiretta sia stato azionato da quest’ultima, poiché l’accoglimento sia della pretesa azionata dalla società eterodiretta sia di quella azionata dai soci della stessa verrebbe a rappresentare una duplicazione delle poste risarcitorie.

Qualora una società di capitali subisca un danno per effetto dell’illecito commesso da un terzo, ancorché esso possa incidere negativamente sui diritti attribuiti al socio dalla partecipazione sociale, nonché sulla consistenza di questa, il diritto al risarcimento compete solo alla società e non anche a ciascuno dei soci, in quanto l’illecito colpisce direttamente la società e il suo patrimonio, obbligando il responsabile al relativo risarcimento, mentre l’incidenza negativa sui diritti del socio, nascenti dalla partecipazione sociale, costituisce soltanto un effetto indiretto di detto pregiudizio e non una conseguenza immediata e diretta dell’illecito.

La partecipazione sociale in una società di capitali costituisce un bene giuridicamente distinto e autonomo dal patrimonio sociale, come tale inidoneo a venire direttamente danneggiato da vicende legate all’inadempimento contrattuale di un terzo nei confronti della società, attesa la natura meramente riflessa che il pregiudizio patrimoniale conseguente può produrre sul valore della quota di partecipazione. Ne consegue che, posta la netta separazione tra il patrimonio sociale e quello del socio, anche nell’ipotesi di partecipazione totalitaria, qualsiasi danno che colpisce direttamente il patrimonio della società può avere un’incidenza meramente indiretta sulla quota medesima e, conseguentemente, non è suscettibile di autonoma risarcibilità.

La domanda che sia fondata su una pretesa di abuso di dipendenza economica, e cioè di eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi negli esistenti rapporti commerciali regolati da un contratto, ai fini della determinazione della competenza giurisdizionale rientra nella materia contrattuale, posto che la linea di demarcazione tra controversia contrattuale e quella relativa a delitti o quasi delitti è costituita dalla circostanza che nella prima vi deve essere prospettata una censura attinente alla mancata o imperfetta esecuzione di un programma di comportamento dovuto dal convenuto e non la semplice e autonoma lesione di un bene della vita tutelato in quanto tale dal diritto oggettivo. Rientrano, pertanto, nelle controversie di natura contrattuale non solo quelle riguardanti il mancato adempimento di un obbligo di prestazione di fonte negoziale (controversie pacificamente contrattuali), ma in genere le controversie in cui l’attore, allegando l’esistenza di una regola di condotta legata ad una relazione liberamente assunta tra lui e l’altra parte ne lamenti la violazione da parte di quest’ultima. In altri termini, va qualificata come controversia in materia contrattuale quella tra due soggetti, che non si pongono l’un l’altro come due consociati non relazionati reciprocamente, ma come soggetti che hanno già instaurato un rapporto di natura commerciale, dal quale ognuno attende che l’altro non ne abusi, ma tenga un comportamento determinato.

Anche nei confronti delle persone giuridiche, e in genere degli enti collettivi, è configurabile il risarcimento del danno non patrimoniale, qualora il fatto lesivo incida su una situazione giuridica della persona giuridica o dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana costituzionalmente protetti, qual è il diritto all’immagine, determinando una diminuzione della considerazione dell’ente o della persona giuridica da parte dei consociati in genere, ovvero di settori o categorie di essi, con le quali il soggetto leso di norma interagisca.

6 Dicembre 2021

Cumulo delle domande cautelari ex art. 2476, co. 2 e 3 c.c. e istanza di nomina del curatore speciale

La domanda cautelare di revoca dell’amministratore di S.r.l. può essere proposta ante causam e il relativo provvedimento ha natura anticipatoria, poiché il dato letterale dell’art. 2476, co. 3 c.c. non implica la necessaria consecuzione e/o contestualità tra la domanda risarcitoria e quella di revoca, come invece espressamente enunciato dall’art. 2378 c.c. in tema di sospensione dell’efficacia delle delibere assembleari.

A seguito della riforma del 2003, gli amministratori privi di deleghe non sono più gravati da un generale potere-dovere di vigilanza, ma restano tenuti all’adempimento degli obblighi previsti dall’art. 2381, co. 3 e 6 c.c. e, dunque, ad agire sulla base delle informazioni fornite dagli amministratori delegati ovvero, in mancanza, a sollecitare tali informazioni quando avrebbero dovuto rilevare, secondo la diligenza propria della carica, la presenza di segnali di allarme.

Il diritto di ispezione e controllo di cui all’art. 2476, co. 2 c.c. compete anche al socio amministratore di S.r.l. che non abbia in tutto o in parte partecipato alla gestione societaria compiuta dagli altri amministratori.

Il diritto del socio di esercitare il controllo, anche tramite l’accesso ai documenti, non può pregiudicare il diritto della società a mantenere la riservatezza su dati sensibili che il socio potrebbe utilizzare commercialmente contro di lei. Tale rischio di strumentalizzazione è più evidente quando il socio si trova in una posizione di potenziale concorrenza, perché opera nel medesimo settore e non è vincolato da un patto di esclusiva a favore della società né da un patto di non concorrenza sufficientemente stringente.

Alla luce dell’obbligo di buona fede oggettiva, il diritto di ispezione e controllo del socio può essere limitato mediante il mascheramento preventivo dei dati sensibili presenti nella documentazione (come i dati relativi ai nominativi di clienti e fornitori), laddove alle esigenze di controllo individuale nella gestione sociale – cui è preordinato il diritto del socio – si contrappongano non pretestuose esigenze di riservatezza fatte valere dalla società.

Il giudizio di bilanciamento tra i contrapposti interessi del socio da un lato e della società dall’altro dev’essere condotto in concreto, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso: non solo perché i dati sensibili strumentalmente impiegabili possono essere diversi caso per caso, ma anche e soprattutto perché la riservatezza non può costituire un pretesto per coprire le irregolarità gestorie degli amministratori né per frustrare le valutazioni del socio prodromiche ad un’eventuale azione di responsabilità, il cui risultato utile va a vantaggio della società stessa.

A fronte del cumulo delle domande cautelari di cui agli artt. 2476, co. 2 e 3 c.c., è fondata l’istanza di nomina di un curatore speciale che garantisca l’effettivo e immediato esercizio dei diritti di ispezione e controllo del socio, dal momento che l’ordinanza è pronunciata nei confronti della società, ma richiede una cooperazione all’adempimento degli amministratori che, in ragione dell’esecutività dell’ordinanza di revoca, devono intendersi immediatamente cessati dalla carica.

Ai sensi dell’art. 669-duodecies c.c., l’attuazione di un provvedimento cautelare d’urgenza deve avvenire sotto il controllo del giudice che lo ha emesso e ciò consente a quest’ultimo di anticipare al momento della pronuncia la nomina del curatore che dovrà ottemperare all’esibizione e/o al rilascio di copia della documentazione richiesta.

26 Novembre 2021

Aumento di capitale di Banca Carige

L’art. 2379 ter, co. 2, c.c. si riferisce anche ai casi di annullabilità della delibera. Tale disposizione, dando attuazione all’intento della riforma del 2003 di conferire massimo grado di certezza e stabilità alle deliberazioni societarie, preclude l’impugnazione, e dunque anche la sospensione, delle deliberazioni di aumento di capitale delle s.p.a. aperte, ricollegando l’effetto preclusivo all’iscrizione nel registro delle imprese dell’attestazione della sua esecuzione, anche parziale. La norma intende escludere la relativa tutela reale, impedendo, pur in presenza di vizi di legittimità che determinerebbero l’annullabilità o la nullità della delibera, che, a mezzo dell’impugnazione, l’aumento di capitale sia bloccato temporaneamente (con la sospensione) o definitivamente, totalmente o parzialmente.

L’art. 147 t.u.f., ponendo a carico del rappresentante comune degli azionisti di risparmio gli obblighi e i poteri previsti dall’art. 2418 c.c., gli attribuisce il compito di tutelarne gli interessi comuni, che non comprendono i diritti soggettivi dei singoli azionisti. Il riconoscimento in capo al rappresentante comune della rappresentanza processuale della categoria degli azionisti di risparmio deve essere interpretato restrittivamente, in quanto costituisce un’eccezione al principio generale stabilito dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. Il criterio distintivo per l’individuazione delle domande che il rappresentante comune è legittimato a proporre è rappresentato dall’interesse comune degli azionisti di risparmio: quando la domanda è volta a tutelare una pluralità di interessi individuali, difetta la ratio che ha portato al conferimento del potere di rappresentanza processuale in favore del rappresentante comune.

L’ordinamento assicura al socio, allo scopo di preservare l’interesse economico alla conservazione e alla reddittività del suo investimento, la possibilità di essere attivamente partecipe nell’organizzazione societaria e quindi di incidere sull’assetto societario sia tramite il diritto di voto, che tramite il diritto all’impugnazione delle delibere. Il diritto partecipativo del socio consente a quest’ultimo di influire sulla attività della società, oltre che a reagire ad una deliberazione assembleare viziata. Pertanto, il comportamento del socio che, partecipando all’assemblea ed esprimendo il proprio voto contrario, avrebbe potuto impedire l’adozione di una determinata delibera e, successivamente, omesso anche di chiedere la sospensione dell’esecuzione, domandi il risarcimento del danno prodotto dalla medesima deliberazione deve ritenersi abusiva. La strada percorsa dalla riforma del diritto societario del 2003 è stata quella di riconoscere la legittimazione all’azione di annullamento delle delibere delle società per azioni ai soci ordinari muniti del diritto di voto che rappresentano una determinata parte del capitale sociale (l’uno per mille nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) e di prevedere per i soci ordinari che non sono legittimati all’impugnativa il diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della delibera alla legge o allo statuto. La tutela risarcitoria, dunque, muove, in linea di principio, da un’esigenza di tutela del socio di minoranza cui verrebbe imposta dalla maggioranza una delibera illegittima o illecita. Di conseguenza, la domanda risarcitoria avanzata dal socio titolare di una partecipazione che gli consentirebbe di agire per l’annullamento della delibera non è meritevole di accoglimento, sia per violazione dell’art. 1227 c.c., che esclude il diritto al risarcimento dei danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, sia in ragione del divieto di venire contra factum proprium, espressione del divieto di abusare di un proprio diritto attraverso un uso strumentale di esso, sia per contrarietà ai canoni di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., applicabili anche all’esecuzione del contratto sociale.

L’art. 2372 c.c. prevede che coloro ai quali spetta il diritto di voto possono farsi rappresentare nell’assemblea e che la rappresentanza debba essere conferita per iscritto. Inoltre, ai sensi dell’art. 135 undecies t.u.f., la società con azioni quotate, salvo diversa clausola statutaria, deve designare per ciascuna assemblea un rappresentante, al quale i titolari del diritto di voto possano conferire una delega con istruzioni di voto su tutte o su alcune delle proposte all’ordine del giorno. Il contenuto del modulo di delega e le modalità di esercizio del voto sono disciplinate dall’art. 134 del Regolamento Emittenti. Ai sensi dell’art. 135 undecies, co. 2, t.u.f., dunque, la delega per le società con azioni quotate viene rilasciata, nel pieno rispetto della forma scritta prescritta dall’art. 2372, co. 1 c.c., mediante la sottoscrizione di un modulo di delega, il cui contenuto minimo è disciplinato dal Regolamento Emittenti. La ratio dell’art. 135 undecies t.u.f. è quella di agevolare la larga partecipazione al voto a mezzo di delega nelle società quotate ad azionariato diffuso, per le quali è prevista obbligatoriamente, salvo diversa disposizione statutaria, la figura del rappresentante designato. In tal caso, i requisiti di forma previsti dalla legge risultano attenuati, in ragione dell’affidabilità del medesimo rappresentante designato, soggetto professionalmente qualificato, e sono limitati alla compilazione del modulo di delega, che deve contenere almeno i dati del modello 5A allegato al Regolamento Emittenti e deve essere compilato con l’inserimento di indicazioni specifiche sul documento di identità, sul potere di firma e sui titoli azionari detenuti dal delegante. Diverso è il caso all’art. 135 novies t.u.f., che regola il rilascio della delega individuale dal socio al rappresentante, con facoltà di designare uno o più sostituti o di autorizzare il delegato a farsi sostituire da un soggetto di propria scelta. Tale disposizione, per garantire la certezza sulla provenienza dell’atto di delega, sul suo contenuto e sull’identità del delegante, prevede al quinto comma che il rappresentante possa, in luogo dell’originale, consegnare o trasmettere una copia, anche su supporto informatico, della delega attestando sotto la propria responsabilità la conformità all’originale e l’identità del delegante. È previsto inoltre che il rappresentante conservi l’originale della delega e tenga traccia delle istruzioni di voto eventualmente ricevute per un anno a decorrere dalla conclusione dei lavori assembleari.

Come per le scelte di gestione adottate dagli amministratori e dai liquidatori di società, così anche per quelle dei commissari straordinari vige la business judgment rule, in base alla quale, salvo manifesta irragionevolezza delle scelte, desumibile dal fatto che non siano state adottate le necessarie cautele ed assunte le informazioni rilevanti, esse sono tendenzialmente insindacabili in sede giudiziale. È, dunque, in termini di ragionevolezza che deve essere valutata la scelta dei commissari in ordine alla limitazione del diritto di opzione dei soci ordinari sull’aumento di capitale. In particolare, per escludere o limitare il diritto d’opzione è sufficiente che l’interesse sociale sia serio e consistente, tale da giustificare che, nella scelta del modo di realizzare l’aumento di capitale, sia ritenuto preferibile, perché ragionevolmente più conveniente, il sacrificio totale o parziale del diritto di opzione dei soci.

Per interpretare correttamente l’art. 2441, co. 6, c.c., occorre considerare che il riferimento al “valore del patrimonio netto” (e non al “patrimonio netto”) attiene al valore effettivo del patrimonio, quale risultante da un processo valutativo e non al suo valore contabile quale risultante dal bilancio. Ciò comporta che in determinate circostanze l’assemblea possa discostarsi dal valore contabile e fissare un prezzo ancora più basso, se ciò si renda necessario per il buon esito dell’aumento di capitale. Inoltre, la determinazione del prezzo di emissione delle nuove azioni in caso di esclusione del diritto d’opzione non può essere frutto di una mera operazione aritmetica consistente nel dividere il patrimonio netto per il numero delle azioni in circolazione, in quanto è lo stesso art. 2441, co. 6, c.c. a prevedere che gli amministratori debbano illustrare in una apposita relazione per l’assemblea i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione e il collegio sindacale (o, nelle società quotate, la società di revisione) debba esprimere il proprio parere sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni. La determinazione del prezzo di emissione, nel caso di aumento del capitale con esclusione del diritto d’opzione, è, dunque, espressione di una valutazione che deve contemperare diversi interessi: da una parte, l’interesse dei vecchi soci a che le azioni non vengano offerte ai nuovi soci ad un prezzo più basso di quello effettivo e, dall’altra, l’interesse della società a realizzare l’aumento di capitale, interesse che sarebbe vanificato se l’assemblea fosse costretta a fissare un prezzo troppo alto, slegato dall’effettivo valore delle azioni, in quanto nessun terzo sarebbe mai interessato a sottoscrivere azioni a un prezzo più alto di quello effettivo.

Il valore di mercato di un titolo azionario dipende normalmente dalla diversità dei diritti che il titolo incorpora: il mercato esprime, infatti, una stima in termini economico-patrimoniali di tali diritti. Di conseguenza, non potrebbe ritenersi arbitrario un rapporto di cambio che sia differenziato in ragione delle diverse quotazioni delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio della società incorporata. Tali quotazioni sono, infatti, in grado di pesare i diritti patrimoniali e amministrativi propri delle due categorie di azioni. La determinazione del valore delle azioni sulla base delle quotazioni ricevute sul mercato costituisce, del resto, un criterio non solo rispondente a un canone di ragionevolezza, ma sintomaticamente fatto proprio dal legislatore, se pure ad altri fini. Vanno citati, in proposito, l’art. 2437 ter c.c. sui criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso del socio, che impone, salvo diverse disposizioni statutarie, di liquidare le azioni quotate sui mercati regolamentati facendo riferimento alla media dei prezzi di chiusura delle medesime nell’ultimo semestre, e l’art. 2441 c.c., sul diritto di opzione in caso di nuove emissioni di azioni o di obbligazioni convertibili, che prescrive di tener conto, nel prezzo delle azioni quotate, oltre che del patrimonio netto, anche dell’andamento delle quotazioni per lo stesso arco di tempo. Sono, queste, disposizioni che oltretutto sconfessano, sul piano del diritto positivo, l’assunto secondo cui il valore delle azioni vada meccanicamente ricavato dalla quota di patrimonio che nominalmente rappresentano: ed è, anzi, significativo che l’art. 2437 ter, co. 1, c.c. richieda agli amministratori di tener conto dell’eventuale valore di mercato delle azioni anche per i titoli non quotati.

13 Ottobre 2021

Sostituzione della delibera assembleare impugnata: profili processuali

La produzione in giudizio della delibera assembleare sostitutiva della delibera impugnata è ammissibile ancorché tale circostanza sia stata dedotta, da parte della società convenuta, nella fase decisoria (nella specie, in comparsa conclusione), trattandosi di un’evenienza espressamente prevista dall’art. 2377, co. 8 c.c., di cui il Tribunale deve prendere atto quale evento ostativo ad una pronuncia di annullamento.

Nel giudizio di invalidità della prima delibera non può trovar luogo alcuna valutazione delle eccezioni sollevate dall’attore in relazione all’invalidità della delibera sostitutiva, posto che l’invalidità delle delibere assembleari può essere fatta valere solo in via di azione, dovendo pertanto il giudice limitarsi a verificare l’effettiva portata sostitutiva della seconda delibera.

La sostituzione della delibera comporta la chiusura del giudizio con una pronuncia non già di cessazione della materia del contendere, bensì di sopravvenuta carenza di interesse ad agire dell’attore: la sostituzione, infatti, determina il venir meno dell’utilità dell’impugnazione, dal momento che la delibera impugnata è già stata privata di effetti dalla sua sostituzione endo-societaria, così che all’accoglimento della domanda non conseguirebbe alcun effetto utile per l’attore.

Nel giudizio di impugnazione di una delibera di approvazione del bilancio per violazione degli obblighi di cui all’art. 2429 c.c., il rifiuto opposto dal socio di ricevere via e-mail la documentazione che avrebbe dovuto essere depositata presso la sede sociale costituisce condotta contraria all’obbligo di buona fede oggettiva ex art. 1375 c.c.: in caso di sostituzione della delibera impugnata, tale condotta consente di superare la presunzione di fondatezza dell’impugnazione, che sta alla base della previsione dell’art. 2377, co. 8 c.c. sulla ripartizione delle spese di lite e ne giustifica l’integrale compensazione.

14 Luglio 2021

Principi in tema di OPA

Nel caso di subentro di un nuovo azionista nel controllo della società, il principio della parità di trattamento tra azionisti ex art. 92 TUF si esprime, assicurando parità di trattamento economico tra il socio di controllo uscente e gli azionisti di minoranza, nei termini previsti dalle disposizioni sulle offerte pubbliche di acquisto e scambio e in particolare sull’OPA obbligatoria prevista agli artt. 105 ss. TUF.

Il meccanismo legale dell’OPA obbligatoria, oltre che ad assicurare un buon funzionamento del mercato finanziario, è destinato a realizzare il soddisfacimento di un interesse in capo ai soci di minoranza della società, i quali possono scegliere se conservare la titolarità delle loro azioni, confidando in un futuro aumento del valore e della redditività delle stesse, o se monetizzarle per beneficiare anch’essi del premio di maggioranza.

La “collusione” tra l’offerente o le persone che agiscono di concerto con il medesimo e uno o più venditori (art. 106 TUF), circostanza che giustifica un provvedimento di rettifica del prezzo da parte della Consob, può consistere in qualsiasi operazione collegata idonea a recepire, e quindi occultare, parte del valore della cessione.

Nella disciplina dell’OPA, non è configurabile un abuso nella dialettica tra maggioranza e minoranza, in quanto la maggioranza non ha il potere di obbligare gli altri soci, ancorché dissenzienti. Infatti, all’obbligo dell’acquirente di una partecipazione rilevante di promuovere un’offerta pubblica d’acquisto ex art. 106 TUF corrisponde la piena facoltà di scelta di ciascun azionista destinatario dell’offerta se vendere le sue azioni al prezzo fissato oppure conservarle. Dunque, si deve escludere che la negoziazione del pacchetto di controllo, a cui segua un’OPA obbligatoria, possa qualificarsi come condotta abusiva, stante il fatto che tale vendita, pur potendo orientare i corsi di Borsa, non vincola a loro volta gli azionisti di minoranza a vendere, né a vendere al medesimo prezzo.

Il criterio della “ragionevole prevedibilità” di verificazione di una serie di circostanze, finalizzata all’individuazione del perimetro delle “informazioni privilegiate” (la cui definizione al tempo si trovava nell’art. 181 TUF, oggi all’interno dell’art. 7 Regolamento UE n. 596/2014), serve a distinguere le circostanze o gli eventi futuri di cui appare, sulla base di una valutazione globale degli elementi già disponibili, che vi sia una concreta prospettiva che essi verranno ad esistere o che si verificheranno rispetto a notizie generiche, situazioni ancora fluide o dai contenuti indefiniti.

Contratto di acquisizione di partecipazioni sociali: sopravvenienze passive e obbligo di indennizzo

In tema di contratto di acquisizione di partecipazioni sociali, è legittima la pretesa di indennizzo da parte dell’acquirente nei confronti dei venditori, qualora nel contratto di acquisizione le parti abbiano convenuto un obbligo di manleva, ai sensi del quale i venditori si sono impegnati ad indennizzare l’acquirente in relazione a sopravvenienze passive della società oggetto di acquisizione maturate successivamente alla data di trasferimento delle partecipazioni, ma per condotte riferibili ad un periodo antecedente.

A tal proposito, al verificarsi di tale evento, è conforme ai principi di buona fede e correttezza contrattuale la richiesta avanzata dall’acquirente ai venditori di indicare eventuali ragioni idonee a contestare la pretesa del terzo e, quindi, ad evitare la possibile formazione di una sopravvenienza passiva (e la conseguente attivazione di tale garanzia).

6 Luglio 2021

La natura della clausola di earn-out e la conseguente insussistenza di un obbligo legale di rinegoziazione.

Le clausole di earn-out sono clausole atipiche di fonte esclusivamente convenzionale: pertanto, essendo originate dall’esercizio dell’autonomia privata delle parti ed in assenza di diretti riferimenti normativi, devono essere interpretate dal Giudice nel rigoroso rispetto del regolamento d’interessi trasfuso dalle parti nella disciplina contrattuale, in applicazione dei principi ex artt. 1362 ss. c.c. Ciò trova, peraltro, un ulteriore riscontro nella natura ontologicamente aleatoria del meccanismo stesso dell’earn-out, alla stregua del quale l’an e il quantum dell’obbligazione di pagamento del segmento di prezzo supplementare sono influenzati dal verificarsi di condizioni o eventi incerti, specificatamente individuati dalle parti nell’accordo di cessione parziale o totale di partecipazioni sociali, al verificarsi dei quali opera tale clausola.

Nel caso di specie, con riferimento all’avveramento di un rischio espressamente preso in considerazione dalle parti nella formulazione di una clausola di earn-out inserita in un Accordo Quadro relativo alla cessione di partecipazioni in una società a responsabilità limitata, il Tribunale ha rilevato l’insussistenza di un obbligo di rinegoziazione della suddetta clausola ex artt. 2 Cost., 1175 e 1375 c.c., non essendo tale obbligo testualmente previsto dal contratto. Dunque, illegittima è apparsa la richiesta di parte attrice di invocare l’inadempimento di un obbligo legale di rinegoziazione del contratto al solo fine di sottrarsi al fisiologico verificarsi di una delle condizioni al cui verificarsi è subordinata l’operatività della clausola di earn-out. [Nello specifico, la clausola di earn-out concerneva la possibilità – poi effettivamente realizzatasi – per una delle parti di farsi riconoscere una somma significativamente minore rispetto a quella originariamente pattuita nella suddetta clausola, mediante un successivo accordo transattivo con le controparti pubbliche e secondo termini non manifestamente irragionevoli né contrari a buona fede].