L’annullabilità del contratto per abuso di potere rappresentativo nelle S.r.l.

L’art. 2475-ter c.c. riproduce per le S.r.l. la regola generale sancita dall’art. 1394 c.c., prevedendo l’annullabilità, su domanda della società, dei contratti conclusi dagli amministratori che ne hanno la rappresentanza, quando questi hanno agito in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo.

Affinché sussista un conflitto di interessi idoneo ad annullare il contratto, è necessario che il rappresentante persegua interessi incompatibili con quelli del rappresentato, di talché la salvaguardia dei primi impedisce al rappresentante di tutelare adeguatamente quelli facenti capo al dominus. Tale valutazione va condotta non in termini ipotetici o astratti, ma con riferimento alle caratteristiche concrete del negozio, al fine di verificare se la creazione dell’utile per una parte implichi il sacrificio dell’altra.

L’esistenza di un conflitto d’interessi tra la società e il proprio amministratore non può essere fatta discendere da un’aprioristica considerazione della soggettiva coincidenza dei ruoli di amministratore delle due società contraenti, ma dev’essere accertata in concreto, sulla base di una comprovata relazione antagonistica di incompatibilità degli interessi di cui sono portatori, rispettivamente, la società e il suo amministratore.

30 Giugno 2022

Legittimazione attiva all’impugnativa di delibere assembleari in caso di comproprietà del pacchetto azionario e nullità delle delibere di approvazione del bilancio di esercizio

La nomina necessaria del rappresentante comune priva i singoli comproprietari della quota dell’esercizio dei propri diritti, in quanto il loro interesse cede rispetto a quello della società di avere un unico interlocutore così da evitare che la situazione di comproprietà si trasformi in un ostacolo all’attività societaria. La legittimazione sostanziale del rappresentante comune priva i comproprietari della quota, ancorché agiscano di concerto, del potere di impugnativa, quale riflesso dell’esercizio dei diritti sociali; invero, l’art. 2347, co. 1, c.c., nel conferire alla partecipazione azionaria il carattere della indivisibilità, ha considerato indispensabile, in relazione alle esigenze peculiari della organizzazione societaria e alla natura del bene in comunione, la unitarietà dell’esercizio dei diritti, impedendone, quanto meno nei rapporti esterni, il godimento e l’amministrazione in forma individuale; e ciò al fine, da un lato, di evitare che contrasti interni si riflettano sulle attività assembleari e, dall’altro, di garantire certezza e stabilità alle deliberazioni assunte, correttamente approvate con la conseguenza che se l’intervento in assemblea e il diritto di voto in via esclusiva competono al rappresentante comune, la impugnazione prevista dagli artt. 2377 e 2379 c.c., non può che essere a lui attribuita. Anche nell’ipotesi in cui l’impugnazione sia esercitata unitariamente da tutti i comproprietari del titolo azionato il diritto processuale di impugnativa è riservato al rappresentante comune, dovendosi ritenere che il legislatore abbia valutato a priori – attraverso la previsione della nomina obbligatoria di un rappresentante comune senza eccezione – che non sia opportuna la verifica nei singoli casi dell’eventuale comunione di intenti dei comproprietari, essendo prevalente l’interesse a che la società, a fronte della comunione, a qualsiasi titolo, della quota di partecipazione azionaria, debba confrontarsi con un unico centro di interessi costituito, appunto, dal rappresentante comune.

Rientrano nel novero delle delibere nulle, in quanto aventi un oggetto illecito ex art. 2379 c.c., le delibere con cui risulta approvato un bilancio non conforme ai principi di cui all’art. 2423 c.c., ovvero in violazione di tutte le altre norme dettate in materia di bilancio, sicchè l’impugnativa può essere promossa da chiunque vi abbia interesse. Trattasi, infatti, di norme imperative inderogabili, poste a tutela di interessi generali che trascendono i limiti della compagine sociale e riguardano anche i terzi, destinatari delle informazioni sulla situazione patrimoniale, economica e finanziaria della società, i quali possono agire in giudizio previa allegazione di un’incidenza negativa nella loro sfera giuridica delle irregolarità denunciate riguardo al risultato economico della gestione sociale. Il pregiudizio lamentato derivante dalla decisione impugnata, che l’attore ha l’onere di dimostrare in giudizio quale presupposto del suo interesse ad agire ex art. 100 c.p.c. e che deve sussistere non solo al momento della proposizione della domanda, ma anche al momento della decisione, non deve essere necessariamente di carattere economico – ipotesi che si verifica ad esempio nel caso di perdita di valore o redditività della partecipazione, laddove l’attore agisce in qualità di socio –, potendo anche consistere nella lesione del diritto a ricevere dal bilancio un’informazione corretta in merito alla consistenza patrimoniale della società ed alla sua efficienza economica.

Nel caso dell’azione volta a far dichiarare la nullità di una deliberazione assembleare approvativa del bilancio di esercizio di una società, l’attore, che assuma di aver subito un pregiudizio a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più poste contenute in bilancio, ha l’onere di enunciare quali siano esattamente le poste iscritte in violazione dei principi legali vigenti e il giudice dovrà valutare se quanto prospettato configuri o meno il pregiudizio al diritto di informazione di cui il socio è portatore; l’esame delle singole poste e la verifica della loro conformità ai precetti legali è, tuttavia, compito logicamente successivo, che attiene al giudizio di fondatezza della domanda, ma non al requisito dell’interesse ad agire.

La mancata indicazione dell’identità dei partecipanti all’assemblea nel verbale della stessa determina la sola annullabilità della delibera; ciò in quanto con riferimento alla verbalizzazione della delibera assembleare l’art. 2379, co. 3, c.c. sanziona con la nullità esclusivamente l’ipotesi di verbale mancante, che si realizza quando esso è omesso o è carente in uno dei requisiti specificatamente previsti dalla norma, in cui non rientra la mancata indicazione dei partecipanti.

14 Giugno 2022

Sindacabilità delle scelte gestorie dell’amministratore in conflitto di interessi

Nel caso in cui l’amministratore di una società di capitali verta in conflitto di interesse, è tenuto a esplicitare le ragioni che hanno giustificato la scelta gestoria e la diligenza con cui ha espresso il giudizio di opportunità e convenienza, non essendo sufficiente la mera assenza di sventatezza o di azzardo.

Il compimento di una operazione gestoria in conflitto di interesse e in assenza di documentazione sociale giustificativa, soprattutto se di significativo valore economico, integra quindi ex se, ove produttiva di danno per la società, un illecito gestorio.

13 Giugno 2022

Impugnazione e sostituzione di delibere assembleari

La disposizione dell’art 2377, co. 8, c.c. si risolve in una ricognizione dell’effetto sostitutivo di delibere successive a quella impugnata dal socio, effetto di per sé comportante il venir meno della utilità della impugnazione per l’attore,  essendo la delibera impugnata già stata privata di effetti dalla sua sostituzione endo-societaria. Tale effetto sostitutivo può dirsi realizzato solo laddove la seconda delibera sia “stata presa in conformità della legge e dello statuto”, vale a dire sia stata presa validamente: ma anche questa precisazione contenuta nella norma va coordinata con il sistema di efficacia degli atti endo-societari e in particolare delle delibere assembleari, le quali, secondo il principio di cui all’art. 2377, co. 1, cc, se prese “in conformità della legge e dello statuto”, “vincolano tutti i soci, ancorché non intervenuti o dissenzienti”, essendo poi accertabile la loro eventuale invalidità in sede giudiziale solo a mezzo di impugnazione soggetta ai limiti temporali e di legittimazione previsti ancora dall’art. 2377 cc e dagli artt. 2379, 2379-ter e 2434-bis c.c. (nonché, per le S.r.l., dall’art. 2479-ter c.c.), con la conseguenza che le delibere assembleari la cui invalidità non sia stata azionata attraverso specifica impugnazione rimangono di per sé efficaci nell’ambito endo-societario. Da tale ricostruzione del sistema discende dunque che, se il socio impugnante la prima delibera non ha impugnato anche la delibera sostitutiva, questa è di per sé destinata a rimanere efficace nell’ambito endo-societario nonostante l’impugnante ne abbia eccepito la invalidità in sede processuale, con il che viene meno (non già la materia del contendere ma) lo stesso interesse ad agire rispetto alla prima impugnazione, al cui accoglimento non potrebbe conseguire alcun effetto utile per l’attore, data la già avvenuta sostituzione in ambito endo-societario del deliberato censurato con altro comunque efficace. Seguendo tale ricostruzione sistematica deve quindi concludersi che nel giudizio relativo alla impugnazione della prima delibera non possa trovar luogo alcuna valutazione delle eccezioni dell’attore relative alla invalidità della delibera sostitutiva che non sia stata a sua volta impugnata, tale valutazione essendo assorbita dalla constatazione del venir meno dell’interesse ad agire dell’attore: la valutazione ex art. 2377, co. 8, c.c. del giudice della prima impugnazione deve invece limitarsi alla verifica dell’effettiva portata sostitutiva della seconda delibera, vale a dire della effettiva rimozione del contenuto della prima da parte della seconda disponente sul medesimo oggetto. A riprova di tale conclusione sistematica può del resto richiamarsi anche la disciplina dell’art.2377, co. 7, c.c., per la quale “L’annullamento delle deliberazioni ha effetto rispetto a tutti i soci ed obbliga gli amministratori … a prendere i conseguenti provvedimenti sotto la propria responsabilità”: l’obbligo di adeguamento endo-societario consegue infatti, secondo tale norma, propriamente solo all’annullamento della delibera impugnata, sicché, nel caso si seguisse l’orientamento qui disatteso, la delibera sostitutiva rimarrebbe comunque efficace pur essendo stata valutata incidentalmente invalida nel giudizio di impugnazione relativo a quella sostituita, con la conseguenza che, ancora una volta, si perverrebbe alla conclusione della inutilità per l’impugnante dell’annullamento della prima delibera.

8 Giugno 2022

Azione di responsabilità esercitata dal terzo per danni diretti nel caso di appropriazione indebita di merci depositate in conto deposito

In caso di contratto di conto deposito merci stipulato tra due società, l’appropriazione indebita da parte della depositaria delle merci di appartenenza della società depositante può giustificare l’accoglimento, in favore di quest’ultima, dell’azione di responsabilità di cui all’art. 2395 c.c. nei confronti dell’amministratore unico della società depositaria. Non vale ad escludere la responsabilità del convenuto amministratore unico della società depositaria la circostanza per cui non fosse quest’ultimo a presidiare direttamente il sito presso cui erano depositate le merci, né tantomeno l’espressa pattuizione, presente nel contratto di conto deposito merci, secondo cui della gestione del deposito, della movimentazione dei prodotti e delle eventuali differenze tra giacenze reali e contabili dovesse ritenersi responsabile la società depositante.

8 Giugno 2022

Prescrizione dell’azione di responsabilità promossa dai creditori sociali

Il termine quinquennale di prescrizione dell’azione di responsabilità dei creditori sociali previsto all’art. 2949 c.c. inizia a decorrere, ai sensi dell’art. 2935 c.c., da quando la situazione di insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti si sia obiettivamente manifestata all’esterno così da consentire ai creditori sociali l’esercizio del diritto al ristoro del danno. Il momento di obiettiva emersione dell’insufficienza patrimoniale coincide con la declaratoria di fallimento ove gli amministratori o sindaci convenuti non dimostrino che fosse invece già percepibile in epoca anteriore per effetto di fatti e circostanze sintomatiche pubblicamente note.

25 Maggio 2022

Non configurabilità della figura di socio di fatto di una società di capitali; la società di fatto

Non sono giuridicamente configurabili le figure del socio co-fondatore di fatto e del socio di fatto in relazione ad una società di capitali regolarmente iscritta al registro delle imprese e costituita in base ad un formale contratto di società, in cui lo status di socio è stato legittimamente e pubblicamente acquisito da altri soggetti, al pari della formazione ed assunzione degli organi e cariche sociali, nel pieno rispetto delle prescrizioni di legge. Non può trovare spazio la figura del co-fondatore di fatto e del socio di fatto all’interno di una società regolare di capitali in cui la valida e legittima acquisizione di tali qualità soggettive è subordinata a formalità e attività non surrogabili con facta concludentia. Diverso è il caso in cui si ipotizzi la costituzione di un terzo soggetto giuridico collettivo di fatto e, quindi, non regolare, costituito tra due o più persone fisiche o tra una persona fisica e una società regolarmente costituita, fenomeno, quest’ultimo, la cui ammissibilità è riconosciuta.

Costituisce una società di fatto quella società il cui contratto non è formato da una manifestazione di volontà espressa, ma da una manifestazione tacita di volontà, che si desume dal comportamento concludente delle parti. La prova della sussistenza di una società di fatto può essere fornita con ogni mezzo, anche mediante presunzioni semplici. Il giudice deve valutare l’esteriorizzazione del vincolo sociale, cioè se i comportamenti posti in essere creino il ragionevole affidamento nei terzi dell’esistenza di una società. La sussistenza del contratto sociale di fatto può risultare, oltre che da prove dirette, concernenti i requisiti di cui all’art. 2247 c.c. (ossia gli apporti dei soci finalizzati all’esercizio congiunto dell’attività economica, l’esistenza di un fondo comune, la partecipazione ai profitti e alle perdite, l’affectio societatis), anche da manifestazioni esteriori dell’attività dei soci, quali reiterati finanziamenti o concessione di fideiussioni, comune contabilità, pubblicità con nomi congiunti, spendita del nome sociale e così via. Nell’ipotesi di società di fatto tra consanguinei, la prova diviene più rigorosa, dovendosi escludere che l’intervento del familiare nella vita aziendale possa essere motivato dalla c.d. affectio familiaris, bensì conseguente alla sola volontà di compartecipare all’attività commerciale secondo la c.d. affectio societatis.

Ai fini della prova della qualifica di amministratore di fatto occorre dimostrare l’esercizio, in modo continuativo e significativo, dei poteri tipici inerenti la funzione di amministratore. In particolare, la persona che, benché priva della corrispondente investitura formale, si accerti essersi inserita nella gestione della società, impartendo direttive e condizionandone le scelte operative, va considerata amministratore di fatto ove tale ingerenza, lungi dall’esaurirsi nel compimento di atti eterogenei ed occasionali, riveli avere caratteri di sistematicità e completezza. Tale prova implica, dunque, l’accertamento della sussistenza di una serie di indici sintomatici dell’inserimento organico del soggetto con funzioni direttive in qualsiasi fase della sequenza organizzativa, produttiva o commerciale dell’attività della società, quali sono i rapporti con i dipendenti, i fornitori o i clienti ovvero in qualunque settore gestionale di detta attività, sia esso aziendale, produttivo, amministrativo, contrattuale o disciplinare (tali il conferimento di deleghe in favore dell’amministratore di fatto in fondamentali settori dell’attività di impresa; la diretta partecipazione alla gestione della vita societaria; la costante assenza dell’amministratore di diritto; la mancata conoscenza di quest’ultimo da parte dei dipendenti; il conferimento di una procura generale ad negotia).

L’interesse ad agire richiede non solo l’accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l’esigenza di ottenere un risultato utile giuridicamente apprezzabile e non conseguibile senza l’intervento del giudice, poiché il processo non può essere utilizzato solo in previsione di possibili effetti futuri pregiudizievoli per la parte, senza che sia precisato il risultato utile e concreto che essa intenda in tal modo conseguire; ne consegue che non sono proponibili azioni autonome di mero accertamento di fatti giuridicamente rilevanti che costituiscano solo elementi frazionari della fattispecie costitutiva di un diritto, il quale può costituire oggetto di accertamento giudiziario solo nella sua interezza. L’interesse ad agire sussiste quando dall’ipotetico accoglimento delle istanze possa conseguire un vantaggio giuridicamente apprezzabile per l’istante. In presenza di domanda di mero accertamento delle qualità di socio e/o di amministratore di fatto difetta l’interesse ad agire nel caso in cui vi sia stata estinzione, per sopravvenuta prescrizione, di qualsiasi ragione di credito o economico-patrimoniale in riferimento alle predette qualifiche sociali.

La modificazione della domanda ammessa a norma dell’art. 183 c.p.c. può riguardare anche uno o entrambi gli elementi identificativi della medesima sul piano oggettivo (petitum e causa petendi), sempre che la domanda così modificata risulti in ogni caso connessa alla vicenda sostanziale dedotta in giudizio, e senza che per ciò solo si determini la compromissione delle potenzialità difensive della controparte ovvero l’allungamento dei tempi processuali. In particolare, in base al principio della c.d. teleologica complanarità, il diritto così introdotto in giudizio deve attenere alla medesima vicenda sostanziale già dedotta, correre tra le stesse parti, tendere alla realizzazione, almeno in parte, salva la differenza tecnica di petitum mediato, dell’utilità finale già avuta di mira dalla parte con la sua iniziativa giudiziale e dunque risultare compatibile con il diritto originariamente dedotto in giudizio. [In applicazione di tali principi, il Tribunale ha ritenuto che ove l’attore che ha agito per il mero accertamento delle sue qualità di socio co-fondatore di fatto e di co-amministratore di fatto e/o socio di fatto proponga nel corso del giudizio domanda di condanna al pagamento di somme dovute in ragione del dedotto rapporto societario, tale ultima domanda è inammissibile in quanto non configura una mera emendatio libelli bensì una domanda nuova, ulteriore, diversa e aggiuntiva rispetto a quella inizialmente proposta in citazione. Ha ritenuto, infatti, che tali domande introducono temi di indagine e di decisione inediti e più ampi rispetto a quelli inizialmente prospettati, dilatando oltre misura la primigenia materia del contendere, con significativa compressione dei diritti di difesa delle controparti].

24 Maggio 2022

Quantificazione del danno nella differenza tra attivo e passivo fallimentare ex art. 2486, terzo comma, c.c.

La figura dell’amministratore di fatto ricorre allorché un soggetto si sia ingerito nella gestione sociale in assenza di una qualsivoglia investitura, sia pure irregolare o implicita, sempre che le funzioni gestorie svolte in via di fatto abbiano carattere sistematico e non si esauriscano, quindi, nel compimento di alcuni atti di natura eterogenea e ed occasionale. [ LEGGI TUTTO ]