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10 Gennaio 2024

Limiti all’acquisto di azioni proprie; inidoneità dell’insolvenza a integrare un’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale

L’art. 2357 c.c., in tema di acquisto di azioni proprie, utilizza il concetto di distribuibilità con riferimento soltanto agli utili e non anche alle riserve. Gli utili distribuibili sono quelli non soggetti a vincoli di destinazione legali o statutari, o non destinati alla reintegrazione di riserve legali e statutarie o alla remunerazione dei promotori, dei soci fondatori e degli amministratori o non vincolati in forza di contratti collettivi o individuali di lavoro ex artt. 2099 e 2101 c.c. Quanto alle riserve, la nozione di disponibilità va distinta da quella di distribuibilità in base al criterio della possibilità di utilizzazione delle medesime. Le possibili utilizzazioni delle riserve disponibili sono, esemplificativamente, l’aumento gratuito del capitale sociale, il rimborso della partecipazione in caso di recesso del socio, la copertura delle perdite, la distribuzione ai soci e la destinazione a scopi specifici. Ne deriva che la distribuibilità della riserva rappresenta solo uno dei possibili utilizzi della riserva disponibile, essendo in un rapporto di species a genus rispetto alla disponibilità; utilizzo, quest’ultimo, che si esplica nella distribuzione ai soci degli utili che la costituiscono. L’indistribuibilità della riserva scaturisce da un divieto, legale o statutario, di distribuzione, che impone di non assegnare ai soci i valori corrispondenti alle riserve iscritte in bilancio, ma destinati invece a rimanere nel patrimonio netto: ciò al fine di rendere tali valori disponibili per altri scopi.

La norma di cui all’art. 2357 c.c. consente di acquistare azioni proprie solo mediante impiego di quella porzione del patrimonio netto che indica le risorse in surplus, senza dunque che si possa attingere a capitale o a riserve indisponibili. La ratio della disposizione risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l’acquisto delle azioni proprie della società mascheri un’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate, per legge o per statuto, a preservare la solidità patrimoniale dell’ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo luogo, che le riserve da utilizzare per l’acquisto delle azioni effettivamente sussistano e, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine. Ne consegue che ben possono essere utilizzate per l’acquisto di azioni proprie riserve disponibili anche se non distribuibili, tra cui la riserva per costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità ex art. 2426, co. 1, n. 5 c.c.

La presenza di irregolarità contabili non implica necessariamente una responsabilità civile a carico degli amministratori né, ancor prima, l’inadempimento degli amministratori all’incarico ricevuto. Non si può escludere, infatti, che, pur in presenza di una iscrizione contabile scorretta, non ricorra tuttavia alcun profilo di colpa, alcuna violazione da parte degli amministratori dei canoni di diligenza professionale richiesti dalla natura dell’incarico; ciò anche qualora dall’iscrizione contabile fosse derivato un danno per la società amministrata o per i terzi. Inoltre, poiché qualsiasi valutazione dell’operato dei componenti dell’organo amministrativo deve essere espressa mediante un giudizio ex ante, debbono essere tenuti in considerazione solo gli elementi in possesso al momento dell’assunzione della decisione, o quelli che avrebbero potuto essere conosciuti, con conseguente irrilevanza, ai fini della espressione del giudizio sulla condotta degli amministratori, sia degli elementi conosciuti ex post sia dei risultati della decisione assunta. Lo stesso principio generale contenuto nell’art. 2423 c.c., secondo cui nel bilancio deve essere esposta con chiarezza e in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio, conferma l’orientamento secondo il quale tutte le volte che l’irregolarità contabile non altera e non maschera la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’ente, la stessa non integra una condotta negligente dell’amministratore.

Laddove l’iscrizione contabile risulti opinabile e non pienamente rappresentativa della situazione patrimoniale della società, ma sia stata comunque compiuta nei limiti della discrezionalità consentita dai criteri dettati dal legislatore, si deve escludere la violazione di un obbligo di condotta che possa determinare una responsabilità dell’amministratore. La prudenza e ragionevolezza della valutazione dei crediti sociali è condizionata dall’individuazione dei dati che alimentano una prognosi sulla solvibilità dei debitori. Per questo, occorre tener conto della particolare qualità del debitore, dell’andamento dei rapporti pregressi nei confronti dello stesso soggetto, della regolarità dei pagamenti e di tutti quelli valutabili per accertare l’insolvenza.

Lo stato di insolvenza, o comunque una crisi economico-finanziaria della società, non rende ineluttabilmente impossibile il raggiungimento dell’oggetto sociale ex art. 2484, n. 2, c.c. Quest’ultimo, infatti, non coincide con lo scopo di lucro: è lo stesso legislatore a definire l’oggetto sociale come l’attività programmata o svolta dalla società. D’altra parte, se non si vuole far venire meno il significato stesso dell’eliminazione del fallimento dal novero delle cause di scioglimento delle società di capitali [nel sistema antecedente all’introduzione del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14], deve ritenersi che l’accertamento giudiziale dell’insolvenza della società, e cioè della più grave tra le crisi dell’impresa, non appare di per sé sufficiente a provocarne lo scioglimento: dunque, non appare di per sé sufficiente a integrare altre ipotesi dissolutive, nemmeno, in particolare, quella consistente nell’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale. Ne deriva che l’oggetto sociale ben può essere conseguito anche da una società che versa in stato di insolvenza. Il che, a sua volta, impedisce di riconoscere alle condizioni economiche della società, tanto più se meno gravi dell’insolvenza, l’idoneità a rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale. L’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale coincide con l’impossibilità, giuridica o materiale e non anche economica, di continuare a svolgere l’attività in cui esso consiste.

Il curatore è legittimato a proporre l’azione risarcitoria nei confronti della banca per l’imprudente concessione del finanziamento, quando la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, che abbia perduto interamente il capitale, dinanzi all’avventata richiesta di credito e a una parimenti avventata concessione di credito da parte della banca. Si deve, invece, escludere la legittimazione del curatore all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del patrimonio di quest’ultimo. Al curatore spetta, infatti, la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., di cui tutti i creditori beneficeranno.

12 Ottobre 2023

La perdita della continuità aziendale non costituisce una causa di scioglimento (ex art. 2484, n. 2, c.c.)

L’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale deve essere attuale, definitiva e irreversibile, dunque tale da rendere inutile la permanenza del vincolo sociale. L’ oggetto sociale cui l’art. 2484, co. 1, n. 2, c.c. si riferisce deve identificarsi nell’attività economica che la società in statuto ha dichiarato di svolgere (art. 2328, co. 2, n. 3, c.c.). Viceversa, non rientra nella fattispecie la sopravvenuta impossibilità di conseguire – non già l’oggetto ma – lo scopo generale di ogni società commerciale, cioè la realizzazione di un profitto (art. 2247 c.c.). Invero, lo scopo della società non può essere confuso con l’attività prevista per conseguirlo non solo per la generale eterogeneità di questi concetti, ma perché lo stesso legislatore opera molto chiaramente la distinzione, sia negli artt. 2328, n. 3, 2463, n. 3, 2437, lett. a, c.c., in cui si parla espressamente di “attività”, sia, soprattutto, nell’art. 2497 quater, lett. a, c.c., dove si pone in alternativa una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, con una delibera della modifica dell’oggetto sociale che consenta l’esercizio di attività che alterino le condizioni economico-patrimoniali della società eterodiretta. Pertanto, l’esercizio diseconomico dell’attività sociale è estraneo all’area applicativa della fattispecie di scioglimento di cui si discorre.

I connotati della fattispecie di scioglimento di cui all’art. 2484, co. 1, n. 2, c.c. sono incompatibili con quella di mancanza di continuità aziendale, come definita generalmente dallo IAS n. 1 e dal Principio di Revisione n. 570. La continuità aziendale è considerata, in relazione al disposto dell’art. 2423 bis, co. 1, n. 1, c.c., quale presupposto, di natura prospettica, di valutazione delle voci di bilancio. Essa consiste nella capacità dell’impresa di continuare a operare come una impresa in funzionamento, dunque in presenza di alternative realistiche alla liquidazione. Se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile (IAS n. 1 e dal Principio di Revisione n. 570) e la fattispecie normativa di cui all’ art. 2484, co. 1, n. 2, c.c., ci si avvede del fatto che la perdita del going concern non costituisce una causa di scioglimento.

La fattispecie di scioglimento attiene a una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè, ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi) e, come tale, attiene ad una situazione non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative non compatibili tra loro. Inoltre, nella fattispecie di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza incompatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili in termini di dubbio significativo, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione. Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto e in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società. Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in termini di perdita di continuità aziendale. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la discesa del capitale sociale sotto il minimo legale di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c., per il dissesto di cui art. 217, co. 1, n. 4, l.fall. (art. 217, co. 1, n. 4, c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.fall. (art. 2, lett. b, c.c.i.). Così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività. In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, co. 2, c.c., che tuttavia non riguarda lo scioglimento della società.

La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza conferma il quadro interpretativo appena descritto. Invero, la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del recupero della continuità aziendale. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, lett. a, c.c.i.

Il concetto normativo di crisi assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che i principi contabili ascrivono alla continuità aziendale. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di perdita di continuità aziendale è definibile per sottrazione dai parametri, criteri e indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi/situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, lett. a, c.c.i. Ugualmente, situazioni deficit patrimoniale o capitale ridotto al di sotto dei limiti legali andranno ascritte non già alla fattispecie perdita di continuità aziendale, essendo piuttosto da ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c. Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.

La lettera delle innovazioni apportate dal codice della crisi all’art. 2484, co. 1, c.c. conferma ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. È stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis). Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta. Tale argomento ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del recupero della continuità aziendale, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c.

Responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività a seguito della perdita della continuità aziendale

La perdita del requisito di continuità aziendale, equivalente alla impossibilità di conseguire l’oggetto sociale, deve indurre l’organo amministrativo a porre la società in liquidazione e ad accedere alle procedure concorsuali ritenute adeguate, fra le quali non può annoverarsi il piano attestato di risanamento, in quanto privo del riscontro dato dal ceto creditorio, presente, sotto forma di consenso, nell’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182 ter l. fall. e, di voto, nel concordato preventivo ex artt. 161 e ss. l. fall., oltre che scevro dal controllo giudiziario sollecitabile mediante le opposizioni dei creditori all’accordo di ristrutturazione e mediante il sindacato sull’ammissibilità, prima, e la decisione sulle opposizioni all’omologazione, in seguito, nel concordato preventivo.

Il pregiudizio risarcibile dagli amministratori in caso di prosecuzione dell’attività a seguito di perdita della continuità aziendale consiste nella differenza tra il valore del patrimonio netto alla data in cui l’attività avrebbe dovuto fermarsi e quello alla data della messa in liquidazione della società.

Stante l’unitarietà dell’azione proposta dal curatore fallimentare, nella quale confluiscono tanto l’azione contrattuale a tutela della società, quanto quella aquiliana a tutela dei creditori sociali, il curatore ben può giovarsi del termine di prescrizione quinquennale di cui all’art. 2949, co. 2, c.c., che decorre dal giorno della conoscenza da parte dei creditori sociali della verificazione dell’evento dannoso, rappresentato dalla situazione di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società. Invero, è solo in ragione dell’incapienza del patrimonio sociale che i terzi creditori possono rivalersi nei confronti degli amministratori che ne siano causa, e naturalmente alcun termine può decorrere se non dal momento in cui il titolare del diritto risarcitorio possa percepire la sussistenza dei presupposti per il suo esercizio. Tale decorrenza si presume coincidente con il fallimento dell’impresa, che presuppone l’insolvenza, ferma restando la possibilità per il convenuto di dar prova della anteriorità dell’insorgere dello stato di incapienza patrimoniale e della sua conoscibilità da parte dei creditori.

Il rapporto tra fallimento e misure di prevenzione, quando quest’ultime incidano sul patrimonio, risulta disciplinato dagli artt. 63 e 64 del d.lgs. 159/2011 (c.d. codice antimafia). In particolare, l’art. 64, co. 9, richiamando l’art. 63, co. 8, dello stesso d.lgs. 159/2011, prevede espressamente che l’amministratore giudiziario prosegue le azioni revocatorie già esperite dal curatore e promuove le azioni revocatorie esperibili, mentre nulla prevede in ordine alle azioni di responsabilità ex art. 146 l. fall. riguardo alle quali, nel silenzio della norma, solo il curatore rimane munito di legittimazione attiva.

20 Settembre 2021

Scioglimento della società per irreperibilità del socio amministratore

In caso di società di persone costituita da soli due soci, allorché lo statuto attribuisca il compimento degli atti di ordinaria amministrazione ai soci amministratori congiuntamente, la protratta irreperibilità di uno dei soci amministratori è idonea ad integrare una causa di scioglimento della società ai sensi dell’art. 2272, secondo comma, c.c., in quanto, determinando di fatto l’inattività dell’organo sociale, causa l’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

13 Marzo 2019

Scioglimento della società per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale e competenza in relazione alla nomina del liquidatore.

Può essere configurata la fattispecie di scioglimento della società per impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale quando sia provata l’indisponibilità di un locale dove esercitare l’attività d’impresa e degli strumenti a tal fine necessari e la chiusura dei finanziamenti da parte del ceto
bancario.

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Il dissidio tra soci è causa di scioglimento solo se rende impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale

In una società semplice composta da due soci, il dissidio insanabile tra i consociati può configurare un’ipotesi di scioglimento ex art. 2272, n. 2, c.c. solo qualora impedisca alla società di funzionare e perseguire l’oggetto sociale. Infatti il socio [ LEGGI TUTTO ]