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Art. 2423 bis c.c.
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7 Novembre 2023

Imputazione a riserva degli utili e abuso di maggioranza

L’aspettativa alla distribuzione di utili discende dalla natura stessa del contratto di società, in cui l’esercizio in comune di un’attività economica è attuato precisamente allo scopo di dividerne gli utili, ai sensi dall’art. 2247 c.c.; tuttavia, la dichiarazione di abusività della delibera sulla distribuzione degli utili costituisce una extrema ratio nell’ambito del sistema societario, pena la pretermissione del metodo maggioritario, che del primo rappresenta architrave fondante. L’interesse del socio di società di capitali alla distribuzione di utili deve infatti essere contemperato con l’interesse della società, i cui organi sono liberi di decidere in merito alle scelte fondamentali della vita sociale, qual è la destinazione dei profitti rinvenienti dall’attività caratteristica.
Il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di società impone di sanzionare con l’annullamento la delibera che sia priva di una qualsiasi utilità per la società e che contestualmente arrechi un danno al socio di minoranza, in assenza di una ragione giustificatrice, segno dell’intento deliberato dei soci di maggioranza di ledere i diritti degli altri soci.

18 Ottobre 2023

Sull’azione di responsabilità esercitata dal curatore ex art. 146 l.fall.: responsabilità per aggravamento del dissesto

Il rilascio, previo parere positivo del comitato dei creditori, dell’autorizzazione del giudice delegato all’esperimento dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori ex art. 146, co. 2, l.fall., costituisce una condizione dell’azione, la cui sussistenza (che deve ricorrere necessariamente al momento della pronuncia della sentenza) può e deve essere verificata giudizialmente e la cui carenza, in quanto incidente sulla legittimazione processuale del legale rappresentante della società, può essere rilevata dal giudice anche d’ufficio. La conseguenza processuale dell’eventuale difetto di sufficiente specificità dell’autorizzazione è la rimessione della causa per il compimento delle attività di sanatoria di cui all’art. 182, co. 2, c.p.c. (versione precedente) mediante assegnazione di un termine per la produzione dell’autorizzazione.

Sotto il profilo passivo, l’art. 146 l.fall. deve ritenersi norma di natura processuale e meramente ricognitiva della legittimazione del curatore all’esercizio delle azioni di responsabilità civilistiche, siccome dotata di una formulazione ampia rispetto ai possibili destinatari dell’azione, da leggersi non atomisticamente, bensì alla luce delle disposizioni di natura sostanziale, come estensiva del novero dei soggetti passivi delle iniziative giudiziarie anche ai revisori, nonché a tutti i soggetti che, a vario titolo, abbiano operato per conto della società, o, ancora, abbiano a qualunque titolo concorso nella causazione della deminutio al patrimonio sociale (si pensi alle iniziative giudiziali intraprese da una curatela per ottenere il risarcimento del danno da indebita erogazione di credito); donde la legittimazione del curatore a anche esperire l’azione risarcitoria nei confronti dei professionisti esterni alla compagine, pacifica essendo la configurabilità di un’ipotesi di responsabilità solidale per un unico fatto dannoso in capo a più soggetti che allo stesso abbiano concorso, indipendentemente dal titolo.

La legittimazione attiva del curatore volta alla tutela risarcitoria in favore dei creditori deve riconoscersi circoscritta alle azioni di responsabilità da danno indiretto, che si alleghi subito dai creditori in conseguenza dell’inosservanza, da parte degli amministratori, degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale posto a garanzia dei crediti ex art. 2740 c.c., ossia alle azioni tese all’incremento della massa attiva del patrimonio sociale; la legittimazione alle azioni di responsabilità da danno c.d. diretto causalmente connesso alla condotta dolosa o colposa dell’amministratore, invece, permane in capo al singolo creditore anche a seguito della dichiarazione di fallimento. Le azioni di spettanza del curatore devono individuarsi in tutte e solamente quelle che fanno capo alla stessa società fallita, onde la legittimazione del medesimo curatore a esercitarle si ricollega alla sua stessa funzione di gestore del patrimonio del fallito, o in quelle che sono qualificabili come azioni di massa, in quanto destinate a incrementare la massa dei beni sui quali i creditori ammessi al passivo possono soddisfare le proprie ragioni secondo le regole del concorso.

L’azione di responsabilità contro gli amministratori e i sindaci, esercitata dal curatore del fallimento ex art. 146 l.fall., compendiante in sé le azioni contemplate dagli artt. 2393 e 2394 c.c. e diretta alla reintegrazione del patrimonio della società fallita, visto unitariamente come garanzia dei soci e dei creditori sociali, sorge nel momento in cui il patrimonio sociale risulti insufficiente per il soddisfacimento dei creditori della società (il che consente di affermare che il danno da essi subito costituisce la misura del loro interesse ad agire) e si manifesti il decremento patrimoniale costituente il pregiudizio che la società non avrebbe subito in assenza del comportamento illegittimo. Il curatore ha facoltà di scegliere se cumulare le due azioni o formulare separatamente domande risarcitorie, potendo, altresì, scegliere quale delle due azioni esercitare: se l’azione sociale, di natura contrattuale, o quella verso i creditori, di natura extracontrattuale. In ogni caso, tali azioni non perdono la loro originaria identità giuridica, rimanendo distinte sia nei presupposti di fatto, che nella disciplina applicabile, connotata da regimi differenti in punto di distribuzione dell’onere della prova, di criteri di determinazione dei danni risarcibili e di regime di decorrenza del termine di prescrizione.

Quanto alla decorrenza del termine quinquennale di prescrizione dell’azione ex art. 2394 c.c., in applicazione del principio generale espresso dall’art. 2935 c.c., secondo cui la prescrizione decorre dal momento in cui il diritto può essere fatto valere, l’esperimento dell’azione da parte dei creditori sociali presuppone la conoscibilità delle condizioni per la relativa proposizione e, dunque, l’emersione dell’incapienza patrimoniale che legittima gli stessi all’esercizio dell’azione di responsabilità. Pertanto, occorre avere riguardo, nell’individuazione del dies a quo, non già del momento in cui i creditori abbiano avuto effettiva conoscenza dell’insufficienza patrimoniale, o di quello in cui si verifica tale insufficienza – che, a sua volta, dipendendo dall’insufficienza della garanzia patrimoniale generica, non corrisponde allo stato di insolvenza di cui all’art. 5 l.fall., né alla perdita integrale del capitale sociale (non implicante necessariamente la perdita di ogni valore attivo del patrimonio sociale), ma va intesa come eccedenza delle passività sulle attività o insufficienza dell’attivo sociale a soddisfare i debiti della società –, ma al momento, che può essere anteriore o posteriore alla dichiarazione del fallimento, in cui essi siano stati in grado di venire a conoscenza dello stato di grave e definitivo squilibrio patrimoniale della società, ossia al momento in cui l’insufficienza si manifesta, diventando oggettivamente conoscibile da parte dei creditori. In ragione dell’onerosità della prova a carico del curatore avente ad oggetto l’oggettiva percepibilità dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i crediti sociali, sussiste una presunzione iuris tantum di coincidenza tra il dies a quo di decorrenza della prescrizione e la dichiarazione di fallimento, spettando al convenuto che eccepisca la prescrizione fornire la prova contraria della diversa data anteriore di insorgenza e di esteriorizzazione dello stato di incapienza patrimoniale; prova che, sebbene possa desumersi anche dal bilancio di esercizio, deve pur sempre avere ad oggetto fatti sintomatici di assoluta evidenza, dovendosi escludere, come dies a quo antecedente alla dichiarazione di fallimento, la pubblicazione di un bilancio che, all’epoca della relativa redazione, rendeva l’incapienza patrimoniale, pur effettivamente già sussistente, non oggettivamente percepibile da parte dei terzi, siccome artatamente occultata.

In punto di prescrizione, opera nei confronti del revisore contabile la lex specialis di cui al d.lgs. n. 39/2010, il quale all’art. 15, prevede che l’azione di risarcimento si prescrive nel termine di cinque anni dalla data della relazione di revisione sul bilancio d’esercizio o consolidato, emessa al termine dell’attività di revisione cui si riferisce l’azione di risarcimento, senza alcuna previsione di cause ad hoc di sospensione del decorso dei termini.

Ai fini dell’individuazione del tempo della prescrizione, rileva l’astratta sussumibilità di un illecito in una fattispecie di reato, a prescindere dall’esito del procedimento penale avviato ai danni del danneggiante, non produttivo dei medesimi effetti di una sentenza di assoluzione con formula piena passata in giudicato. L’applicabilità a un illecito civile del più ampio termine prescrizionale previsto per un corrispondente fatto di reato, ex art. 2947, co. 3, c.c., presuppone la ricorrenza, in concreto, della totale identità e della piena concomitanza tra gli elementi (oggettivo e soggettivo) dell’illecito civile e di quello penale.

Sebbene il dovere di regolare tenuta della contabilità rientri tra i doveri gravanti sugli amministratori, l’erronea redazione di scritture contabili non costituisce, di per sé, una causa potenzialmente efficiente rispetto al danno, giacché la contabilità registra gli accadimenti economici che interessano l’attività dell’impresa, ma non li determina, ed è da quegli accadimenti, e non dalla loro (mancata o scorretta) registrazione in contabilità, che deriva la perdita patrimoniale.

A fronte di una diminuzione del capitale di oltre un terzo in conseguenza di perdite, a norma dell’art. 2482 bis c.c., si impone all’organo amministrativo pro tempore in carica la tenuta di una condotta diligente consistente nella convocazione dell’assemblea “senza indugio” – ossia in una data ragionevolmente prossima, tenuto conto delle circostanze del caso concreto –, nella sottoposizione alla stessa di una specifica relazione, nel monitoraggio capillare dell’attività e nella convocazione di un’assemblea, nell’esercizio successivo, per l’approvazione del bilancio e la riduzione del capitale in proporzione alle perdite accertate e medio tempore non riportate sotto la soglia di allarme suindicata. In caso di totale azzeramento del capitale, ricorrono, ai sensi dell’art. 2484, n. 4, c.c., i presupposti per l’insorgenza di un’ulteriore serie di obblighi di condotta, quali, anzitutto, quello negativo di astensione dall’intraprendere nuove operazioni sociali e quello, dal lato attivo, di convocare l’assemblea per deliberare la ricapitalizzazione o lo scioglimento e la messa in liquidazione della società, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 2485 c.c.: di talché l’inosservanza di tali obblighi integra un inadempimento dell’amministratore agli obblighi sullo stesso incombenti e rende indebita la successiva attività di impresa non meramente liquidatoria, con conseguente responsabilità risarcitoria dell’organo di gestione per tutte le successive perdite subite dalla società e causalmente connesse alla violazione del dovere di astensione, ex art. 2486 c.c. All’indomani del verificarsi della causa di scioglimento, infatti, il patrimonio sociale non può più considerarsi destinato, come in precedenza, alla realizzazione dello scopo sociale, sicché gli amministratori non possono più utilizzarlo a tale fine, ma sono abilitati a compiere soltanto gli atti correlati strumentalmente al diverso fine della liquidazione dei beni, restando agli stessi inibito il compimento di nuovi atti di impresa suscettibili di porre a rischio, da un lato, il diritto dei creditori della società a trovare soddisfacimento sul patrimonio sociale, e, dall’altro, il diritto dei soci a una quota, proporzionale alla partecipazione societaria di ciascuno, del residuo attivo della liquidazione: in particolare, devono essere qualificate come nuove operazioni vietate tutte quelle realizzate dagli amministratori per il conseguimento di un utile sociale e per finalità diverse da quelle di mera liquidazione della società.

Posto che la proposizione di richiesta di una procedura concorsuale o di una procedura alternativa da parte di una società in crisi o insolvente, in luogo della dichiarazione di fallimento, è prevista dall’ordinamento, in astratto, come del tutto legittima e, anzi, può rivelarsi in concreto maggiormente opportuna rispetto all’opzione alternativa, gli amministratori e gli organi sociali possono essere ritenuti responsabili per il pagamento di professionisti incaricati di verificare le condizioni di una richiesta concordataria, nonché di redigere le relative relazioni tecniche, soltanto laddove l’istanza di concordato risulti essere stata proposta abusivamente, ossia appaia, secondo un giudizio ex ante, irrazionale e arbitraria, e dunque del tutto infondata. L’arbitrarietà della domanda di concordato dev’essere, tuttavia, appurata non sulla scorta della semplice declaratoria di inammissibilità, né tantomeno in ragione dell’intervenuto rigetto da parte del tribunale, occorrendo invero un quid pluris, in specie rappresentato dalla conoscenza ex ante dell’insussistenza dei presupposti per adire la procedura – conoscenza che vale a connotare in termini di abuso del diritto o, quantomeno, a qualificare alla stregua di atto di mala gestio e di negligenza dell’organo gestorio una domanda altrimenti qualificabile in termini di attività lecita e, anzi, economicamente conveniente sotto il profilo dell’ottica aziendalistica.

Con riguardo alla disamina della ragionevolezza, con riferimento alla data della proposizione, della scelta di percorrere in prima battuta l’opzione del deposito di una domanda di concordato, quale strumento di risoluzione della crisi dagli stessi appena rilevata, il giudizio che il tribunale è chiamato a compiere, entro il perimetro del sindacato giudiziale consentito in sede concorsuale nel merito della fattibilità della proposta di concordato, non escluso dall’attestazione del professionista, e al contempo necessario ai fini della declaratoria di ammissibilità così come dell’omologazione della proposta, verte, anzitutto, sulla legittimità della stessa, intesa come non incompatibilità con le norme ordinamentali, e si estende, altresì, alla verifica della non manifesta inettitudine del piano sotto il profilo economico, intesa come effettiva realizzabilità della causa concreta del concordato, inserita nel quadro di riferimento finalizzato al superamento della situazione di crisi dell’imprenditore e all’assicurazione di un soddisfacimento, sia pur parziale, dei creditori, fermo il controllo della completezza e della correttezza dei dati informativi forniti ai creditori ai fini della consapevole espressione del voto; riservata essendo, per contro, al comitato dei creditori la valutazione della fattibilità del medesimo piano sotto il profilo strettamente economico.

Codice RG 14384 2017
12 Ottobre 2023

La perdita della continuità aziendale non costituisce una causa di scioglimento (ex art. 2484, n. 2, c.c.)

L’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale deve essere attuale, definitiva e irreversibile, dunque tale da rendere inutile la permanenza del vincolo sociale. L’ oggetto sociale cui l’art. 2484, co. 1, n. 2, c.c. si riferisce deve identificarsi nell’attività economica che la società in statuto ha dichiarato di svolgere (art. 2328, co. 2, n. 3, c.c.). Viceversa, non rientra nella fattispecie la sopravvenuta impossibilità di conseguire – non già l’oggetto ma – lo scopo generale di ogni società commerciale, cioè la realizzazione di un profitto (art. 2247 c.c.). Invero, lo scopo della società non può essere confuso con l’attività prevista per conseguirlo non solo per la generale eterogeneità di questi concetti, ma perché lo stesso legislatore opera molto chiaramente la distinzione, sia negli artt. 2328, n. 3, 2463, n. 3, 2437, lett. a, c.c., in cui si parla espressamente di “attività”, sia, soprattutto, nell’art. 2497 quater, lett. a, c.c., dove si pone in alternativa una trasformazione che implica il mutamento del suo scopo sociale, con una delibera della modifica dell’oggetto sociale che consenta l’esercizio di attività che alterino le condizioni economico-patrimoniali della società eterodiretta. Pertanto, l’esercizio diseconomico dell’attività sociale è estraneo all’area applicativa della fattispecie di scioglimento di cui si discorre.

I connotati della fattispecie di scioglimento di cui all’art. 2484, co. 1, n. 2, c.c. sono incompatibili con quella di mancanza di continuità aziendale, come definita generalmente dallo IAS n. 1 e dal Principio di Revisione n. 570. La continuità aziendale è considerata, in relazione al disposto dell’art. 2423 bis, co. 1, n. 1, c.c., quale presupposto, di natura prospettica, di valutazione delle voci di bilancio. Essa consiste nella capacità dell’impresa di continuare a operare come una impresa in funzionamento, dunque in presenza di alternative realistiche alla liquidazione. Se si confronta la nozione di continuità aziendale quale risultante dalle fonti di prassi contabile (IAS n. 1 e dal Principio di Revisione n. 570) e la fattispecie normativa di cui all’ art. 2484, co. 1, n. 2, c.c., ci si avvede del fatto che la perdita del going concern non costituisce una causa di scioglimento.

La fattispecie di scioglimento attiene a una valutazione circa una situazione attuale, definitiva ed irreversibile in cui versa la società, mentre la valutazione circa la sussistenza o la mancanza di continuità aziendale è di natura prospettica, cioè, ha a che fare con previsioni circa il futuro della società in un determinato arco temporale (12 mesi) e, come tale, attiene ad una situazione non definitivamente cristallizzata ed invece tipicamente reversibile. Si tratta di prospettive valutative non compatibili tra loro. Inoltre, nella fattispecie di continuità aziendale rientrano fattori di natura e tipologia disparate, molti dei quali ictu oculi estranei al tema della possibilità/impossibilità di conseguire l’oggetto sociale.

Le fattispecie descritte dall’art. 2484 c.c. sono tipiche e, come tali, esprimono un’esigenza di certezza incompatibile con la natura stessa della valutazione sulla continuità aziendale come connotata nei principi contabili in termini di dubbio significativo, connotazione peraltro che ben si accorda con la natura prognostica della valutazione. Può accadere che un evento considerato quale “indicatore” utilizzabile per la valutazione circa la sussistenza del presupposto della continuità aziendale possa, di fatto e in concreto, determinare la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. Così è, ad esempio, per eventi catastrofici non adeguatamente assicurati o per la revoca di autorizzazioni amministrative a svolgere l’attività oggetto della società. Tuttavia, in tal caso, è giuridicamente irrilevante, ai fini qui considerati, che esso evento determini il venir meno della continuità aziendale, essendo invece rilevante che determini la sopravvenuta impossibilità di conseguire l’oggetto sociale. E, come tale, esso deve essere specificamente allegato e provato dall’attore che deduce il suo verificarsi come causa di scioglimento della società. Cioè, a fronte di una fattispecie così ampia e tutt’altro che tassativa descritta dalle fonti di prassi contabile, è irrilevante o addirittura fuorviante riferirsi ad essa quando si pretenda l’applicazione di norme che assumono a fattispecie rilevante eventi determinati, linguisticamente designati da significanti diversi, la cui sussistenza o meno bensì rileva ma del tutto indipendentemente dalla circostanza che essi siano eventualmente qualificabili anche in termini di perdita di continuità aziendale. Così è, ad esempio, per l’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c., per la discesa del capitale sociale sotto il minimo legale di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c., per il dissesto di cui art. 217, co. 1, n. 4, l.fall. (art. 217, co. 1, n. 4, c.c.i.), per l’insolvenza di cui all’art. 5 l.fall. (art. 2, lett. b, c.c.i.). Così è anche per la situazione di “definitiva perdita della continuità aziendale”, di individuazione pratica e priva di referente normativo preciso, quando, come spesso accade, riferita ad un disequilibrio finanziario tale che l’attività svolta risulterebbe irreversibilmente programmata alla distruzione di ricchezza e alla traslazione del rischio di impresa sui creditori o sia fotografata da bilanci prospettici che presentano cash flow negativi e in presenza di indici economico-finanziari negativi dai quali emergerebbe che l’impresa non è più in condizioni di continuare a realizzare le proprie attività. In tali casi la “definitiva perdita di continuità aziendale” o si risolve in realtà nelle diverse fattispecie normativamente previste di insufficienza patrimoniale, perdita del capitale sociale, insolvenza, dissesto, oppure, ma con diversa rilevanza rispetto al passato, si identifica in una manifestazione di quella prevista dall’art. 2086, co. 2, c.c., che tuttavia non riguarda lo scioglimento della società.

La sistematica del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza conferma il quadro interpretativo appena descritto. Invero, la fattispecie di perdita della continuità aziendale è posta dai principi fondanti previsti in materia – quelli stabiliti dal nuovo secondo comma dell’art. 2086 c.c. – a presupposto dell’obbligo di reazione degli amministratori, in forma di adozione ed attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento, in vista del recupero della continuità aziendale. Con il ché è ribadita sia la natura prognostica del relativo giudizio che la sua reversibilità, connotati questi propri anche del concetto di crisi aziendale, quale definito dall’art. 2, lett. a, c.c.i.

Il concetto normativo di crisi assorbe in sé molti, se non tutti, i parametri finanziari che i principi contabili ascrivono alla continuità aziendale. Se ne ricava che, sul piano normativo, la situazione di perdita di continuità aziendale è definibile per sottrazione dai parametri, criteri e indicatori previsti dai principi contabili e di revisione, di tutte quegli eventi/situazioni di natura finanziaria che oggi vanno ricondotti alla fattispecie “crisi” di cui all’art. 2, lett. a, c.c.i. Ugualmente, situazioni deficit patrimoniale o capitale ridotto al di sotto dei limiti legali andranno ascritte non già alla fattispecie perdita di continuità aziendale, essendo piuttosto da ricondurre alla fattispecie di cui all’art. 2484, co. 1, n. 4, c.c. Né si tratta di distinzioni nominalistiche o inutili, poiché alle diverse fattispecie sopra indicate sono collegate discipline ben diverse in relazione ai poteri e doveri degli amministratori, dei sindaci, dei soci, con altrettanto diverse discipline delle loro responsabilità risarcitorie.

La lettera delle innovazioni apportate dal codice della crisi all’art. 2484, co. 1, c.c. conferma ulteriormente, a contrario (ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit), la superiore ricostruzione ermeneutica. È stata aggiunta una fattispecie ulteriore di scioglimento della società data dalla apertura delle procedure di liquidazione giudiziale e controllata (n. 7 bis). Orbene, considerata l’importanza conferita alla situazione di perdita della continuità aziendale nella sistematica del diritto della crisi e la considerazione della liquidazione come extrema ratio, sembra ovvio inferirne che, se il legislatore avesse voluto fare anche della prima una causa di scioglimento della società l’avrebbe detto, inserendo un’altra ipotesi oltre l’unica invece aggiunta. Tale argomento ben si accorda con l’intenzione del legislatore, essendo del tutto disfunzionale, in vista del recupero della continuità aziendale, prevedere che quando essa fosse persa, la società versi in stato di scioglimento, con il conseguente sorgere, in capo agli amministratori, non solo dell’obbligo di attuazione di uno degli strumenti di soluzione della crisi previsti a quel fine, ma anche dell’innesco della fase liquidatoria ex artt. 2485 e ss. c.c., comportante di per sé dissoluzione di ricchezza ed assai più difficilmente reversibile ex art. 2487 ter c.c.

2 Ottobre 2023

Nullità della delibera di approvazione del bilancio

Nella valutazione circa la correttezza del bilancio, sulla forma deve prevalere la sostanza, in virtù del principio di prevalenza della sostanza economica sulla forma espresso dagli artt. 2423 e 2423 bis c.c. e funzionale alla compiuta realizzazione della finalità delle informazioni di bilancio destinate a rappresentare in modo veritiero e corretto ai soci e ai terzi la situazione della società.

Le differenze tra i criteri di redazione del bilancio nazionali e quelli internazionali IAS, nonché tra i relativi principi contabili, può condurre a rappresentazioni del capitale e del reddito non del tutto coincidenti. Da un lato, si ha, infatti, un approccio ispirato fondamentalmente a principi di prudenza tendente ad evidenziare il reddito distribuibile ed il patrimonio inteso come somma di risorse di proprietà dell’impresa; dall’altro, si ha più riguardo alla valutazione della performance, strumentale ad analisi di tipo economico che conduce ad una nozione di reddito potenziale e di patrimonio inteso come sistema di risorse controllate dall’impresa.

29 Maggio 2023

Accantonamenti per rischi ed oneri e necessaria probabilità di esistenza del debito

In tema di appostazione in bilancio di un fondo rischi, la valutazione quanto al rischio di effettiva sussistenza di passività non ancora determinate al momento di chiusura dell’esercizio consiste, non nel rilievo di una vicenda gestoria oggettivamente già conclusa, ma nell’apprezzamento ex ante delle probabilità/possibilità di evoluzione di una situazione. La correttezza di tale apprezzamento, spettante in primis all’organo amministrativo quale redattore della bozza di bilancio e poi all’assemblea dei soci all’atto dell’approvazione del documento contabile, non è dunque ancorata a dati oggettivi, ma va rapportata ai canoni generali di prudenza e ragionevolezza che presiedono alla redazione del bilancio, la violazione dei quali può portare a far ritenere scorretta la valutazione e, conseguentemente, inficiato il bilancio da carenze quanto all’appostazione di fondo rischi e, quindi, contrastante anche con il principio di verità.

17 Maggio 2023

Impugnativa di bilancio superato dall’approvazione del bilancio relativo all’esercizio successivo

Nonostante l’art. 2434-bis c.c. preveda che le impugnazioni non possono essere proposte nei confronti delle deliberazioni di bilancio dopo che è avvenuta l’approvazione del bilancio successivo, deve, tuttavia, rilevarsi che la norma non prevede una preclusione assoluta a prendere in esame nel merito censure sollevate nei confronti di un bilancio di esercizio superato, ma solo una preclusione a prenderle in esame quali specifici motivi fondanti una decisione di invalidità della delibera di approvazione di quel bilancio. Pertanto, in ragione del principio di continuità dei bilanci, sarà consentito eccepire situazioni di invalidità o di illegittimità del bilancio dell’esercizio precedente, a condizione che tali eccezioni siano collegate e strumentali a far valere l’illegittimità del bilancio successivo.

18 Gennaio 2023

Abuso di maggioranza e invalidità della delibera di approvazione del bilancio

L’abuso di maggioranza integra una violazione della clausola generale di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto sociale, che trova fondamento negli artt. 1175 e 1375 c.c., sull’assunto che le delibere assembleari costituiscano fondamentali momenti esecutivi del contratto di società. Tali norme impongono che i soci informino il proprio operato ai suddetti principi imponendo un impegno di cooperazione in base al quale ciascun socio deve tenere condotte idonee a soddisfare le legittime aspettative degli altri membri della compagine societaria.

Tale fattispecie rappresenta l’unica ipotesi in cui il giudice esercita non un controllo di mera legittimità, ma un vero e proprio sindacato nel merito della delibera societaria: infatti, non si configura formalmente una violazione di legge, ma una strumentalizzazione del principio di maggioranza a danno degli interessi della minoranza.

L’abuso di maggioranza è idoneo a determinare l’invalidità della delibera assembleare laddove quest’ultima non trovi alcuna giustificazione nell’interesse della società, perché tesa al perseguimento, da parte dei soci di maggioranza, di un interesse personale antitetico a quello sociale oppure perché espressione di un’attività fraudolenta dei soci di maggioranza, preordinata a ledere i diritti di partecipazione e i diritti patrimoniali spettanti ai soci di minoranza uti singuli.

Il discrimen tra la legittima soggezione della minoranza al principio maggioritario e l’abuso di detto principio, tale da rendere arbitrario e ingiustificato il voto apparentemente vincolante, è la ricorrenza di un superiore interesse sociale, che rende giustificato il pregiudizio sopportato dalla minoranza.

Grava sul socio impugnante l’onere di provare che alla base della decisione della maggioranza non vi fosse alcun interesse sociale e che alcun vantaggio per la società potesse derivarne.

Il socio ha diritto ad agire per l’impugnativa della delibera di approvazione del bilancio solo quando egli possa essere in concreto indotto in errore dall’inesatta informazione fornita sulla consistenza patrimoniale e sull’efficienza economica della società, ovvero quando per l’alterazione o incompletezza dell’esposizione dei dati derivi o possa derivare un pregiudizio di ordine patrimoniale. La delibera di approvazione del bilancio è nulla allorché le violazioni civilistiche commesse comportino una divaricazione tra il risultato effettivo dell’esercizio e quello del quale il bilancio dà invece contezza, ma anche ogni qual volta dal bilancio e dai relativi allegati non sia possibile desumere l’intera gamma delle informazioni previste dalla legge per ciascuna delle singole poste iscritte.

Nell’impugnazione di una delibera di approvazione del bilancio, il socio deve assumere di aver subito un pregiudizio a causa del difetto di chiarezza, veridicità e correttezza di una o più poste contabili ed è onerato della indicazione di quali siano esattamente le poste iscritte in violazione dei principi legali vigenti, spettando poi al giudice, nel giudizio sulla fondatezza della domanda, logicamente successivo al vaglio del preliminare interesse della parte all’impugnazione, esaminare le singole poste e verificarne la conformità ai precetti legali.

L’azione sociale mira a far valere la responsabilità degli amministratori per le violazioni dei loro doveri, che abbiano cagionato un pregiudizio patrimoniale alla società. Essa ha natura contrattuale, originando dall’inadempimento dei doveri imposti agli amministratori dalla legge o dall’atto costitutivo ovvero dall’inadempimento dell’obbligo generale di vigilanza e di intervento preventivo e successivo; obblighi tutti che vengono a gravare sugli amministratori in forza del mandato loro conferito e del rapporto che, per effetto della preposizione gestoria e del susseguente inserimento nell’organizzazione sociale, si instaura con la società.

Di conseguenza, in termini di riparto dell’onere della prova, grava sulla parte che agisce l’onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni agli obblighi (che costituiscono obbligazioni di mezzi e non di risultato), i pregiudizi concretamente sofferti dalla società e il nesso eziologico tra l’inadempimento e il danno prospettato. Per converso, incombe sull’amministratore l’onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso ovvero di fornire la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell’osservanza dei doveri e dell’adempimento degli obblighi posti a suo carico.

Sui singoli soci che si assumono direttamente danneggiati da atti dolosi o colposi degli amministratori incombe l’onere di provare la condotta illecita, anche sotto il profilo della colpevolezza, il danno e il nesso causale.

24 Novembre 2022

Sulla mancata appostazione di fondo rischi

La valutazione quanto al “rischio” di effettiva sussistenza di passività non ancora determinate al momento di chiusura dell’esercizio consiste (non nel rilievo di una vicenda gestoria oggettivamente già conclusa ma) nell’apprezzamento ex ante delle probabilità/possibilità di evoluzione di una situazione: la correttezza di tale apprezzamento – spettante in primis all’organo amministrativo quale redattore della bozza di bilancio e poi all’assemblea dei soci all’atto dell’approvazione del documento contabile – non è dunque ancorata a dati oggettivi, ma va rapportata ai canoni generali di prudenza e ragionevolezza che presiedono alla redazione del bilancio, la sola violazione dei quali può portare a far ritenere scorretta la valutazione e, conseguentemente, inficiato il bilancio da carenze quanto all’appostazione di fondo rischi e, quindi, contrastante anche con il principio di verità.

9 Novembre 2022

Responsabilità dei precedenti amministratori di una cooperativa edilizia in l.c.a. per indebita prosecuzione dell’attività

A fronte di una contabilità inattendibile non può utilizzarsi ai fini della quantificazione del danno il criterio prevalente della c.d. perdita incrementale, bensì va applicato quello residuale della differenza tra attivo e passivo fallimentare. Infatti, quando la mancanza di scritture contabili o l’inattendibilità delle stesse, addebitabile all’amministratore, impedisca di ricostruire con l’analiticità necessaria quale sia stato l’effettivo andamento dell’impresa prima della dichiarazione di fallimento, il giudice può utilizzare il criterio fondato sulla differenza tra attivo e passivo patrimoniale a supporto della liquidazione equitativa del danno risarcibile.

3 Ottobre 2022

Il dies a quo della prescrizione dell’azione di responsabilità dei creditori sociali

L’azione dei creditori sociali, ai sensi del combinato disposto degli artt. 2394 e 2949, co. 2, c.c., è soggetta a prescrizione quinquennale. Dalla lettura combinata delle due disposizioni normative emerge che l’elemento essenziale posto a fondamento dell’azione di responsabilità è costituito dall’incapienza del patrimonio sociale che pregiudica la soddisfazione dei creditori sociali. Ne consegue che, essendo l’incapienza l’elemento determinante dell’azione di responsabilità, non dunque l’insolvenza o il dissesto, è al momento del verificarsi di siffatta condizione che occorre far riferimento per verificare il dies a quo del termine prescrizionale rispetto all’azione dei creditori danneggiati, non potendosi postulare la necessaria coincidenza di tale termine con l’eventuale data di dichiarazione del fallimento. A tal fine, occorre delimitare e precisare la nozione di insufficienza patrimoniale prevista all’art. 2394 c.c., in quanto la legge riconosce ai creditori sociali il diritto di ottenere, a titolo di risarcimento danni, da amministratori e/o sindaci l’equivalente delle prestazioni che, in quanto imputabili a colpa degli stessi, la società non è più in grado di adempiere. Ne deriva che è tale ipotesi a delineare concretamente la nozione di insufficienza patrimoniale, individuando un’eccedenza delle passività sulle attività, ovverosia una situazione in cui l’attivo sociale, raffrontato ai debiti della società, risulta insufficiente al loro soddisfacimento. La nozione di insufficienza patrimoniale, dunque, non è perfettamente sovrapponibile a quella di insolvenza, che corrisponde ad un’incapacità della società di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni, potendosi verificare tale eventualità anche a seguito di una situazione di illiquidità, che non comporta necessariamente un’eccedenza del passivo sull’attivo. Pertanto, il momento in cui si verifica l’insufficienza del patrimonio, non coincidendo con il determinarsi dello stato di insolvenza, può essere anteriore o posteriore alla dichiarazione di fallimento.

L’azione di responsabilità dei creditori sociali nei confronti degli amministratori di società ex art. 2394 c.c., pur quando promossa dal curatore fallimentare a norma dell’art. 146 l. fall., è soggetta a prescrizione quinquennale che decorre dal momento dell’oggettiva percepibilità, da parte dei creditori, dell’insufficienza dell’attivo a soddisfare i debiti (e non anche dall’effettiva conoscenza di tale situazione). È, pertanto, necessario che l’insufficienza del patrimonio sociale, destinato al soddisfacimento dei crediti, risulti da un qualsiasi fatto esteriore, che faccia ritenere che tale situazione potesse essere conosciuta oggettivamente dai creditori sociali anche senza verifica diretta della contabilità della società, non essendo a tal fine necessario che detta insufficienza risulti da un bilancio approvato dall’assemblea dei soci.

L’onere di provare un’anteriore manifestazione dell’insufficienza del patrimonio sociale, rispetto al momento storico individuato dall’attore, grava nell’azione di responsabilità dei creditori sociali sugli amministratori e/o sui sindaci che eccepiscono la prescrizione; ulteriormente, tale onere non può dirsi assolto mediante generiche deduzioni, non confortate da utili elementi di fatto, in quanto la nozione di insufficienza patrimoniale, come desumibile dall’interpretazione sistematica degli artt. 2394 e 2949, co. 2, c.c. inerisce ad una situazione oggettivamente conoscibile e percepibile da parte di tutti i creditori, non necessariamente coincidente con lo stato d’insolvenza, includendo dunque ogni fatto verificabile anche senza una diretta analisi della contabilità sociale e non richiedendosi, a tal fine che risulti da un bilancio approvato dall’assemblea dei soci.