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Azione di responsabilità ex art. 146 l. fall. nei confronti dell’amministratore: natura e presupposti dell’azione e criteri di quantificazione del danno
L’azione di responsabilità esperita dalla curatela fallimentare ai sensi dell’art. 146 L.F. cumula inscindibilmente i presupposti e gli scopi sia dell’azione sociale di responsabilità ex artt. 2392 e 2393 C.C. – che si ricollegano alla violazione da parte degli amministratori di specifici obblighi di derivazione legale o pattizia che si siano tradotti in pregiudizio per il patrimonio sociale -, che dell’azione spettante ai creditori sociali ex art. 2934 C.C., – tendente alla reintegrazione del patrimonio sociale diminuito dall’inosservanza degli obblighi facenti capo all’amministratore -. Per effetto del fallimento di una società di capitali, le (diverse) fattispecie di responsabilità degli amministratori di cui agli artt. 2392 e 2394 codice civile confluiscono in un’unica azione, dal carattere unitario ed inscindibile, all’esercizio della quale è legittimato, in via esclusiva, il curatore del fallimento, che può, conseguentemente, formulare istanze risarcitorie verso gli amministratori tanto con riferimento ai presupposti della responsabilità (contrattuale) di questi verso la società (art. 2392 codice civile), quanto a quelli della responsabilità (extracontrattuale) verso i creditori sociali (art. 2394) ”).
A tal uopo detta azione presuppone il concorso di tre indefettibili condizioni: a) la violazione dell’obbligo di adempiere (trattandosi di obbligazione di mezzi e non di risultato), con la necessaria diligenza dovuta dal mandatario, gli obblighi imposti dalla legge e dell’atto costitutivo a tutela della compagine sociale e dei creditori sociali ovvero la violazione di obblighi e doveri generali – id est diligenza, vigilanza, divieto di agire in conflitto d’interessi-; b) l’esistenza di un danno risarcibile; c) l’esistenza di un nesso causale che leghi secondo una valutazione oggettiva e socialmente adeguata di regolarità condizionante il detto danno ad un comportamento negligente posto in essere dagli amministratori.
Per quanto attiene il primo dei presupposti ivi indicati, gli obblighi incombenti sugli amministratori a garanzia di una gestione diligente, regolare, corretta e disinteressata della società, possono essere suddivisi in obblighi aventi contenuto specifico (sì come determinati dalla legge o dall’atto costitutivo) ed obblighi a contenuto generico (stante il rinvio all’obbligo incombente sul mandatario di gestire la società secondo criteri di diligenza ed in assenza di conflitto di interessi), entrambi poi trovando una loro peculiare caratterizzazione in relazione all’oggetto ed alle finalità che li connotino (ovvero del se siano relativi a norme poste a garanzia dell’integrità del capitale sociale, del corretto funzionamento degli organi sociali, della trasparenza gestionale, dell’osservanza della normativa sulla documentazione sociale, e segnatamente contabile, dell’osservanza dell’obbligo di fedeltà).
Poiché non tutti gli inadempimenti degli amministratori ai doverosi comportamenti su indicati sono fonte di danno, per l’individuazione in tali ipotesi di un danno risarcibile, occorre un ulteriore passaggio logicogiuridico, rappresentato dai successivi comportamenti rivelatisi concretamente pregiudizievoli, consentiti o indotti dalla falsa rappresentazione contabile ovvero dalla situazione di conflitto d’interessi. Esistono, di contro, comportamenti, integranti violazione di specifici obblighi, immediatamente produttivi di un danno chiaramente individuabile, come la distrazione e la sottrazione di beni, l’omissione di adempimenti tributari e previdenziali, importanti a carico della società oneri, altrimenti non dovuti, a titolo di sanzioni e pene pecuniarie.
Soltanto nelle ipotesi specifiche da ultimo riferite (delle quali è stata offerta una casistica evidentemente esemplificativa) ricorre una fattispecie dannosa, integrata da condotte d’inadempimento ad obblighi chiaramente individuati causalmente correlate, secondo un vincolo di derivazione diretto ed immediato, a perdite patrimoniali della società: ciò che appunto consente la delimitazione di un’area di risarcibilità del danno. I casi indicati per primi invece – si pensi alle cd. violazioni formali imputabili agli amministratori, in special modo nella redazione del bilancio o nella tenuta della contabilità, – investono di sé il problematico profilo della sussistenza del nesso di causalità tra l’atto di mala gestio e il danno ed, ancora prima l’individuazione della stessa nozione di danno risarcibile.
In applicazione degli ordinari canoni probatori che sovraintendono il processo civile, graverà sull’istante Curatela attrice l’onere di provare – giusta l’art. 2697 c.c. – la violazione dei doveri e degli obblighi di derivazione pattizia o legale legati alla assunzione dell’incarico da parte dell’amministratore sia l’esistenza di specifiche e determinate voci di danno eziologicamente riconducibili alla inosservanza dei suddetti obblighi e doveri.
Per quanto concerne la quantificazione dei danni, la giurisprudenza consente di ricorrere a criteri presuntivi, e in particolare alla determinazione del danno in via equitativa ai sensi dell’art. 1226 c.c., utilizzando il criterio della differenza dei netti patrimoniali nell’ipotesi in cui non sia possibile ricostruire con certezza le vicende che hanno determinato il dissesto e le singole operazioni dannose. Invero l’applicazione del criterio della differenza dei netti patrimoniali richiede la presenza di due condizioni: (i) la corretta individuazione del primo termine di paragone, ossia il bilancio a partire dal quale la società risulta aver perso il capitale con conseguente obbligo per gli amministratori di convocazione dell’assemblea dei soci ai fini della messa in liquidazione della società medesima. Tale bilancio, per essere comparabile a quello finale e per evitare che all’agente siano imputati danni legati alla mera variazione dei criteri valutativi (di regola da quelli di continuità a quelli liquidatori), deve essere rettificato alla luce dei criteri di redazione di un bilancio di liquidazione (secondo il principio contabile OIC 5). Esso deve essere, quindi, depurato di tutte quelle componenti che si giustificano solo in una prospettiva di continuità aziendale. In alternativa, occorre non applicare i criteri liquidatori alla situazione patrimoniale finale, così che le situazioni patrimoniali durante tutto l’arco temporale considerato siano omogenee. (ii) Quanto al secondo termine di paragone, esso coincide con la realizzazione del comportamento doveroso richiesto dalla legge ovvero con la messa in liquidazione o, se questa manca, con la dichiarazione di fallimento. Successivamente, occorrerà escludere dalla perdita incrementale “pura” eventualmente individuata quelle componenti negative costituite da costi ineliminabili e/o non imputabili che la società avrebbe sostenuto anche nel caso di tempestiva interruzione dell’attività (quindi in fase di liquidazione), qualora gli organi ritenuti responsabili avessero adempiuto ai propri obblighi.
L’accertatamento della responsabilità dell’amministratore e la conseguente condanna al risarcimento di tutti i danni causati alla società fallita e ai creditori sociali nell’ambito della propria attività gestoria, in favore della curatela, genera un debito di valore sicché l’importo liquidato è soggetto a rivalutazione monetaria e sono dovuti gli interessi al tasso legale con decorrenza dalla dichiarazione di fallimento; infatti, la prima mira a ripristinare la situazione patrimoniale del danneggiato ponendolo nella condizione in cui si sarebbe trovato se l’inadempimento non si fosse verificato, mentre i secondi hanno natura compensativa, con la conseguenza che le due misure sono giuridicamente compatibili e che, pertanto, sulla somma risultante dalla rivalutazione debbono essere corrisposti gli interessi, il cui calcolo va effettuato con riferimento ai singoli momenti in relazione ai quali la somma s’incrementa nominalmente, in base agli indici prescelti di rivalutazione monetaria ovvero ad un indice medio.
Responsabilità diretta dell’amministratore che contrae obbligazioni non conservative a seguito della perdita del capitale
In tema di responsabilità degli amministratori ex artt. 2486 e 2476 c.c., risponde direttamente verso il terzo creditore l’amministratore che, successivamente alla perdita del capitale sociale e in assenza di tempestiva convocazione dell’assemblea per l’adozione delle misure necessarie, contragga obbligazioni non riconducibili a finalità meramente conservative. In tale ipotesi non può essere invocata l’esenzione prevista dalla normativa emergenziale (art. 1, comma 266, l. 178/2020) qualora l’assemblea non sia stata convocata “senza indugio”, né la perdita correttamente documentata nella nota integrativa.
Non rispondono, invece, gli amministratori nominati successivamente ove la durata del mandato sia stata talmente breve da non permettere iniziative adeguate.
La responsabilità dei soci ex art. 2476, comma 8, c.c. non è configurabile in assenza di un consapevole comportamento positivo di adesione all’illecito dell’amministratore.
Sul valore probatorio delle scritture contabili e sulla tempestiva impugnazione di una delibera adottata in conflitto di interessi
Premesso che le scritture contabili sono redatte dall’organo gestorio, spetta all’amministratore, secondo le regole di riparto dell’onere probatorio, ai sensi dell’art. 2697 c.c., dimostrare che secondo la contabilità sociale le somme annotate nelle scritture contabili (come giroconto a suo favore) sono state utilizzate per il perseguimento di scopi sociali.
La mancata tempestiva impugnazione della delibera nei termini di legge impedisce alla società di attribuire rilevanza, in via di eccezione, all’asserito vizio di validità della deliberazione [nella specie di attribuzione di compensi all’amministratore].
Regime di postergazione dei finanziamenti dei soci nella s.n.c.: limiti di applicabilità
Il regime della postergazione di cui all’art. 2467 c.c. per i finanziamenti eseguiti dai soci nei confronti della s.r.l. è previsto dal legislatore a tutela dei creditori della s.r.l. e in considerazione del fatto che nella s.r.l. la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali è limitata all’ammontare conferito. Diversamente, tale ratio non ricorre nel caso di una s.n.c., in quanto i soci di questa sono illimitatamente responsabili delle obbligazioni della società e i creditori sociali possono contare anche sulla garanzia generica data dal patrimonio dei soci. Ciò vale anche per il caso del socio defunto, posto che gli eredi del medesimo sono comunque illimitatamente responsabili verso i terzi per le obbligazioni sociali fino al giorno in cui si è verificato il decesso del socio (cfr. art. 2290 c.c.).
In ipotesi di domande di liquidazione della quota del socio defunto e di rimborso del finanziamento da parte dell’erede nei confronti della società, quest’ultimo è legittimato a convenire in giudizio anche i soci superstiti della medesima per procurarsi un titolo esecutivo nei confronti di questi ultimi. L’autonomia patrimoniale tipica della s.n.c., infatti, implica che i soci siano solidalmente e illimitatamente responsabili con la società relativamente al pagamento delle obbligazioni sociali (art. 2291 c.c.), tra le quali vi sono anche il debito verso l’erede del socio defunto avente ad oggetto il valore di liquidazione della quota di quest’ultimo e i debiti per finanziamenti erogati dai soci; né i soci convenuti in giudizio possono invocare il beneficio di escussione previsto dall’art. 2304 c.c., posto che quest’ultima norma vale soltanto in fase esecutiva e non impedisce al creditore di agire in sede di cognizione per procurarsi il titolo esecutivo nei confronti dei soci superstiti.
Il legittimario totalmente pretermesso non diventa erede per effetto della mera apertura della successione ma soltanto a seguito del positivo esperimento dell’azione di riduzione.
Ai fini dell’individuazione della natura di un finanziamento a favore della società, non sono rilevanti le modalità con le quali i versamenti sono stati eseguiti, ma il risultato finale, ossia che, attraverso i medesimi, il socio contribuisce al fabbisogno finanziario della società. Laddove il soggetto che li ha erogati sia lo stesso tenuto a iscrivere gli importi nella contabilità sociale, va attribuita valenza decisiva alle modalità con le quali gli importi sono stati iscritti.
Patti parasociali atipici e competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa
Ove tra i soci sia intercorso un patto parasociale atipico, la controversia che dovesse sorgere in materia è devoluta alla competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa, poiché la nozione di accordo parasociale contemplata dall’art. 3, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 168 del 2003, è più ampia di quella prevista dall’art. 122 del TUF e dall’art. 2341 bis c.c., rientrandovi tutti gli accordi con cui i soci, o alcuni di essi, attuano un regolamento di rapporti, non vincolante nei confronti della società, difforme o complementare rispetto a quanto previsto dallo statuto sociale.
Competenza territoriale e sede effettiva della società
Nelle controversie in cui sia convenuta una società, non è applicabile l’art. 19, co. 1, c.p.c. – nella parte in cui individua la competenza del giudice del luogo in cui la persona giuridica ha una sede effettiva – quando non sia stato dimostrato in giudizio che in questa stessa si esercita la prevalente attività concernente la vita societaria.
Nell’ordinamento interno vale il principio presuntivo secondo cui la sede effettiva della società coincide con la sua sede legale, salvo rigorosa prova contraria. Pertanto ove non sia provato che, nel luogo del giudice adito, la sede della convenuta è il reale centro dell’attività direttiva, amministrativa e organizzativa dell’impresa la presunzione non può dirsi superata, con l’effetto della conseguente pronuncia d’incompetenza territoriale dell’ufficio. Ai fini della prova dell’effettività della sede, nemmeno rileva la generica circostanza che l’attività d’impresa di cui all’oggetto sociale non si esplichi nel luogo della sede legale. Per superare l’anzidetta presunzione di coincidenza e radicare la competenza del giudice del luogo diverso da quello della sede legale, è necessario dimostrare che in quest’ultimo operano i dirigenti della società, vi è tenuta l’intera contabilità e si costituisce regolarmente l’assemblea dei soci. Sicché, in difetto di tali elementi, la sede dovrà ritenersi meramente operativa ed inidonea a giustificare la relativa competenza dell’autorità giudiziaria del luogo.
Ancora in tema di invalidità di fideiussioni omnibus
La tutela riconoscibile in capo al soggetto che abbia stipulato un contratto di fideiussione “a valle” di un’intesa illecita per violazione dell’articolo 2, comma 2, lettera a), della Legge n. 287/1990, consiste, di regola, nella nullità parziale, limitata, cioè, alle sole clausole contrattuali dotate di effetti restrittivi della concorrenza.
È a carico di chi ha interesse a far cadere integralmente l’assetto di interessi programmato fornire la prova dell’interdipendenza del resto del contratto dalla clausola o dalla parte nulla, mentre resta precluso al Giudice rilevare d’ufficio l’effetto estensivo della nullità parziale all’intero contratto. La nullità di singole clausole contrattuali, o di parte di esse, si estende, pertanto, all’intero contratto (o a tutta la clausola), solo ove l’interessato dimostri che la porzione colpita da invalidità non ha un’esistenza autonoma, né persegue un risultato distinto, ma è in correlazione inscindibile con il resto, nel senso che il contraente non avrebbero concluso il contratto senza quella parte del suo contenuto colpita da nullità.
Il garante che chieda la liberazione della garanzia invocando l’art. 1956 c.c., ha l’onere di provare che successivamente alla prestazione della garanzia in parola, il creditore, senza la sua autorizzazione, abbia fatto credito al terzo pur essendo consapevole di un peggioramento delle sue condizioni economiche in misura tale da ingenerare il fondato timore che questi potesse divenire insolvente.
Limiti e requisiti di un accordo delle parti per la rinuncia alla clausola arbitrale; rapporti con il giudicato
Nullità dell’atto di citazione e concorrenza sleale per mezzo dello storno di dipendenti
La nullità dell’atto di citazione si produce, a norma dell’art. 164, comma 4, c.c.p., solo quando il petitum sia stato del tutto omesso o sia assolutamente incerto oppure quando manchi del tutto l’esposizione dei fatti costituenti la ragione della domanda.
Nel valutare la conformità dell’atto al modello legale, l’identificazione dell’oggetto della domanda va peraltro operata avendo riguardo all’insieme delle indicazioni contenute nell’atto di citazione e dei documenti ad esso allegati, producendosi la nullità solo quando, all’esito della predetta valutazione, l’oggetto risulti assolutamente incerto. Quest’ultimo elemento deve tuttavia essere vagliato in coerenza con la ragione ispiratrice della norma, che impone all’attore di specificare sin dall’atto introduttivo, a pena di nullità, l’oggetto della sua domanda; ragione che risiede nell’esigenza di porre immediatamente il convenuto nelle condizioni di apprestare adeguate e puntuali difese (prima ancora di offrire al giudice l’immediata contezza del thema decidendum), con la conseguenza che non può prescindersi, nel valutare il grado d’incertezza della domanda, dalla natura del relativo oggetto e dalla relazione in cui, con esso, si trovi eventualmente la controparte (se tale, cioè, da consentire, comunque, un’agevole individuazione di quanto l’attore richiede e delle ragioni per cui lo fa, o se, viceversa, tale da rendere effettivamente difficile, in difetto di maggiori specificazioni, l’approntamento di una precisa linea di difesa).
Per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti, è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione e alla struttura produttiva del concorrente; il proposito supposto, quindi, deve essere quello di procurare un danno eccedente il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita dei dipendenti o collaboratori in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa. Un tale orientamento si spiega con l’esigenza di salvaguardare sia il diritto al lavoro e alla sua adeguata remunerazione (artt. 4 e 36 Cost.), sia il diritto alla libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), sicché la mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà di iniziativa economica.
L’art. 2598, n. 3, c.c., cui è riconducibile la fattispecie dello storno dei dipendenti, non richiede né il dolo né la colpa, essendo sufficiente ai fini della configurabilità dell’illecito la sola condotta materiale consistente nel compimento di atti non conformi alla correttezza professionale idonei a danneggiare l’altrui azienda.
La condotta dell’impresa accusata di storno viene considerata illecita ove si risolva nell’appropriazione di risorse umane altrui:
a) in violazione della disciplina giuslavoristica e degli altri diritti assoluti del concorrente (come la reputazione e i diritti di proprietà immateriale, quali le informazioni riservate);
b) con modalità potenzialmente rischiose per la continuità aziendale dell’imprenditore che subisce lo storno e che viene colpito nella sua capacità competitiva; e ciò tenuto conto, da un lato, delle normali dinamiche del mercato del lavoro in un preciso contesto economico e, dall’altro, delle condizioni interne dell’impresa leale (ad esempio, si è ritenuto che in casi di crisi aziendale o situazioni di difficoltà, lo smembramento della forza lavoro e i maggiori flussi in uscita dei dipendenti siano da considerare un effetto fisiologico);
c) con modalità non prevedibili, in grado cioè di provocare alterazioni non immediatamente riassorbibili ed aventi un effetto di shock sull’ordinaria attività di offerta di beni o di servizi dell’impresa che subisce lo storno, onde lo sviamento è da ritenersi illecito ogni qualvolta il concorrente sleale si appropri di risorse umane altrui con modalità che provochino alterazioni oltre la soglia di quanto possa essere ragionevolmente previsto.
Domanda di riduzione del sequestro giudiziario e di sostituzione dei beni sequestrati in sede di reclamo ex art. 669 terdecies c.p.c.
Nell’ambito del giudizio di reclamo avverso l’ordinanza emessa ai sensi dell’art. 670, n. 1, c.p.c., di sequestro giudiziario, non possono trovare accoglimento le domande di riduzione del sequestro e di sostituzione dei beni sequestrati con altri, essendo proprio i beni oggetto di sequestro quelli sulla cui proprietà vi è contenzioso ai sensi dell’art. 670, n. 1, c.p.c.