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Fabiano Belluzzi

Fabiano Belluzzi

LL.M. candidate in International Business Law presso l'Universitè de Lausanne, Svizzera. Laurea in Giurisprudenza presso l'Università degli Studi di Padova e abilitato all'esercizio della professione forense.

11 Luglio 2024

Decorrenza del termine prescrizionale delle azioni verso i revisori e le società di revisione: questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, D.Lgs. n. 39/2010

L’art. 15, co. 3, del D.Lgs. n. 39/2010 differenzia irragionevolmente la disciplina di decorrenza del termine di prescrizione delle azioni risarcitorie proponibili ex contractu o ex delicto nei confronti dei revisori rispetto a quella prevista con riferimento alla prescrizione delle stesse azioni proponibili nei confronti degli amministratori e dei sindaci, determinando altresì, con ciò, un ostacolo irragionevole all’esercizio dei diritti risarcitori della società, dei soci e dei terzi, compresi i creditori. La differenza sta nel fatto che nel secondo caso – azioni verso amministratori e sindaci - in conformità ai principi generali, il termine decorre dal momento in cui i danneggiati hanno conoscenza del danno subito, momento da valutare secondo criteri obiettivi. Nel primo, invece, il termine decorre dalla data della relazione di revisione, cioè da un termine fisso, identificabile in un comportamento bensì generativo del danno ma in modo per nulla affatto immediato e privo di alcun rapporto con il manifestarsi del danno medesimo. Quest’ultimo regime di decorrenza della prescrizione pone un ostacolo effettivo alla tutela dei diritti risarcitori della società, dei soci e dei terzi, poiché determina la rilevanza a fini prescrizionali di un periodo di tempo – quello tra la data della relazione di revisione ed il momento (da valutarsi secondo criteri oggettivi) di conoscenza del danno da parte del danneggiato – in cui al danneggiato stesso non è imputabile alcuna inerzia nell’esercizio del suo diritto. Si pongono allora con particolare evidenza un aspetto di irragionevole discriminazione rispetto alla disciplina del decorso del termine prescrizionale previsto per le azioni verso amministratori e sindaci ed un profilo di irragionevolezza intrinseca della previsione normativa qui censurata; sicché va dichiarata rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3, co. 1, e 24, co. 1, Cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 15, co. 3, D.Lgs. n. 39/2010, nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione delle azioni nei confronti di revisori e società di revisione decorre dalla data della relazione di revisione sul bilancio d'esercizio o consolidato emessa al termine dell'attività di revisione cui si riferisce l'azione di risarcimento.   [ Continua ]

Sulla nullità del contratto di fideiussione

I contratti di fideiussione a valle di intese dichiarate parzialmente nulle dall'Autorità Garante, in relazione alle sole clausole contrastanti con gli artt. 2, co. 2, lett. a), l. n. 287 del 1990 e 101 del TFUE, sono parzialmente nulli, ai sensi degli artt. 2, co. 3, della legge citata e dell'art. 1419 c.c., in relazione alle sole clausole che riproducono quelle dello schema unilaterale costituente l'intesa vietata - perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza -, salvo che sia desumibile dal contratto, o sia altrimenti comprovata, una diversa volontà delle parti. In tema di accertamento dell'esistenza di intese anticoncorrenziali vietate dall'art. 2 della legge n. 287 del 1990, la stipulazione a valle di contratti o negozi che costituiscano l'applicazione di quelle intese illecite concluse a monte comprendono anche i contratti stipulati anteriormente all'accertamento dell'intesa da parte dell'Autorità indipendente preposta alla regolazione o al controllo di quel mercato, a condizione che quell'intesa sia stata posta in essere materialmente prima del negozio denunciato come nullo, considerato anche che rientrano sotto quella disciplina anticoncorrenziale tutte le vicende successive del rapporto che costituiscano la realizzazione di profili di distorsione della concorrenza. [ Continua ]

La quantificazione del danno nell’azione di responsabilità

L’azione sociale di responsabilità si configura come un’azione risarcitoria volta a reintegrare il patrimonio sociale in conseguenza del suo depauperamento cagionato dagli effetti dannosi provocati dalle condotte, dolose o colpose, degli amministratori, poste in essere in violazione degli obblighi su di loro gravanti in forza della legge e delle previsioni dell’atto costitutivo ovvero dell’obbligo generale di vigilanza o dell’altrettanto generale obbligo di intervento preventivo e successivo. Per gli amministratori di una società a responsabilità limitata, al pari di quelli delle società per azioni, è richiesta non la generica diligenza del mandatario, cioè quella tipizzata nella figura dell’uomo medio, ma quella desumibile in relazione alla natura dell’incarico e alle specifiche competenze, cioè quella speciale diligenza prevista dall’art. 1176, co. 2, c.c. per il professionista. La natura contrattuale della responsabilità degli amministratori e dei sindaci verso la società comporta che questa ha soltanto l'onere di dimostrare la sussistenza delle violazioni ed il nesso di causalità fra queste e il danno verificatosi, mentre incombe sugli amministratori e i sindaci l'onere di dimostrare la non imputabilità a sé del fatto dannoso, fornendo la prova positiva, con riferimento agli addebiti contestati, dell'osservanza dei doveri e dell'adempimento degli obblighi loro imposti. Invero, spetta all’attore l’onere dell’allegazione e della prova, sia pure mediante presunzioni, dell’esistenza di un danno concreto, cioè del depauperamento del patrimonio sociale e della riconducibilità della lesione al fatto dell’amministratore inadempiente, quand’anche cessato dall’incarico. Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore a norma dell'art. 146, co. 2, l.fall., la mancata o irregolare tenuta delle scritture contabili, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, non giustifica che il danno risarcibile sia determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l'attivo liquidato in sede fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato solo quale parametro per una liquidazione equitativa ove ne sussistano le condizioni, purché l'attore abbia allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato, indicando le ragioni che gli hanno impedito l'accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore medesimo. Una correlazione tra le condotte dell'organo amministrativo e il pregiudizio patrimoniale dato dall'intero deficit patrimoniale della società fallita può prospettarsi soltanto per quelle violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che proprio in ragione di esse l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque per quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa del dissesto sfociato nell'insolvenza. I cc.dd. criteri del deficit fallimentare e dei netti patrimoniali di cui all'art. 2486, co. 3, c.c. è applicabile anche ai giudizi in corso al momento della entrata in vigore della norma. [ Continua ]

Sulla legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di opposizione alla fusione

Ai fini della prova della legittimazione attiva all’esercizio dell’azione di opposizione alla fusione o alla scissione non è indispensabile che il credito dell’opponente risulti dalle scritture contabili della società coinvolta nell’operazione di fusione e indicata come propria debitrice, ché, invece, la dimostrazione della qualità richiesta può esser data anche in altro modo. In particolare, con riferimento ai crediti contestati, ai fini dell’apprezzamento della legittimazione all’opposizione il giudice investito dell’azione ex artt. 2506 ter e 2503 c.c. deve limitarsi a una cognizione sommaria circa l’esistenza e fondatezza delle ragioni di credito dell’istante, potendo respingere l’opposizione per carenza di legittimazione solo quando la pretesa dell’opponente si presenti prima facie manifestamente priva di fondamento. [ Continua ]

Sull’azione di responsabilità nei confronti del liquidatore della società

Le azioni di responsabilità nei confronti degli amministratori, dei liquidatori, e dei sindaci di una società di capitali previste dagli artt. 2393 e 2394 c.c., pur essendo tra loro distinte, in caso di fallimento confluiscono nell'unica azione di responsabilità esercitabile da parte del curatore ai sensi dell'art. 146 l. fall., la quale, assumendo contenuto inscindibile e connotazione autonoma rispetto alle prime, attesa la ratio ad essa sottostante identificabile nella destinazione di strumento di reintegrazione del patrimonio sociale unitariamente considerato a garanzia sia dei soci che dei creditori sociali, implica una modifica della legittimazione attiva di quelle azioni, ma non ne immuta i presupposti. L'azione di responsabilità sociale ex art. 2393 c.c. ha natura contrattuale e presuppone un danno prodotto alla società da ogni illecito doloso o colposo degli amministratori per violazione di doveri imposti dalla legge e dall'atto costitutivo; l'azione di responsabilità verso i creditori sociali ex art. 2394 c.c. ha natura extracontrattuale e presuppone l'insufficienza patrimoniale cagionata dall'inosservanza di obblighi di conservazione del patrimonio sociale. La prescrizione dell’azione proposta nei confronti degli amministratori e dei sindaci per mala gestio resta quinquennale e decorre non già dalla commissione dei fatti integrativi di tale responsabilità, o dalla cessazione dalla carica, bensì dal momento dell'insufficienza del patrimonio sociale al soddisfacimento dei crediti e, per meglio dire, dal momento in cui i creditori sono oggettivamente in grado di venire a conoscenza di tale insufficienza. Detta disciplina, stante il disposto dell’art. 2489 c.c. che rinvia, quanto alla responsabilità del liquidatore, alle norme sull’amministratore, si applica anche ai liquidatori di società di capitali. L’insufficienza patrimoniale di cui all’art. 2394 c.c. non corrisponde alla perdita integrale del capitale sociale, che può verificarsi anche in presenza di un pareggio tra attivo e passivo, né allo stato di insolvenza, trattandosi di uno squilibrio patrimoniale più grave e definitivo che può essere sia anteriore che posteriore alla dichiarazione di fallimento. Per presunzione iuris tantum, fondata sull'id quod plerumque accidit, la manifestazione di tale insufficienza si identifica con la dichiarazione di fallimento, mediante lo spossessamento del debitore e la presa in consegna delle attività da parte dell'organo della procedura. Tale presunzione non esclude come, in concreto, il deficit si sia manifestato in un altro momento, ma incombe sull'amministratore che eccepisce la prescrizione provare che l'insufficienza preesisteva e che era oggettivamente conoscibile da parte dei creditori in un momento anteriore alla dichiarazione di fallimento. Nonostante i doveri di amministratori e liquidatori non trovino una enumerazione precisa e ordinata nella legge, essi possono condensarsi nel più generale obbligo di conservazione dell’integrità del patrimonio, che impone loro sia di astenersi dal compiere qualsiasi operazione che possa rivelarsi svantaggiosa per la società e lesiva degli interessi dei soci e dei creditori, in quanto rivolta a vantaggio di terzi o di qualcuno dei creditori a scapito di altri, in violazione del principio della par condicio creditorum, sia di contrastare qualsiasi attività che si riveli dannosa per la società, così da adeguare la gestione sociale ai canoni della corretta amministrazione. Debbono considerarsi atti utili alla liquidazione, ai sensi dell’art. 2489 c.c., tutti quelli volti alla realizzazione dell'attivo e alla eliminazione del passivo sociale, in modo da consentire il riparto finale del residuo. La professionalità e la diligenza richieste secondo la natura dell'incarico conferito costituiscono parametri da valutarsi comunque con riferimento al fine ultimo della liquidazione ed estinzione della società e al compimento dei soli atti utili al raggiungimento di tale scopo; l'attività discrezionale, e come tale insindacabile, dei liquidatori ha quindi come limiti la ragionevolezza e la coerenza con le finalità proprie della particolare fase della vita della società cui sono preposti. Analogamente alla responsabilità degli amministratori, anche quella dei liquidatori è quindi una responsabilità qualificata e, per non incorrere in responsabilità, i liquidatori devono agire con la diligenza del corretto liquidatore, determinata in relazione all'incarico e alle specifiche competenze. È da escludersi che sussista lo stato d’insolvenza in presenza di un passivo di bilancio, o allorché la difficoltà di adempimento delle obbligazioni sia momentanea, e non cronica, e riguardi non tutte le obbligazioni, ma solo poche obbligazioni in un lasso di tempo limitato. L’insolvenza, invero, dev’essere valutata dinamicamente, in relazione cioè al complesso delle operazioni economiche ascrivibili all'impresa: dunque a un elemento legato non all'incapienza in sé del patrimonio dell'imprenditore ma a una vera impotenza patrimoniale definitiva e irreversibile e non è, invece, ravvisabile in una mera temporanea impossibilità di regolare adempimento delle obbligazioni assunte. Quando sia imputato all’organo amministrativo e di controllo il mancato incasso d’un credito, maturato dalla società in bonis prima del fallimento, non è sufficiente allegare l’inerzia degli amministratori nella riscossione di esso, occorrendo piuttosto allegare e provare che il credito è divenuto inesigibile a causa di quella inerzia. Nel caso in cui un amministratore effettui pagamenti preferenziali in una situazione di dissesto, questi sarà tenuto a risarcire i creditori lesi dal pagamento preferenziale, ma non per l'intero credito, bensì per il danno da maggior falcidia dei crediti insinuati al passivo. Questo è rappresentato dalla differenza tra quanto i creditori avrebbero percepito dal riparto fallimentare se il pagamento non fosse stato effettuato, e il creditore preferito si fosse insinuato al passivo fallimentare, e quanto hanno effettivamente percepito. [ Continua ]

Limiti all’acquisto di azioni proprie; inidoneità dell’insolvenza a integrare un’impossibilità di conseguire l’oggetto sociale

L’art. 2357 c.c., in tema di acquisto di azioni proprie, utilizza il concetto di distribuibilità con riferimento soltanto agli utili e non anche alle riserve. Gli utili distribuibili sono quelli non soggetti a vincoli di destinazione legali o statutari, o non destinati alla reintegrazione di riserve legali e statutarie o alla remunerazione dei promotori, dei soci fondatori e degli amministratori o non vincolati in forza di contratti collettivi o individuali di lavoro ex artt. 2099 e 2101 c.c. Quanto alle riserve, la nozione di disponibilità va distinta da quella di distribuibilità in base al criterio della possibilità di utilizzazione delle medesime. Le possibili utilizzazioni delle riserve disponibili sono, esemplificativamente, l’aumento gratuito del capitale sociale, il rimborso della partecipazione in caso di recesso del socio, la copertura delle perdite, la distribuzione ai soci e la destinazione a scopi specifici. Ne deriva che la distribuibilità della riserva rappresenta solo uno dei possibili utilizzi della riserva disponibile, essendo in un rapporto di species a genus rispetto alla disponibilità; utilizzo, quest’ultimo, che si esplica nella distribuzione ai soci degli utili che la costituiscono. L’indistribuibilità della riserva scaturisce da un divieto, legale o statutario, di distribuzione, che impone di non assegnare ai soci i valori corrispondenti alle riserve iscritte in bilancio, ma destinati invece a rimanere nel patrimonio netto: ciò al fine di rendere tali valori disponibili per altri scopi. La norma di cui all’art. 2357 c.c. consente di acquistare azioni proprie solo mediante impiego di quella porzione del patrimonio netto che indica le risorse in surplus, senza dunque che si possa attingere a capitale o a riserve indisponibili. La ratio della disposizione risiede nella tutela del capitale sociale, per impedire che l’acquisto delle azioni proprie della società mascheri un’indebita restituzione dei conferimenti ai soci (come potrebbe accadere se fosse a tal fine impiegato una parte del capitale sociale formato da detti conferimenti) o che siano intaccate riserve non utilizzabili in quanto destinate, per legge o per statuto, a preservare la solidità patrimoniale dell’ente o, comunque, a scopi diversi. Ciò che necessita è perciò, in primo luogo, che le riserve da utilizzare per l’acquisto delle azioni effettivamente sussistano e, in secondo luogo, che siano legittimamente adoperabili a questo fine. Ne consegue che ben possono essere utilizzate per l’acquisto di azioni proprie riserve disponibili anche se non distribuibili, tra cui la riserva per costi di ricerca, di sviluppo e di pubblicità ex art. 2426, co. 1, n. 5 c.c. La presenza di irregolarità contabili non implica necessariamente una responsabilità civile a carico degli amministratori né, ancor prima, l’inadempimento degli amministratori all’incarico ricevuto. Non si può escludere, infatti, che, pur in presenza di una iscrizione contabile scorretta, non ricorra tuttavia alcun profilo di colpa, alcuna violazione da parte degli amministratori dei canoni di diligenza professionale richiesti dalla natura dell’incarico; ciò anche qualora dall’iscrizione contabile fosse derivato un danno per la società amministrata o per i terzi. Inoltre, poiché qualsiasi valutazione dell’operato dei componenti dell’organo amministrativo deve essere espressa mediante un giudizio ex ante, debbono essere tenuti in considerazione solo gli elementi in possesso al momento dell’assunzione della decisione, o quelli che avrebbero potuto essere conosciuti, con conseguente irrilevanza, ai fini della espressione del giudizio sulla condotta degli amministratori, sia degli elementi conosciuti ex post sia dei risultati della decisione assunta. Lo stesso principio generale contenuto nell’art. 2423 c.c., secondo cui nel bilancio deve essere esposta con chiarezza e in modo veritiero e corretto la situazione patrimoniale e finanziaria della società e il risultato economico dell’esercizio, conferma l’orientamento secondo il quale tutte le volte che l’irregolarità contabile non altera e non maschera la situazione economica, patrimoniale e finanziaria dell’ente, la stessa non integra una condotta negligente dell’amministratore. Laddove l’iscrizione contabile risulti opinabile e non pienamente rappresentativa della situazione patrimoniale della società, ma sia stata comunque compiuta nei limiti della discrezionalità consentita dai criteri dettati dal legislatore, si deve escludere la violazione di un obbligo di condotta che possa determinare una responsabilità dell’amministratore. La prudenza e ragionevolezza della valutazione dei crediti sociali è condizionata dall’individuazione dei dati che alimentano una prognosi sulla solvibilità dei debitori. Per questo, occorre tener conto della particolare qualità del debitore, dell’andamento dei rapporti pregressi nei confronti dello stesso soggetto, della regolarità dei pagamenti e di tutti quelli valutabili per accertare l’insolvenza. Lo stato di insolvenza, o comunque una crisi economico-finanziaria della società, non rende ineluttabilmente impossibile il raggiungimento dell’oggetto sociale ex art. 2484, n. 2, c.c. Quest’ultimo, infatti, non coincide con lo scopo di lucro: è lo stesso legislatore a definire l’oggetto sociale come l’attività programmata o svolta dalla società. D’altra parte, se non si vuole far venire meno il significato stesso dell’eliminazione del fallimento dal novero delle cause di scioglimento delle società di capitali [nel sistema antecedente all’introduzione del d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14], deve ritenersi che l’accertamento giudiziale dell’insolvenza della società, e cioè della più grave tra le crisi dell’impresa, non appare di per sé sufficiente a provocarne lo scioglimento: dunque, non appare di per sé sufficiente a integrare altre ipotesi dissolutive, nemmeno, in particolare, quella consistente nell’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale. Ne deriva che l’oggetto sociale ben può essere conseguito anche da una società che versa in stato di insolvenza. Il che, a sua volta, impedisce di riconoscere alle condizioni economiche della società, tanto più se meno gravi dell’insolvenza, l’idoneità a rendere impossibile il conseguimento dell’oggetto sociale. L’impossibilità di conseguimento dell’oggetto sociale coincide con l’impossibilità, giuridica o materiale e non anche economica, di continuare a svolgere l’attività in cui esso consiste. Il curatore è legittimato a proporre l’azione risarcitoria nei confronti della banca per l’imprudente concessione del finanziamento, quando la posizione a questa ascritta sia di terzo responsabile solidale del danno cagionato alla società fallita per effetto dell’abusivo ricorso al credito da parte dell’amministratore della società, che abbia perduto interamente il capitale, dinanzi all’avventata richiesta di credito e a una parimenti avventata concessione di credito da parte della banca. Si deve, invece, escludere la legittimazione del curatore all’azione di risarcimento del danno diretto patito dal singolo creditore per l’abusiva concessione del credito quale strumento di reintegrazione del patrimonio di quest’ultimo. Al curatore spetta, infatti, la legittimazione per le c.d. azioni di massa, volte alla ricostituzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c., di cui tutti i creditori beneficeranno. [ Continua ]
30 Aprile 2024

Sulla responsabilità degli amministratori verso i creditori

Gli artt. 2394 e 2476, co. 6, c.c. pongono in capo agli amministratori delle società di capitali, tenuti a una corretta gestione sociale in forza della carica ricoperta nell’interesse della società e per l’attuazione del suo oggetto, una specifica obbligazione anche verso i creditori sociali finalizzata alla conservazione della garanzia patrimoniale della società ex art 2740 c.c., tanto da prevederne una responsabilità diretta se il patrimonio della società risulta così compromesso da essere insufficiente al soddisfacimento del loro credito. L’azione ex artt. 2394 e 2476, co. 6, c.c. verso i creditori sociali è autonoma e genera in capo all’amministratore una responsabilità fondata sullo specifico rapporto stabilito dalla legge tra i doveri degli amministratori e il diritto dei creditori sociali. [ Continua ]
30 Aprile 2024

Sul rapporto di concambio nella fusione

Nell'ambito di una complessa operazione di fusione societaria, non esiste un unico rapporto di cambio esatto, il quale va, invece, determinato all'interno di una ragionevole banda di oscillazione dipendendo il rapporto di cambio dalla discrezionalità tecnica degli amministratori, dovendosi escludere che esso sia univocamente desumibile dal rapporto matematico intercorrente tra le unità patrimoniali facenti capo alle società partecipanti alla fusione. Nel rapporto di cambio si deve rispettare il principio di parità e quindi ogni socio avrà una partecipazione di valore tendenzialmente corrispondente a quella in precedenza posseduta, nel rispetto dell'apporto delle diverse società all'aggregato della nuova realtà post fusione, alla luce del rapporto fra i rispettivi valori. Nessun metodo di valutazione delle partecipazioni sociali può avere il privilegio dell'assoluta attendibilità e la migliore approssimazione verso una valutazione effettivamente adeguata si ottiene mediante il c.d. giudizio integrato di valutazione. La scienza aziendalistica, infatti, discorre di metodi diretti di valutazione delle azioni come titoli (meno attendibili, in quanto meno oggettivi) e metodi indiretti di valutazione del patrimonio sociale e dell'azienda (più attendibili e oggettivi), la cui affidabilità bilanciata consiglia un uso misto dei medesimi. Il legislatore si limita a postulare che il rapporto di cambio debba essere congruo: non ha preteso l'assoluta esattezza matematica del concambio, così come ha omesso di indicare criteri inderogabili cui attenersi nella stima. Ciò significa che non esiste un unico rapporto di cambio esatto, con la conseguenza che la nozione di congruità finisce per ammettere una pluralità di concambi, i quali, entro il menzionato accettabile arco di oscillazione, sono tutti soddisfacenti dal punto di vista del legislatore, ed è proprio il giudizio integrato di valutazione a propiziare la migliore approssimazione verso una stima effettivamente adeguata. Al fine di verificare la congruità del rapporto di cambio, lo scostamento in ridotta percentuale (10%) della valutazione del valore delle partecipazioni (sulla base di un accordo che le parti hanno stipulato per evitare eventuali effetti pregiudizievoli derivanti dalla valutazione del concambio) rientra nel range della intrinseca opinabilità di ogni processo valutativo che ha ad oggetto la misurazione del valore di un'impresa: pertanto, può dirsi che un tale tipo di scostamento è insito nel rischio dell'operazione straordinaria di fusione cui i soci hanno aderito, come dispone l'art. 2502 c.c. [ Continua ]
30 Aprile 2024

Eccezione di convenzione di arbitrato e revoca del decreto ingiuntivo

La disciplina del computo dei termini di cui all'art. 155, co. 4 e 5, c.p.c., che proroga di diritto, al primo giorno seguente non festivo, il termine che scade in un giorno festivo o di sabato, si applica, per il suo carattere generale, a tutti i termini, anche perentori, contemplati dal codice di rito, anche in tema di introduzione del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo. [ Continua ]