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Tribunale di Palermo


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4 Ottobre 2021

Esclusione del socio di cooperativa ed onere probatorio nel successivo giudizio

Nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa a responsabilità limitata, incombe sulla società – che, pur se formalmente convenuta, ha sostanziale veste di attore – l’onere di provare i fatti posti a fondamento dell’atto impugnato. Ad ogni modo, tale redistribuzione dell’onere della prova sui fatti costitutivi della fattispecie non porta alla svalutazione della rilevanza dei motivi posti dal socio a sostegno della propria opposizione, quasi che questa si risolva in una mera sollecitazione al controllo giurisdizionale dell’esclusione indipendentemente dagli argomenti addotti dall’interessato per contestarne la legittimità. L’onere della prova è pur sempre circoscritto a quel che forma oggetto della controversia, i cui confini non possono che essere desunti dal contenuto dell’atto introduttivo del giudizio, senza che il giudice possa, ex officio, ricercare ulteriori ragioni di illegittimità della delibera di esclusione, onerando la società di provarne la conformità a legge e statuto oltre i motivi allegati dal socio.

Compete al giudice di merito la valutazione in concreto dalla riconducibilità dei comportamenti del socio escluso alla previsione statutaria che giustifica il provvedimento di esclusione. E nel fare ciò, quando la previsione statutaria si riferisca a comportamenti solo genericamente o sinteticamente indicati come contrari all’interesse sociale, senza enunciare una casistica specifica, il giudice deve tener conto della rilevanza dalla lesione eventualmente inferta dal socio all’interesse della società, potendosi ragionevolmente ritenere che la regola negoziale contenuta nello statuto sottintenda un elementare criterio di proporzionalità tra gli effetti del comportamento addebitato al socio e la risoluzione del rapporto sociale a lui facente capo. Sarebbe dal resto contrario al fondamentale principio di buona fede l’ammettere che un pregiudizio di scarsa rilevanza, in applicazione di una previsione statutaria di carattere generico, possa provocare una reazione a tal punto radicale. Pertanto, il giudice di merito deve dare conto con adeguata e logica motivazione della valutazione in proposito operata, valutazione che egli è tenuto a compiere non perdendo di vista il principio di buona fede, cui ovviamente non soltanto il comportamento della società cooperativa, ma anche quello del socio, dev’esser improntato. Né deve il giudicante trascurare, in un simile contesto, la rilevanza centrale che ha l’elemento personale nella società cooperativa, essendo questa fondata su un principio solidaristico che necessariamente postula – in misura ancora maggiore di quanto accade in società di altro tipo – il reciproco affidamento dei soci, il venir meno del quale costituisce il sostrato logico necessario di qualsiasi anche più specifica previsione statutaria di comportamenti implicanti l’esclusione.

12 Agosto 2021

Sovrastima del valore del magazzino e condotta distrattiva dell’amministratore unico

La differenza tra la consistenza del magazzino evincibile dall’ultimo bilancio predisposto dall’amministratore e quella della merce rinvenuta all’indomani del fallimento, in mancanza di documenti che dimostrino la destinazione della merce mancante, postula una distrazione della merce medesima, oppure l’inattendibilità del valore iscritto in bilancio al fine di gonfiare artificiosamente l’attivo e occultare l’intervenuta causa di scioglimento.

10 Agosto 2021

Corresponsabilità solidale dell’ente creditizio con gli amministratori nell’aggravamento del dissesto della società in liquidazione

La banca che abbia concesso finanziamento in mancanza dei requisiti di continuità aziendale presso la società finanziata, omettendo di effettuare un’attività istruttoria preliminare alla concessione del finanziamento (consistente nell’acquisizione di tutta la documentazione necessaria ad effettuare un’adeguata valutazione del merito creditizio, sia sotto il profilo patrimoniale che reddituale) viene meno al generale obbligo di diligenza imposto dall’art. 5 TUB che prevede che “la Banca deve seguire i principi di sana e prudente gestione valutando il merito di credito in base ad informazioni adeguate”, nonché viola le regole di comportamento dettate dalla Banca d’Italia nelle Istruzione di vigilanza per gli enti creditizi (cfr. Circolare n. 229 del 21.04.1999 e successivi aggiornamenti). Tale violazione rende illegittima la concessione di credito e costituisce un comportamento gravemente colposo per la banca. Qualora tale comportamento, per l’entità del credito irregolarmente concesso, abbia concretamente agevolato gli amministratori della società, di fatto e di diritto, nella prosecuzione dell’attività d’impresa, malgrado il verificarsi di una causa di scioglimento, assicurando loro la liquidità necessaria e mostrando all’esterno la società finanziata come solvibile, comporta la corresponsabilità dell’ente creditizio con gli amministratori nell’aggravamento del dissesto della società ai sensi dell’art. 2055 c.c. Tale principio vale anche quando la liquidità fornita dall’istituto di credito sia utilizzata non per il pagamento dei debiti sociali bensì per il finanziamento di altre società del medesimo gruppo.

Quanto al diritto di regresso, in presenza di condotte distrattive da parte degli amministratori, il terzo finanziatore, nel consentire colpevolmente la prosecuzione dell’attività di impresa, è responsabile dell’aggravamento del dissesto nei confronti dei terzi, ma nei rapporti interni ha diritto di regresso verso gli amministratori convenuti. Invece, per la parte di danno ascrivibile anche alla banca, ai fini del regresso interno fra condebitori, per la presunzione di eguale corresponsabilità di cui all’art. 2055 co. 2 c.c., la stessa risponde in misura pari agli altri convenuti.

10 Agosto 2021

Sulla decorrenza del termine per l’impugnazione della delibera di S.p.A. in caso di azioni sequestrate e sul termine per la tutela risarcitoria

I termini ristretti per impugnare le delibere societarie (rispettivamente 180 giorni nei casi nullità ex art. 2379 c.c. e 90 giorni nei casi di annullabilità ex art. 2377) sono disposti a tutela della stabilità delle decisioni societarie e, pertanto, con riferimento al termine di 90 giorni con cui far valere il vizio di annullabilità della delibera per la violazione del diritto di opzione ex art. 2441, va rilevato che esso decorre, a pena di decadenza, anche in pendenza di sequestro e poi confisca di prevenzione delle azioni della S.p.A., durante i quali, peraltro, l’esercizio dei diritti sociali non è sospeso ma è affidato all’amministratore giudiziario. Le ipotesi di sospensione e interruzione di tale termine sono tassative ai sensi dell’art. 2941 c.c. e, per questo, non suscettibili di interpretazione analogica, ferma restando la tutela risarcitoria esperibile nel termine quinquennale ai sensi dell’art. 2949 c.c., risultando le norme dell’art. 2377 comma 8, dell’art. 2378 comma II, in tema di delibere annullabili, e dell’art. 2379 ter, ultimo comma c.c., in tema di delibere nulle, l’espressione del generale diritto alla tutela risarcitoria, che assicura il ristoro del pregiudizio subito dall’altrui condotta quando non sia prevista (o non sia più esperibile) una tutela in forma specifica; il il breve termine di novanta giorni per la delibera annullabile deve ritenersi previsto a pena di decadenza soltanto per l’impugnazione della delibera, mentre l’eventuale tutela risarcitoria va azionata negli ordinari termini che, in materia societaria, sono soggetti alla prescrizione quinquennale ex art. 2949 c.c.

Criteri di qualificazione dei versamenti dei soci. In particolare, la fattispecie regolata dall’art. 2467 c.c.

L’erogazione di somme da parte dei soci a favore della società può avvenire a titolo di mutuo oppure di versamento in conto capitale e la diversa natura di tali versamenti rileva ai fini della determinazione della disciplina applicabile, in particolare in relazione alla possibilità di rimborso delle somme versate.

L’identificazione dei versamenti dei soci come finanziamenti o apporti in conto capitale si basa sulla volontà negoziale delle parti nel momento in cui si è manifestata o, in mancanza, sulla qualificazione che tali somme hanno ricevuto nel bilancio, in considerazione della soggezione di questo all’approvazione dei soci. Così, la qualificazione delle somme come “finanziamenti soci” o “debiti verso soci” e la loro iscrizione nel bilancio al passivo dello stato patrimoniale qualifica tali versamenti come finanziamenti; nel caso contrario, invece, l’iscrizione delle somme tra le riserve del patrimonio netto condurrebbe alla loro qualificazione come versamenti in conto capitale.

I versamenti di quasi-capitale possono essere distribuiti prima della liquidazione della società soltanto previa apposita delibera assembleare (o decisione dei soci nelle s.r.l.) e sono destinati ad essere intaccati nel loro ammontare dalle perdite.

La natura di finanziamento di un versamento effettuato dal socio nei confronti della società comporta l’applicazione della disciplina della postergazione di cui all’art. 2467 c.c. La disposizione ha quale suo presupposto situazioni di difficoltà della società, nelle quali il prestito del socio, in luogo di un fisiologico finanziamento, è alquanto sospetto e scorretto. Tale situazione di difficoltà, che deve essere vagliata al momento in cui il finanziamento è stato erogato, ricorre in presenza o di un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto, oppure di circostanze in presenza delle quali sarebbe stato ragionevole effettuare un conferimento.

Nella prima delle due situazioni assume rilevanza centrale il rapporto tra capitale proprio e capitale di terzi (con la precisazione che tale rapporto tende a variare in relazione alla singola realtà e alla vita dell’impresa collettiva e su di esso incide la durata dell’indebitamento nonché del flusso di cassa dell’impresa); per il riscontro di tale situazione occorre, pertanto, dare rilevanza all’indice di indipendenza finanziaria (inteso come rapporto tra patrimonio netto, capitale proprio e capitale di terzi). Nel secondo caso, invece, non è necessario che sussista un eccessivo indebitamento, rilevando piuttosto una situazione finanziaria tale per cui sarebbe ragionevole un conferimento. Il riferimento alla ragionevolezza induce ad individuare uno standard di comportamento socialmente tipico di un finanziatore o normale operatore del mercato, anche alla luce degli usi commerciali del settore di attività della società interessata, il quale verosimilmente non avrebbe finanziato la società perché questa ex ante non presenta le condizioni finanziarie per poter restituire quanto ricevuto. Per l’accertamento di questo secondo presupposto, assume rilievo decisivo l’indice di liquidità, che misura la capacità dell’impresa di far fronte agli impegni finanziari assunti (con la precisazione che un indice inferiore ad uno evidenzia una situazione di sostanziale insolvenza, tale da rendere inopportuna la scelta del finanziamento in luogo dell’apporto di capitale).

Responsabilità dell’amministratore: necessaria allegazione per la risarcibilità del danno non patrimoniale e rilevanza probatoria del patteggiamento

Anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, il danno non patrimoniale, costituendo anch’esso un danno conseguenza, deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi in re ipsa. L’art. 2059 c.c. opera esclusivamente sul piano della limitazione della risarcibilità del danno non patrimoniale, ai soli casi previsti dalla legge, lasciando integri gli elementi della fattispecie costitutiva dell’illecito ex art. 2043 c.c. Occorre distinguere l’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale, che si ricava dalla individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela, dalla verifica giudiziale di tale pregiudizio, che deve compiersi attraverso gli ordinari criteri di accertamento dei fatti previsti dall’ordinamento giuridico.

La sentenza penale di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. costituisce un importante elemento di prova per il giudice civile, il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità e il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione. Infatti, la sentenza di applicazione di pena patteggiata, pur non potendosi configurare come sentenza di condanna, presuppone pur sempre una ammissione di colpevolezza ed esonera il giudice dall’onere della prova.

Efficacia probatoria delle scritture contabili

Nel caso di rapporti di debito/credito tra i soci e società che attengono al rapporto societario, qualora il tema dell’assenza di quietanze firmate dai soci destinatari dei rimborsi di somme erogate a titolo di finanziamento risulti espressamente affrontato in sede assembleare, prevale – sul principio della libera valutazione da parte del giudice di merito dei libri e delle scritture contabili, e quindi anche del bilancio, dell’impresa soggetta a registrazione ai sensi dell’art. 2709 c.c. – il principio di vincolatività delle delibere assembleari nei confronti di tutti i soggetti legati dal rapporto sociale, compresi i soci eventualmente dissenzienti che non abbiano proposto rituale impugnazione.

L’esclusione del socio di società cooperativa per gravi inadempienze

Le norme sull’esclusione del socio “per gravi inadempienze” hanno carattere speciale e sostituiscono quelle generali sulla risoluzione per inadempimento dei contratti con prestazioni corrispettive, di cui agli artt. 1453 e segg. c.c., le quali non sono applicabili al contratto di società sia per la mancanza di interessi contrapposti tra il socio e l’ente sociale, sia per le diverse finalità cui esse sono preposte. La risoluzione mette nel nulla il rapporto contrattuale nei confronti della parte inadempiente, con gli effetti restitutori di cui all’art. 1458 c.c., e, nel caso le parti in contratto siano soltanto due, elimina del tutto il rapporto con i reciproci obblighi restitutori delle parti di cui alla citata disposizione di legge. L’esclusione del socio comporta, invece, soltanto lo scioglimento del vincolo sociale limitatamente al socio inadempiente, con il diritto di quest’ultimo esclusivamente ad una somma di danaro che rappresenti il valore della quota, ma non anche, di per sé, lo scioglimento della società, neppure nel caso in cui i soci siano soltanto due, perché, in tale ipotesi, la società si scioglie solo se, nel termine di sei mesi, non venga ripristinata la pluralità di soci.

Per quanto riguarda l’ipotesi prevista al 1° co. dell’art. 2533 c.c., il carattere della gravità, in base alla disciplina generale, deve essere vagliato in relazione al peculiare interesse del creditore, quindi al mancato – o particolarmente difficoltoso – raggiungimento dello scopo sociale, trattandosi di condotte che possano avere inciso negativamente sulla situazione economica dell’ente, rendendone meno agevole il perseguimento dei fini.

Quanto al riparto dell’onus probandi (ex art. 2697 c.c.), nel giudizio di opposizione contro la deliberazione di esclusione del socio di una società cooperativa, incombe su quest’ultima l’onere di provare i fatti posti a base della determina impugnata: la veste processuale di convenuta è infatti puramente formale, non diversamente che in qualsiasi altro giudizio a struttura oppositiva o impugnativa di un provvedimento giudiziale, ovviamente nel solco di quelle che sono le argomentazioni e le eccezioni formulate dal socio (o dai soci, nella specie) opponente.

26 Luglio 2021

Sospensione della esecuzione della delibera di aumento di capitale ed abuso della maggioranza

Il termine “esecuzione” (utilizzato dall’art. 2378 co. 3^ c.c.) non intende fare riferimento soltanto ad una fase strettamente materiale di attuazione della decisione, ma ad una più ampia condizione di efficacia della deliberazione, rispetto alla quale l’esecuzione è un momento puramente eventuale. Da tale considerazione discende, per un verso che anche le delibere tecnicamente prive di esecuzione – cioè idonee a produrre effetti giuridici anche in assenza di una specifica attività esecutiva, quali sono quelle aventi mera efficacia dichiarativa – possono essere sospese ex art. 2378 co. 3^ c.c., per altro verso che la materiale esecuzione delle delibere non osta alla pronuncia cautelare di sospensione volta a bloccarne gli effetti, soprattutto quando (come nel caso di specie) siano duraturi.

L’abuso della maggioranza può costituire motivo di invalidità della delibera quando vi sia la prova che il voto determinante del socio di maggioranza è stato espresso allo scopo di ledere interessi degli altri soci, oppure risulta in concreto preordinato ad avvantaggiare ingiustificatamente i soci di maggioranza in danno di quelli di minoranza, in violazione del canone generale di buona fede nell’esecuzione del contratto

20 Luglio 2021

Natura dell’azione di responsabilità contro gli amministratori nelle società cooperative

L’azione di responsabilità proposta dal rappresentante comune dei soci di una società cooperativa nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione va qualificata quale azione sostitutiva dei soci ai sensi dell’art. 2393 bis, co. 1, c.c. (applicabile alle cooperative stante il rinvio operato dall’art. 2519 c.c.), nell’ambito della quale la società è litisconsorte necessaria.