26 Novembre 2021

Azionisti di risparmio, limitazione del diritto d’opzione e prezzo d’emissione al di sotto della parità. Il caso Carige-Malacalza.

Il rappresentante comune degli azionisti di risparmio di società emittenti azioni quotate non è legittimato a far valere in giudizio i pregiudizi patrimoniali in thesi prodottisi nelle sfere patrimoniali dei singoli azionisti di risparmio, rappresentando la sua legittimazione straordinaria a “tutelare gli interessi comuni” di questi, ai sensi dell’art. 2418 c.c. cui l’art. 147, c. 3, del testo unico della finanza rinvia, una eccezione al principio generale stabilito dall’art. 81 c.p.c., a mente del quale “nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui”.

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26 Novembre 2021

Aumento di capitale di Banca Carige

L’art. 2379 ter, co. 2, c.c. si riferisce anche ai casi di annullabilità della delibera. Tale disposizione, dando attuazione all’intento della riforma del 2003 di conferire massimo grado di certezza e stabilità alle deliberazioni societarie, preclude l’impugnazione, e dunque anche la sospensione, delle deliberazioni di aumento di capitale delle s.p.a. aperte, ricollegando l’effetto preclusivo all’iscrizione nel registro delle imprese dell’attestazione della sua esecuzione, anche parziale. La norma intende escludere la relativa tutela reale, impedendo, pur in presenza di vizi di legittimità che determinerebbero l’annullabilità o la nullità della delibera, che, a mezzo dell’impugnazione, l’aumento di capitale sia bloccato temporaneamente (con la sospensione) o definitivamente, totalmente o parzialmente.

L’art. 147 t.u.f., ponendo a carico del rappresentante comune degli azionisti di risparmio gli obblighi e i poteri previsti dall’art. 2418 c.c., gli attribuisce il compito di tutelarne gli interessi comuni, che non comprendono i diritti soggettivi dei singoli azionisti. Il riconoscimento in capo al rappresentante comune della rappresentanza processuale della categoria degli azionisti di risparmio deve essere interpretato restrittivamente, in quanto costituisce un’eccezione al principio generale stabilito dall’art. 81 c.p.c., secondo cui nessuno può far valere nel processo in nome proprio un diritto altrui. Il criterio distintivo per l’individuazione delle domande che il rappresentante comune è legittimato a proporre è rappresentato dall’interesse comune degli azionisti di risparmio: quando la domanda è volta a tutelare una pluralità di interessi individuali, difetta la ratio che ha portato al conferimento del potere di rappresentanza processuale in favore del rappresentante comune.

L’ordinamento assicura al socio, allo scopo di preservare l’interesse economico alla conservazione e alla reddittività del suo investimento, la possibilità di essere attivamente partecipe nell’organizzazione societaria e quindi di incidere sull’assetto societario sia tramite il diritto di voto, che tramite il diritto all’impugnazione delle delibere. Il diritto partecipativo del socio consente a quest’ultimo di influire sulla attività della società, oltre che a reagire ad una deliberazione assembleare viziata. Pertanto, il comportamento del socio che, partecipando all’assemblea ed esprimendo il proprio voto contrario, avrebbe potuto impedire l’adozione di una determinata delibera e, successivamente, omesso anche di chiedere la sospensione dell’esecuzione, domandi il risarcimento del danno prodotto dalla medesima deliberazione deve ritenersi abusiva. La strada percorsa dalla riforma del diritto societario del 2003 è stata quella di riconoscere la legittimazione all’azione di annullamento delle delibere delle società per azioni ai soci ordinari muniti del diritto di voto che rappresentano una determinata parte del capitale sociale (l’uno per mille nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio) e di prevedere per i soci ordinari che non sono legittimati all’impugnativa il diritto al risarcimento del danno loro cagionato dalla non conformità della delibera alla legge o allo statuto. La tutela risarcitoria, dunque, muove, in linea di principio, da un’esigenza di tutela del socio di minoranza cui verrebbe imposta dalla maggioranza una delibera illegittima o illecita. Di conseguenza, la domanda risarcitoria avanzata dal socio titolare di una partecipazione che gli consentirebbe di agire per l’annullamento della delibera non è meritevole di accoglimento, sia per violazione dell’art. 1227 c.c., che esclude il diritto al risarcimento dei danni che il danneggiato avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, sia in ragione del divieto di venire contra factum proprium, espressione del divieto di abusare di un proprio diritto attraverso un uso strumentale di esso, sia per contrarietà ai canoni di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c., applicabili anche all’esecuzione del contratto sociale.

L’art. 2372 c.c. prevede che coloro ai quali spetta il diritto di voto possono farsi rappresentare nell’assemblea e che la rappresentanza debba essere conferita per iscritto. Inoltre, ai sensi dell’art. 135 undecies t.u.f., la società con azioni quotate, salvo diversa clausola statutaria, deve designare per ciascuna assemblea un rappresentante, al quale i titolari del diritto di voto possano conferire una delega con istruzioni di voto su tutte o su alcune delle proposte all’ordine del giorno. Il contenuto del modulo di delega e le modalità di esercizio del voto sono disciplinate dall’art. 134 del Regolamento Emittenti. Ai sensi dell’art. 135 undecies, co. 2, t.u.f., dunque, la delega per le società con azioni quotate viene rilasciata, nel pieno rispetto della forma scritta prescritta dall’art. 2372, co. 1 c.c., mediante la sottoscrizione di un modulo di delega, il cui contenuto minimo è disciplinato dal Regolamento Emittenti. La ratio dell’art. 135 undecies t.u.f. è quella di agevolare la larga partecipazione al voto a mezzo di delega nelle società quotate ad azionariato diffuso, per le quali è prevista obbligatoriamente, salvo diversa disposizione statutaria, la figura del rappresentante designato. In tal caso, i requisiti di forma previsti dalla legge risultano attenuati, in ragione dell’affidabilità del medesimo rappresentante designato, soggetto professionalmente qualificato, e sono limitati alla compilazione del modulo di delega, che deve contenere almeno i dati del modello 5A allegato al Regolamento Emittenti e deve essere compilato con l’inserimento di indicazioni specifiche sul documento di identità, sul potere di firma e sui titoli azionari detenuti dal delegante. Diverso è il caso all’art. 135 novies t.u.f., che regola il rilascio della delega individuale dal socio al rappresentante, con facoltà di designare uno o più sostituti o di autorizzare il delegato a farsi sostituire da un soggetto di propria scelta. Tale disposizione, per garantire la certezza sulla provenienza dell’atto di delega, sul suo contenuto e sull’identità del delegante, prevede al quinto comma che il rappresentante possa, in luogo dell’originale, consegnare o trasmettere una copia, anche su supporto informatico, della delega attestando sotto la propria responsabilità la conformità all’originale e l’identità del delegante. È previsto inoltre che il rappresentante conservi l’originale della delega e tenga traccia delle istruzioni di voto eventualmente ricevute per un anno a decorrere dalla conclusione dei lavori assembleari.

Come per le scelte di gestione adottate dagli amministratori e dai liquidatori di società, così anche per quelle dei commissari straordinari vige la business judgment rule, in base alla quale, salvo manifesta irragionevolezza delle scelte, desumibile dal fatto che non siano state adottate le necessarie cautele ed assunte le informazioni rilevanti, esse sono tendenzialmente insindacabili in sede giudiziale. È, dunque, in termini di ragionevolezza che deve essere valutata la scelta dei commissari in ordine alla limitazione del diritto di opzione dei soci ordinari sull’aumento di capitale. In particolare, per escludere o limitare il diritto d’opzione è sufficiente che l’interesse sociale sia serio e consistente, tale da giustificare che, nella scelta del modo di realizzare l’aumento di capitale, sia ritenuto preferibile, perché ragionevolmente più conveniente, il sacrificio totale o parziale del diritto di opzione dei soci.

Per interpretare correttamente l’art. 2441, co. 6, c.c., occorre considerare che il riferimento al “valore del patrimonio netto” (e non al “patrimonio netto”) attiene al valore effettivo del patrimonio, quale risultante da un processo valutativo e non al suo valore contabile quale risultante dal bilancio. Ciò comporta che in determinate circostanze l’assemblea possa discostarsi dal valore contabile e fissare un prezzo ancora più basso, se ciò si renda necessario per il buon esito dell’aumento di capitale. Inoltre, la determinazione del prezzo di emissione delle nuove azioni in caso di esclusione del diritto d’opzione non può essere frutto di una mera operazione aritmetica consistente nel dividere il patrimonio netto per il numero delle azioni in circolazione, in quanto è lo stesso art. 2441, co. 6, c.c. a prevedere che gli amministratori debbano illustrare in una apposita relazione per l’assemblea i criteri adottati per la determinazione del prezzo di emissione e il collegio sindacale (o, nelle società quotate, la società di revisione) debba esprimere il proprio parere sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni. La determinazione del prezzo di emissione, nel caso di aumento del capitale con esclusione del diritto d’opzione, è, dunque, espressione di una valutazione che deve contemperare diversi interessi: da una parte, l’interesse dei vecchi soci a che le azioni non vengano offerte ai nuovi soci ad un prezzo più basso di quello effettivo e, dall’altra, l’interesse della società a realizzare l’aumento di capitale, interesse che sarebbe vanificato se l’assemblea fosse costretta a fissare un prezzo troppo alto, slegato dall’effettivo valore delle azioni, in quanto nessun terzo sarebbe mai interessato a sottoscrivere azioni a un prezzo più alto di quello effettivo.

Il valore di mercato di un titolo azionario dipende normalmente dalla diversità dei diritti che il titolo incorpora: il mercato esprime, infatti, una stima in termini economico-patrimoniali di tali diritti. Di conseguenza, non potrebbe ritenersi arbitrario un rapporto di cambio che sia differenziato in ragione delle diverse quotazioni delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio della società incorporata. Tali quotazioni sono, infatti, in grado di pesare i diritti patrimoniali e amministrativi propri delle due categorie di azioni. La determinazione del valore delle azioni sulla base delle quotazioni ricevute sul mercato costituisce, del resto, un criterio non solo rispondente a un canone di ragionevolezza, ma sintomaticamente fatto proprio dal legislatore, se pure ad altri fini. Vanno citati, in proposito, l’art. 2437 ter c.c. sui criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso del socio, che impone, salvo diverse disposizioni statutarie, di liquidare le azioni quotate sui mercati regolamentati facendo riferimento alla media dei prezzi di chiusura delle medesime nell’ultimo semestre, e l’art. 2441 c.c., sul diritto di opzione in caso di nuove emissioni di azioni o di obbligazioni convertibili, che prescrive di tener conto, nel prezzo delle azioni quotate, oltre che del patrimonio netto, anche dell’andamento delle quotazioni per lo stesso arco di tempo. Sono, queste, disposizioni che oltretutto sconfessano, sul piano del diritto positivo, l’assunto secondo cui il valore delle azioni vada meccanicamente ricavato dalla quota di patrimonio che nominalmente rappresentano: ed è, anzi, significativo che l’art. 2437 ter, co. 1, c.c. richieda agli amministratori di tener conto dell’eventuale valore di mercato delle azioni anche per i titoli non quotati.

24 Novembre 2021

Criteri di liquidazione del danno per mancato conferimento di incarico gestorio promesso

Il danno patrimoniale cagionato dal mancato conferimento dell’incarico gestorio a favore del destinatario di proposta contrattuale per mero rifiuto dei proponenti di dar seguito alla proposta è quantificabile sommando danno emergente e del lucro cessante. Con riferimento al danno emergente, il parametro minimo del risarcimento corrisponde all’ammontare del corrispettivo promesso per tutta la durata dell’incarico (in particolare, tale parametro opera quando la voce retributiva è prestabilita nell’ammontare e indipendente dai risultati della gestione. Va inoltre verificato che l’ottenimento di tale somma sia stato unicamente impedito dal rifiuto dei soggetti che avrebbero dovuto provvedere al conferimento dell’incarico). Più problematico è, invece, il riconoscimento del danno in termini di lucro cessante, specialmente con riferimento alla liquidazione della parte variabile del compenso legata all’esito positivo dell’attività gestoria: infatti, in tal caso, la perdita non consiste in un valore economico certo, bensì in un vantaggio economico atteso e, quindi, nella mera possibilità di conseguirlo. Pertanto, il danno potenzialmente scaturente dalla “possibilità perduta” dev’essere provato dal danneggiato, sia pur in via presuntiva, in termini di apprezzabilità, serietà e consistenza del suo stesso verificarsi (an debeatur); invece la determinazione del quantum debeatur va realizzata con valutazione squisitamente equitativa. Sotto quest’ultimo profilo, l’unico criterio utilmente impiegabile è quello, seppur inevitabilmente approssimativo e probabilistico, basato sul confronto con i compensi medi annuali percepiti nel periodo e nel luogo di riferimento dai top manager di realtà aziendali paragonabili per dimensione e “complessità” alla società in questione. L’ammontare dell’utilità sperata andrà quindi calcolato con riferimento alle medie dei suddetti compensi, ulteriormente mediando quelle risultanti dai diversi campioni esaminati, moltiplicate per gli anni di carica. Il valore così ottenuto è onnicomprensivo e dev’essere quindi diminuito dell’ammontare dei compensi fissi.

17 Novembre 2021

Revoca di amministratore di società di capitali in assenza di giusta causa: conseguenze ed onere della prova

L’amministratore non ha diritto al mantenimento dell’incarico e, in base all’art. 2383, 3° comma c.c., pacificamente applicabile alle s.r.l., l’assemblea può revocare l’amministratore dall’incarico in qualunque tempo e ad nutum, non essendo il requisito della giusta causa elemento costitutivo della validità e/o dell’efficacia della deliberazione di revoca, ma rilevando – invero – il requisito della presenza della giusta causa sotto l’eventuale profilo risarcitorio.

Le ragioni della revoca devono essere enunciate espressamente e specificatamente nella deliberazione, senza facoltà di integrazione in sede giudiziale.

Quando l’amministratore revocato agisce in giudizio, contestando la sussistenza della giusta causa e facendo valere il diritto al risarcimento del danno, la posizione sostanziale di attore spetta alla società, onerata della prova della giusta causa di revoca secondo i caratteri avanti indicati, mentre l’amministratore è il convenuto sostanziale.

16 Novembre 2021

La nullità del contratto costitutivo di una S.p.a.

A norma dell’art. 2332 c.c., il rilievo della nullità del contratto costitutivo di una spa compiuto in via principale, una volta che la stessa sia stata iscritta nel registro delle imprese e che, così formalmente costituita, abbia avviato la propria attività, si converte in una causa di scioglimento dell’ente con effetti ex nunc in ragione della necessità di garantire la stabilità del traffico giuridico e dunque tutelare i terzi che abbiano interagito con la società. Non discendendo dal rilievo del vizio genetico effetti retroattivi e ripristinatori, restano, inoltre, esigibili dalla società gli obblighi di conferimento dovuti dai soci fino a quando non siano stati soddisfatti i creditori sociali (co. 3 disp. cit.).

Per un verso, non può dunque dubitarsi dell’obbligo del Tribunale di rilevare incidentalmente la nullità ex art. 2332 c.c., per altro verso – vertendosi in materia di obbligazioni dei soci verso la società e considerata la ratio del co. 2^ dell’art. 2332 c.c. (che pure parla di “conferimenti”) – deve giungersi non già alla declaratoria di inammissibilità della domanda, bensì al suo esame nel merito.

La pretesa creditoria non postula infatti la prosecuzione dell’attività da parte della società, ma è conseguenza degli obblighi assunti dai soci nei confronti della stessa, obblighi che restano fermi ex art. 2332 co. 2^ c.c., tali dovendosi intendere tutte le obbligazioni, principali o accessorie, che trovino titolo esplicito nel contratto di società.

11 Novembre 2021

Note sostanziali e processuali dell’impugnazione della delibera di bilancio. Legittimazione dell’ex socio ad impugnare la delibera ex art. 2447 c.c.

Dev’essere considerata ammissibile la precisazione, effettuata in prima memoria, della domanda di impugnazione di una delibera assembleare quale domanda di nullità, allorché riguardi la mera qualificazione dell’impugnazione in riferimento a presupposti di invalidità della delibera già prospettati in citazione.

Non sono compromettibili in arbitri le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di delibere assembleari di approvazione del bilancio per vizi attinenti alla violazione delle norme che disciplinano la redazione dei documenti contabili.

Colui il quale abbia perso la qualità di socio, non avendo sottoscritto la propria quota di ricostituzione del capitale sociale, conserva la legittimazione ad impugnare la delibera assembleare adottata ex art. 2447 c.c., in quanto sarebbe logicamente incongruo, oltre che in contrasto con il principio di cui all’art. 24, co. 1 Cost., ritenere come causa del difetto di legittimazione proprio quel fatto che l’attore assume essere contra legem e di cui vorrebbe vedere eliminati gli effetti.

Il corretto richiamo, in nota integrativa, dei principi contabili di cui si è fatta applicazione nella redazione del bilancio esclude l’invalidità della relativa delibera di approvazione [nel caso di specie, il Tribunale ha ritenuto corretta la scelta degli amministratori di svalutare integralmente le immobilizzazioni, dopo aver rilevato la perdita del requisito della continuità aziendale, a fronte di un ingente fabbisogno finanziario immediato, rispetto al quale i soci non avevano manifestato alcuna disponibilità ad intervenire con versamenti o  finanziamenti].

Non può ritenersi annullabile per abuso di maggioranza la delibera di riduzione e contestuale aumento del capitale ex art. 2447 c.c., allorché le alternative astrattamente percorribili dalla società – i.e. il rinvio annuale delle iniziative di cui all’art. 2447 c.c. data la natura di PMI innovativa della società, la trasformazione, il ricorso al credito bancario ovvero l’acquisto delle partecipazioni dei soci di minoranza da parte di quelli di maggioranza – non avrebbero comunque consentito il recupero della continuità aziendale o avrebbero presupposto delle valutazioni aventi carattere discrezionale, in quanto tali libere.

8 Novembre 2021

La responsabilità concorrente del sindaco nella gestione dell’impresa e criteri di liquidazione del danno in caso di illecita prosecuzione dell’attività di impresa

E’ negligente il collegio sindacale che, a fronte di divergenze tra business plan e progetto di bilancio, non effettua verifiche mirate sul punto e tale condotta concorre, unitamente alla condotta dell’organo gestorio, alla prosecuzione della attività d’impresa in violazione di quanto disposto dagli artt. 2447 e 2486 laddove ne ricorrano gli elementi: se l’organo di controllo avesse operato diligentemente nel controllo contabile avrebbe potuto verificare la non veridicità del bilancio – una non veridicità fondamentale spostando la situazione della società da società capitalizzata a società sottocapitalizzata – segnalarla all’amministratore e successivamente alla assemblea eventualmente avvalendosi dei poteri di cui all’art 2406 c.c. in caso di inerzia dell’amministratore.

In presenza di situazioni di illecita prosecuzione dell’attività di impresa caratterizzata da innumerevoli nuove operazioni e di conseguente difficoltà di ricostruire ex post il risultato netto (costi/ricavi) di singole operazioni non conservative, è possibile procedere alla determinazione del danno mediante criteri presuntivi o equitativi; è possibile in tali casi adottare il criterio c.d. della differenza dei netti patrimoniali, che consiste nella comparazione dei patrimoni netti (determinati secondo criteri di liquidazione previa, se del caso, rettifica delle voci di bilancio scorrette) registrati alla data della (doverosa) percezione del verificarsi della causa di scioglimento da parte degli organi sociali e alla data di messa in liquidazione della società (o di fallimento della stessa); il danno in termini di “perdita incrementale netta”, infatti, consente di apprezzare in via sintetica ma plausibile l’effettiva diminuzione subita dal patrimonio della società (dunque il danno per la società e per i creditori) per effetto della ritardata liquidazione.

3 Novembre 2021

Lo statuto può disporre la gratuità dell’incarico di amministratore

Il compenso dell’amministratore costituisce materia del tutto disponibile e subordinata alle disposizioni statutarie (artt. 2377 comma 1, 2479 ter, ult. comma, c.c.). Ben si può dire, in linea molto generale, che, nel rapporto interno con l’amministratore e sul piano contrattuale, le scelte negoziali per conto della società sono assunte ed espresse dai soci, ai quali spetta ex lege il potere di nominare e revocare gli amministratori e di determinarne, eventualmente, il compenso. Da tali previsioni non può quindi in alcun modo desumersi il carattere inderogabilmente oneroso della prestazione dell’amministratore, non costituendo l’onerosità un requisito indispensabile della stessa.

Inoltre, il rapporto intercorrente tra la società di capitali ed il suo amministratore è di immedesimazione organica e ad esso non si applicano né l’art. 36 Cost. né l’art. 409, comma 1, n. 3) c.p.c.. Ne consegue che è legittima la previsione statutaria di gratuità delle relative funzioni.

Pertanto, al fine di individuare le modalità di regolamentazione del rapporto con l’amministratore, occorre fare riferimento a quegli atti attraverso i quali, nell’ambito dell’organizzazione societaria, si manifesta la volontà dei soci con particolare riferimento al rapporto di amministrazione. Astrattamente, sono prospettabili quattro alternative, potendo lo statuto: (i) attribuire agli amministratori un diritto al compenso, (ii) subordinare il diritto al compenso all’assunzione di apposita delibera dell’assemblea, (iii) escludere il diritto al compenso e stabilire, dunque, la gratuità dell’incarico ovvero (iv) non prevedere nulla al riguardo.

Sicché, se lo statuto subordina il compenso dell’amministratore alla presenza di una specifica delibera assembleare, e tale delibera non vi è, nulla è dovuto a chi ricopra quella carica, in forza della vigenza di una regola statutaria di gratuità.

Resta fermo che, a fronte della gratuità dell’incarico, l’amministratore ben potrebbe non accettare la conclusione del contratto e, quindi, rifiutare la nomina oppure, ove l’abbia già accettata, estinguere anticipatamente il rapporto, rassegnando le proprie dimissioni.

26 Ottobre 2021

Natura dell’azione di responsabilità ex art. 2395 c.c.

L’azione di responsabilità prevista dall’art. 2395 c.c. ha natura aquiliana, è esperibile dal socio o dal terzo al fine di ottenere il risarcimento del danno direttamente subito nella propria sfera giuridica in conseguenza di fatti illeciti compiuti dagli amministratori e, al pari di ogni altra azione risarcitoria, richiede l’accertamento della condotta contra legem dell’amministratore e la prova del nesso di causalità immediata e diretta che la lega al pregiudizio lamentato dal danneggiato.
Dalla natura extracontrattuale della responsabilità invocata deriva, altresì, l’onere da parte dell’attrice di provare in giudizio tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito descritto ed, in particolare, la specifica condotta dolosa o colposa attribuita all’amministratore ed il nesso causale di derivazione diretta da essa del pregiudizio lamentato, non essendo sufficiente a fondare la pretesa risarcitoria il mero inadempimento della società alle obbligazioni contrattuali assunte nei confronti del terzo danneggiato.

26 Ottobre 2021

La responsabilità degli amministratori ex art. 2395 c.c.

L’art. 2395 c.c. è una norma di chiusura della disciplina della responsabilità risarcitoria degli amministratori di società azionarie che, fuori dai casi della responsabilità sociale e di quella nei confronti dei creditori per l’inosservanza degli obblighi di legge inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, sanziona atti di gestione colposi o dolosi commessi dagli amministratori stessi, che abbiano direttamente e specificamente arrecato un danno al patrimonio del socio o del terzo creditore.

L’inadempimento contrattuale di una società di capitali, ove anche conclamato, non comporta mai l’automatica responsabilità risarcitoria ex art. 2395 c.c. dei suoi amministratori nei confronti dell’altro contraente essendo a tal fine necessario che la condotta dell’amministratore sia “direttamente” – e, quindi, con effetto causale determinante – causatrice del danno.

L’inadempimento e persino la pessima amministrazione del patrimonio sociale non sono di per sé sufficienti a dare ingresso all’azione di responsabilità, tanto più in un quadro normativo in cui la mala gestio non è civilmente sanzionata, se non nella misura in cui si sia tradotta in un illecito, vale a dire in un atto doloso o almeno colposo che cagioni al terzo un danno contra ius: di talchè la semplice incapacità o inettitudine imprenditoriale causativa di un insuccesso non può di per se assurgere a fonte di responsabilità risarcitoria.